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Friedrich Nietzsche - Lou Andreas-Salome

Date post: 07-Jul-2016
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Page 1: Friedrich Nietzsche - Lou Andreas-Salome
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Table of ContentsFRIEDRICH NIETZSCHEINDICENOTA AL TESTOFRIEDRICH NIETZSCHEUNA LETTERA DI NIETZSCHE A MO’ DI PROLOGO11. LA SUA NATURA2. LE SUE TRASFORMAZIONI3. IL «SISTEMA NIETZSCHE»POSTFAZIONEDI DOMENICO M. FAZIO1. TAUTENBURG, SELVA TURINGIA, AGOSTO 18822. UNA STORIA DI DOLORE3. EVA CONTRO EVAAPPENDICE ICONOGRAFICA

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Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali dei loro autori è davvero il pensiero di una «mente sorella»: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso la storia della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: «Questo sistema è stato confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può considerarsi morta» — Platone, ad esempio [...]. Per quanto concerne la Sua «Caratterizzazione di me stesso» che, come Lei scrive, risponde a verità, mi ha fatto venire in mente quei miei versi della Gaia scienza, [...] dal titolo «Richiesta». Indovini un po', mia cara Lou, quel ch’io richiedo? [...]Ieri pomeriggio ero felice: il cielo era azzurro, l'aria mite e tersa, ero nella Rosenthal, richiamatovi dalla musica della Carmen. Sono rimasto seduto là per tre ore, e ho bevuto il secondo cognac di quest’anno, in ricordo del primo (ah! com’era cattivo!), e intanto meditavo, in tutta innocenza e malizia, se non avessi una qualche predisposizione alla follia. Alla fine mi sono detto: no. Poi è iniziata la musica della Carmen e per una mezz’ora sono stato sopraffatto dalle lacrime e dal batticuore. Quando leggerà queste cose, Lei concluderà di certo: sì! e prenderà un appunto per la «Caratterizzazione di me stesso».Venga presto a Lipsia, ma presto davvero! Perché soltanto il 2 ottobre? Adieu, mia cara Lou!

(Lettera di Friedrich Nietzsche a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente il 16 settembre 1882)

A CURA DI ENRICO DONAGGIO E DOMENICO M. FAZIO

In copertina: Friedrich Nietzsche nel 1882. (Fotografia di Gustav Schnitze)

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Scansion e, Ocr e conversione a cura di NietzscheLadri di Biblioteche

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TESTI E DOCUMENTI188

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Lou von Salomé nel 1882. (Fotografia di Heinrich Wirth)

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LOU ANDREAS-SALOMÉFRIEDRICH NIETZSCHE

A CURA DI ENRICO DONAGGIO E DOMENICO M. FAZIO

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Titolo originale: Friedrich Nietzsche in seinen Werken

© 2009 SE SRLVIA MANIN 13 - 20121 MILANO

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INDICE

Nota al testo

FRIEDRICH NIETZSCHE

Una lettera di Nietzsche a mo’ di prologo

1.    La sua natura

2.    Le sue trasformazioni

3.    Il « sistema Nietzsche »

POSTFAZIONE di Domenico M. Fazio

Appendice iconografica

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NOTA AL TESTO

La presente edizione è stata realizzata sulla base dell’esemplare appartenuto al Nietzsche-Archiv di Weimar dell’edizione originale, pubblicata a Vienna nel 1894. L’esemplare, catalogato il 21.X.1908 con la segnatura Kat/15, è oggi conservato presso la Herzogin Anna Amalia Bibliothek di Weimar, con la segnatura Ma. 487, e reca ancora alcune glosse di pugno di Elisabeth Förster-Nietzsche. Nel corso della traduzione, tuttavia, si è tenuta presente anche la precedente edizione italiana Nietzsche. Una biografia intellettuale, traduzione di A. Barbaranelli e G. Maragliano, con un saggio introduttivo di M. Ciampa e N. Fusini, pubblicata a Roma dalla casa editrice Savelli nel 1979 e ormai da tempo fuori commercio.I termini che nell’edizione originale erano evidenziati con il carattere spaziato sono stati resi con il corsivo. Sono stati conservati, fra parentesi tonda, i rimandi agli scritti di Nietzsche contenuti nel testo, ed eventuali riferimenti mancanti sono stati aggiunti fra parentesi quadra. I numeri arabi sono quelli degli aforismi, i numeri romani corrispondono invece ai paragrafi. Le note, salvo quelle racchiuse tra parentesi quadra, sono dell’autrice. I numeri tra parentesi quadra che ricorrono nel testo corrispondono alle pagine dell’edizione originale. Per i testi di Nietzsche si è fatto riferimento all’edizione italiana delle Opere, condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano 1964. Per Omero e la filologia classica è stata utilizzata l’edizione degli Appunti filosofici 1867-1869. Omero e la filologia classica, a cura di G. Campioni e E Gerratana, Milano 1993. Per le lettere di Nietzsche a Rèe anteriori al 1880 è stata adoperata l’edizione dell 'Epistolario 1875-1879, condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, traduzione italiana di M.L. Pampaioni Fama, «Notizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni, Milano 1995.

E.D.D.M.F.

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FRIEDRICH NIETZSCHE

A uno sconosciuto, in fedele ricordo

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Le due fotografie riprodotte da Lou Andreas-Salomé nel suo volume Friedrich Nietzsche in seinen Werken.

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UNA LETTERA DI NIETZSCHE A MO’ DI PROLOGO1

Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali dei loro autori è davvero il pensiero di una « mente sorella »: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso la storia della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: « Questo sistema è stato confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può considerarsi morta » - Platone, ad esempio [...].Qui, nel frattempo, il professor Riedel, il presidente dell’Associazione musicale tedesca, si è infiammato per la mia «musica eroica» (mi riferisco alla Sua Preghiera alla vita) -la vuole assolutamente e non è impossibile che la possa arrangiare per il suo splendido coro (uno dei primi in Germania, la «Associazione di Riedel»), Potrebbe essere, per così dire, un piccolo sentiero lungo il quale giungere entrambi insieme fino ai posteri - fatte salve altre vie.Per quanto concerne la Sua « Caratterizzazione di me stesso» che, come Lei scrive, risponde a verità, mi ha fatto venire in mente quei miei versi della Gaia scienza, a p. io, dal titolo «Richiesta». Indovini un po’, mia cara Lou, quel ch’io richiedo? [...]Ieri pomeriggio ero felice: il cielo era azzurro, l’aria mite e tersa, ero nella Rosenthal, richiamatovi dalla musica della Carmen. Sono rimasto seduto là per tre ore, e ho bevuto il secondo cognac di quest’anno, in ricordo del primo (ah! com’era cattivo!), e intanto meditavo, in tutta innocenza e malizia, se non avessi una qualche predisposizione alla follia. Alla fine mi sono detto: no. Poi è iniziata la musica della Carmen e per una mezz’ora sono stato sopraffatto dalle lacrime e dal batticuore. Quando leggerà queste cose, Lei concluderà di certo: sì! e prenderà un appunto per la « Caratterizzazione di me stesso ».Venga presto a Lipsia, ma presto davvero! Perché soltanto il 2 ottobre? Adieu, mia cara Lou!

Suo F.N.

1 [La lettera, scritta da Lipsia in risposta a una missiva di Lou Salomé andata perduta e risalente presumibilmente al 16 settembre 1882, è ora in F, Nietzsche, Briefwechsel, Kritische Gesamtausgabe hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin-New York 1975, vol. III, tomo 1, Briefe von Nietzsche 1880-1884, lettera n. 305 a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente il 16 settembre 1882, pp. 259-260. I versi di La gaia scienza

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a cui si fa riferimento nella lettera recitano: « So il cuore di uomini molti / E non so, di me, quel ch’io sono! / Troppo il mio occhio m’è presso - / Quel che vedo e che vidi non sono. / Più d’aiuto a me stesso sarei, / Se potessi situarmi più lontano. / Non sì lontano come il mio nemico, / Che già l’amico mio troppo è distante - / Ma a metà strada tra me stesso e lui! / Indovinate voi quel ch’io richiedo? » («Scherzo, malizia e vendetta», 25).]

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1LA SUA NATURA

Per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo: alla fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia.

Umano, troppo umano, 1,513

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[3]    «Mihi ipsi scripsi!» esclama ripetutamente Friedrich Nietzsche nelle sue lettere, dopo aver portato a termine un’opera. E la frase deve certo avere la sua importanza se a pronunciarla, riguardo a se stesso, è il primo stilista vivente, l’uomo a cui, come a nessun altro, è riuscito di dare espressione compiuta a ciascuno dei suoi pensieri, anche alle sfumature più sottili. Ma per chi sa leggere gli scritti di Nietzsche si tratta anche di una frase rivelatrice che rimanda all’oscurità in cui si trovano tutti i suoi pensieri, al velo mosso che li avvolge in mille forme; che rimanda al fatto che egli in fondo pensava soltanto per sé, scriveva per sé, giacché descriveva soltanto se stesso, volgeva in pensieri il proprio io.[4]    Se il compito principale del biografo è quello di far luce sul pensatore attraverso l’uomo, ciò vale in modo particolare per Nietzsche poiché in lui, come in nessun altro, si è verificata una piena coincidenza tra le sue opere e la sua biografia. Anche nel suo singolo caso vale dunque quanto da egli affermato in generale sui filosofi nella lettera sopra menzionata: i loro sistemi andrebbero passati al vaglio sulla base dei « documenti personali» degli autori. Un’idea che avrebbe poi trovato espressione nelle parole: « Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires» (Al di là del bene e del male, 6).Questo pensiero faceva da guida anche alla mia descrizione del carattere di Nietzsche, citata nella lettera precedente, che ebbi modo di leggere e discutere con lui nell’ottobre del 1882. Il lavoro conteneva un abbozzo della prima parte di questo libro e alcune sezioni della seconda; il contenuto della terza parte, il «sistema Nietzsche» vero e proprio, non aveva ancora visto la luce. Con il trascorrere degli anni, sulla scia delle opere che si susseguivano veloci, questo ritratto è venuto assumendo dimensioni sempre più estese e alcune sue parti sono già state pubblicate in forma di saggio.1 [5]Per quanto mi riguarda si trattava esclusivamente di delineare i tratti salienti della fisionomia spirituale di Nietzsche, quelli sulla cui base soltanto possono essere intese la sua filosofia e la sua evoluzione.A tal fine mi posi volontariamente dei limiti sia dal punto di vista della considerazione puramente teoretica, sia da quello della descrizione di vicende biografiche puramente personali. Né l’uno né l’altro aspetto dovevano essere trattati in forma troppo ampia se si voleva che le linee di fondo della natura nietzscheana venissero distintamente alla luce. Chi intendesse valutare Nietzsche sulla base della sua importanza teoretica, sulla base di ciò che la filosofia a venire può imparare da lui, si allontanerà deluso senza cogliere la sostanza del suo valore. Il valore dei suoi pensieri, infatti, non risiede nell’originalità teoretica, né in ciò che può essere fondato

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o confutato per via dialettica, bensì soltanto nella forza interiore con cui, nelle sue pagine, una personalità parla in quanto personalità, in ciò che, secondo le sue stesse parole, può esser sì confutato ma non «considerato morto». Chi, d’altro canto, intendesse muovere dalle vicende esteriori della vita di Nietzsche per cogliere il suo animo, si troverebbe tra le mani soltanto un vuoto involucro da cui lo spirito si è dileguato. Si può infatti affermare che Nietzsche non abbia mai vissuto volgendosi verso l’esterno:2 ogni esperienza della sua vita era così profondamente interiore da riuscire a esprimersi soltanto nel dialogo a quattr’occhi o nei pensieri racchiusi nelle sue opere. L’insieme di monologhi di cui [6] sono in sostanza composte le sue raccolte di aforismi in più volumi forma un solo grande libro di memorie con al fondo l’immagine del suo spirito. E' proprio quest’immagine che io cerco di tratteggiare: l’esperienza del pensiero nel suo significato per l’animo di Nietzsche - quel che di sé egli confessa nella sua filosofia.Sebbene da alcuni anni il nome di Nietzsche venga citato più di frequente di quello di qualsiasi altro pensatore, e benché siano in molti a prendere la penna sia per procacciargli adepti sia per polemizzare contro di lui, ciò nondimeno egli è rimasto pressoché uno sconosciuto per quel che riguarda i tratti di fondo della sua personalità spirituale. Da quando infatti la sparuta e dispersa schiera dei suoi lettori - quella che egli ha sempre avuto, composta da quanti lo sapevano leggere davvero - si è ingrossata fino a diventare una vasta schiera di seguaci, da quando ampie cerehie si sono impadronite di lui, a Nietzsche è toccato il destino che incombe su ogni autore di aforismi; alcune delle sue idee, estratte dal contesto e rese dunque interpretabili a piacere, sono divenute formule e parole d’ordine buone per tutte le tendenze che riecheggiano nella battaglia delle opinioni, nello scontro tra i partiti da cui Nietzsche si è tenuto del tutto alla larga. E' vero che egli deve la sua fama, acquisita con rapidità, a questa situazione, allo strepito che improvvisamente si è levato intorno al suo nome rimasto fino ad allora nel silenzio; ma proprio per questa ragione, ciò che di meglio, di assolutamente unico e incomparabile egli aveva da offrire non è forse stato notato né preso in considerazione, o è stato addirittura risospinto in un’oscurità ancora più fitta di quella in cui si trovava in precedenza. Molti tuttavia lo esaltano ancora con voce più forte, con tutta l’ingenuità di una credula mancanza di senso critico, riportando involontariamente alla mente una sua amara sentenza: «Parla il deluso: “Ho teso l’orecchio per udire l’eco e ho sentito soltanto lodi”» (Al di là del bene e del male, 99). Nessuno di loro lo ha veramente seguito, lontano [7] dagli altri e dalle scaramucce di ogni giorno, da solo nella commozione del suo animo; nessuno è stato al fianco di questo spirito solitario, difficile da scrutare, comune e straordinario, che osò farsi carico di cose mostruose e che crollò sotto il peso di una mostruosa follia.Nietzsche sembra dunque stare in mezzo a quelli che lo elogiano come uno straniero o un eremita che in quella cerchia smarrisca soltanto la via e a cui nessuno ha ancora tolto il manto per cogliere la sagoma nascosta; sembra stare in quella compagnia con il monito del suo Zarathustra sulle labbra: «

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Tutti costoro parlan di me la sera, seduti intorno al fuoco essi parlano di me, ma nessuno pensa - a me! Questo è il silenzio nuovo che ho imparato: il loro strepito intorno a me stende un manto sui miei pensieri» [Così parlò Zarathustra, « Della virtù che rende meschini »].Friedrich Wilhelm Nietzsche è nato il 15 ottobre 1844, unico figlio maschio di un pastore protestante, a Röcken nei pressi di Lützen, da dove suo padre venne successivamente trasferito a Naumburg. Ricevette la sua prima formazione nella vicina scuola di Pforta e poi si iscrisse come studente di filologia classica all’università di Bonn, dove allora insegnava il noto filologo Ritschl. Frequentò quasi esclusivamente le lezioni di quest’ultimo, a cui si legò molto anche dal punto di vista personale e lo seguì a Lipsia nell’autunno 1865. Al periodo di studi in questa città risale il primo incontro con Richard Wagner - le cui opere erano già note a Nietzsche -, conosciuto nel 1868 in casa della sorella, moglie del professor Brockhaus. Nel 1869, ancor prima della laurea, l’università di Basilea chiamò il ventiquattrenne Nietzsche alla cattedra del filologo Kiessling, trasferitosi allo Johanneum di Amburgo. Nietzsche fu dapprima [8] professore straordinario e, di lì a poco, ottenne l’ordinariato in filologia classica; l’università di Lipsia gli concesse il titolo di dottore senza che dovesse sostenere l’esame finale. Oltre ai corsi universitari, prese a tenere lezioni di greco nella terza e ultima classe del Pädagogium di Basilea - un istituto intermedio tra ginnasio e università -, presso cui insegnavano anche altri professori universitari come lo storico della cultura Jacob Burckhardt e il filologo Mähly. In questa scuola egli ebbe un grande ascendente sui suoi allievi; la sua rara dote di avvincere e far crescere i giovani, stimolandoli, potè dispiegarsi appieno. Burckhardt ebbe a dire una volta di lui: « Basilea non ha mai avuto finora un insegnante del genere». Burckhardt faceva parte della cerchia più ristretta degli amici di Nietzsche, che comprendeva anche lo storico della chiesa Franz Overbeck e il filosofo kantiano Heinrich Romundt. Con questi ultimi Nietzsche condivise un alloggio che dopo la pubblicazione delle Considerazioni inattuali fu soprannominato, nella buona società di Basilea, la « casa dei veleni ».Sul finire del suo soggiorno a Basilea Nietzsche visse per un certo periodo insieme alla sorella Elisabeth, quasi sua coetanea, che avrebbe successivamente sposato l’amico di gioventù Bernhard Forster e si sarebbe recata con lui in Paraguay. Nel 1870 Nietzsche prese parte come infermiere volontario alla guerra franco-prussiana; non molto tempo dopo comparvero i primi minacciosi sintomi di un’emicrania che si manifestava con dolori e malesseri acuti e periodicamente ricorrenti. A voler prestare fede alle dichiarazioni dello stesso Nietzsche, erano questi dolori di origine ereditaria gli stessi da cui il padre fu ucciso. All’inizio del 1876 si sentiva così malato agli occhi e al capo da doversi [9] far sostituire al Pädagogium; da quel momento le sue condizioni peggiorarono al punto da fargli sfiorare più volte la morte. «Scampato un paio di volte alla soglia della morte, ma terribilmente sofferente - vivo alla giornata, e ogni giorno ha la sua storia

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clinica ». Sono queste le parole con cui Nietzsche descrive, in una lettera a un amico, i dolori in mezzo ai quali egli trascorse circa quindici anni.3

Passò invano l’inverno 1876-1877 nel mite clima di Sorrento, dove si trovava in compagnia di alcuni amici: da Roma era giunta a trovarlo Malwida von Meysenbug, amica di lunga data (autrice del celebre Memorie di un’idealista e discepola di Wagner); dalla Prussia occidentale, il dottor Paul Rèe, a cui fin da allora lo legavano amicizia e affinità di aspirazioni. Alla piccola compagnia si era unito anche un giovane di Basilea, malato di petto, di nome Brenner, che tuttavia morì di lì a poco. Poiché nemmeno il soggiorno al Sud produsse effetti benefici sui suoi dolori, nel 1878 Nietzsche pose fine al suo insegnamento al Pädagogium e, nel 1879, alla sua docenza universitaria. Da allora condusse esclusivamente una vita solitaria, in parte in Italia - per lo più a Genova - in parte tra le montagne svizzere, specialmente nel piccolo villaggio di Sils-Maria, in Engadina, non lontano dal Passo del Maloja.Il corso esteriore della sua vita pare dunque concluso e, per così dire, giunto alla fine, mentre la sua esperienza di pensatore comincia veramente solo in questo momento: il pensatore Nietzsche, del quale ci occuperemo in queste pagine, ci viene distintamente incontro soltanto al termine di questa serie di vicende biografiche. Nondimeno, allorché prenderemo in esame i diversi periodi della sua evoluzione intellettuale, [10] dovremo nuovamente tornare con maggior precisione sulle esperienze e sui mutamenti, per ora soltanto abbozzati, che il destino gli aveva tenuto in serbo.La sua vita e la sua produzione si dividono fondamentalmente in tre periodi, ciascuno della durata di un decennio, che s’innestano l’uno sull’altro.L’insegnamento di Nietzsche a Basilea durò dieci anni, dal 1869 al 1879; l’attività di filologo coincide quasi per intero con il decennio del suo discepolato presso Wagner è con la pubblicazione di quelle opere che sono sotto l’influsso della metafisica di Schopenhauer; questo secondo decennio durò dal 1868 al 1878, anno in cui, quale segno di un mutamento di rotta filosofica, egli inviò a Wagner la sua prima opera positivistica: Umano, troppo umano.All’inizio degli anni settanta risale il suo legame con Paul Rèe, che si sarebbe interrotto nell’autunno del 1882 contemporaneamente alla conclusione di La gaia scienza, l’ultima tra le opere di Nietzsche che ancora poggi su di una base positivistica.Nell’autunno 1882 Nietzsche prese la decisione di rinunciare per dieci anni a ogni attività letteraria. In quel periodo di assoluto silenzio intendeva vagliare l’esattezza della sua nuova filosofia, che si volgeva in direzione della mistica, per quindi, nel 1892, far ritorno sulla scena come suo profeta. Ma egli non tenne fede a questo proposito e, proprio negli anni ottanta, dispiegò una produttività pressoché ininterrotta per poi ridursi al silenzio ancor prima dello scadere del decennio da lui prospettato: un violento attacco di emicrania pose fine all’improvviso, nel 1889, a ogni forma di lavoro intellettuale.Ma il lasso di tempo compreso tra la rinuncia alla cattedra di Basilea e la fine di ogni attività [11] durò a sua volta un decennio, dal 1879 al 1889. A partire

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da quel momento Nietzsche visse malato presso la madre a Naumburg, dopo un breve soggiorno nella clinica del professor Binswanger a Jena.Le due foto che compaiono in questo libro ritraggono Nietzsche nel suo ultimo decennio di sofferenze. Ed è certo questo il periodo in cui la sua fisionomia e tutto il suo aspetto esteriore paiono ricevere l’impronta più caratteristica: il periodo in cui ogni sua espressione era già tutta pervasa da una vita interiore profondamente agitata, che si dava a vedere anche in ciò che egli cercava di trattenere o di nascondere. Vorrei dire che questo elemento nascosto, il presentimento di una solitudine silenziosa, era quel che in un primo momento e con forza colpiva nell’aspetto di Nietzsche, ciò che affascinava in lui. All’osservatore frettoloso la sua figura non presentava infatti nulla che desse nell’occhio: l’uomo di media statura, dagli abiti estremamente semplici, ma anche estremamente curati, dai tratti distesi e dai capelli castani pettinati all’indietro, poteva facilmente passare inosservato. Il contorno della bocca, sottile e quanto mai espressivo, veniva quasi interamente nascosto dai grossi baffi pettinati in avanti; aveva una risata sommessa, un modo di parlare senza fragore, un’andatura cauta e meditabonda con le spalle che un po’ s’incurvavano; era difficile immaginarsi un uomo del genere in mezzo a una folla: portava su di sé il segno di chi resta in disparte, di chi sta da solo. Di incomparabile bellezza e di tale nobiltà di forma da attirare involontariamente lo sguardo erano invece le mani di Nietzsche, delle quali egli stesso credeva che rivelassero il suo spirito. In Al di là del bene e del male (288) si trova un’annotazione a riguardo: «Esistono uomini che inevitabilmente hanno spirito, [12] comunque vogliano tergiversare e tenere le mani dinanzi agli occhi rivelatori (- come se la mano non fosse rivelatrice! -) ».4

Anche gli occhi di Nietzsche erano rivelatori. Benché semiciechi, non possedevano nulla di quel carattere indagatore, ammiccante, involontariamente importuno che è proprio di molti miopi; parevano semmai i custodi e i guardiani di autentici tesori, di muti segreti che nessuno sguardo indiscreto avrebbe dovuto violare. La debolezza della vista conferiva ai suoi tratti un incanto del tutto particolare poiché, invece di riflettere le impressioni esteriori e cangianti, restituiva soltanto quel che egli traeva da dentro di sé. Questi occhi guardavano verso l’interno e al tempo stesso - ben oltre gli oggetti più vicini - lontano o, meglio, al suo interno come in una lontananza. In fondo tutta la sua ricerca altro non fu che un esplorare l’anima umana in direzione di mondi da scoprire, verso «le sue non ancora fino in fondo esaurite possibilità» (Al di là del bene e del male, 45) che egli, inesausto, creava e ricreava di continuo. Quando poi si dava a vedere così com’era, nel corso di una conversazione a quattr’occhi che lo agitava, allora una luce commovente poteva comparire e poi sparire nei suoi occhi; ma se era di umore tetro allora era la solitudine cupa, quasi minacciosa, che parlava da quegli occhi come da profondità inquietanti - quelle profondità in cui restò sempre solo, che non poteva dividere con nessuno, innanzi alle

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quali anche lui stesso talvolta provava orrore e in cui, alla fine, sprofondò il suo animo.Anche il contegno di Nietzsche suscitava la stessa impressione di segretezza e riservatezza. [13] Nella vita di ogni giorno era di una grande cortesia e di una mitezza quasi femminile, di un’equanimità duratura e benevola; traeva diletto da forme signorili di relazione con gli altri e vi attribuiva una grande importanza. Ma vi era sempre in ciò anche il gusto del travestimento - mantello e maschera per una vita interiore quasi mai messa a nudo. Mi ricordo che quando parlai per la prima volta con Nietzsche — era un giorno di primavera, nella chiesa di San Pietro a Roma - nei primi istanti fui colpita e tratta in inganno dalla sua compitezza ricercata. Ma una tale compitezza non poteva ingannare a lungo in quel solitario che portava la maschera con gli stessi modi maldestri con cui chi viene dai monti o dal deserto indossa la giacca dell’uomo di mondo. Ben presto si affacciò la domanda che egli stesso avrebbe poi compendiato nelle parole: « In occasione di tutto quello che un uomo rende manifesto, si può domandare: che cosa nasconderà? Da che cosa deve distogliere lo sguardo? Quale pregiudizio deve suscitare? E poi ancora: fino a che punto giunge la sottigliezza di questa dissimulazione? E, così facendo, in che cosa costui s’inganna?» [Aurora, 523].Questo aspetto rappresenta soltanto l’altro lato di quella solitudine alla cui luce deve essere intesa tutta la vita interiore di Nietzsche - un autoisolamento e un relazionarsi soltanto a se stesso che crescevano di continuo.Con l’aumentare della solitudine, ogni forma di esteriorità si muta in parvenza, in semplice velo ingannatore che la profondità solitaria tesse intorno a sé per farsi superficie che lo sguardo umano possa intendere. « Gli uomini che pensano profondamente appaiono a se stessi commedianti nei rapporti con gli altri, perché allora, per essere capiti, devono sempre simulare una superficie» (Umano, troppo umano, II, 232). Persino i pensieri di Nietzsche, [14] nella misura in cui vengono formulati in guisa teoretica, potrebbero essere messi in conto a questa superficie dietro la quale, profonda e muta come l’abisso, sta la vita interiore da cui sono emersi, simili a una « scorza che tradisce l’esistenza di qualcosa, ma ancor di più la nasconde» (Al di là del bene e del male, 32); infatti, egli scrive: « O si nascondono le proprie opinioni o ci si nasconde dietro le proprie opinioni» (Umano, troppo umano, LI, 338). TROVA POI UNA BELLA DEFINIZIONE DI SE STESSO ALLORCHÉ PARLA DI QUANTI STANNO «NASCOSTI SOTTO MANTELLI DI LUCE» (Al di là del bene e del male, 44), di chi si fa velo della chiarezza dei propri pensieri.In ogni fase della sua evoluzione intellettuale noi troviamo Nietzsche alle prese con qualche forma di mascheramento, ed è sempre una di queste forme a caratterizzare effettivamente il livello di sviluppo che le corrisponde: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera. [...] Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera » (Al di là del bene e del male, 40).

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«- Chi sei tu, viandante? [...] Riposati qui. [...] Ristorati! [... ] Che cosa ti serve per ristorarti? [...]- “Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh curioso che sei, che vai mai dicendo? Ma dammi ti prego...” - Cosa? Cosa? Parla! - “Una maschera ancora! Una seconda maschera!”...» (Al di là del bene e del male, 278).E non potrà non colpirci il fatto che nella misura in cui la sua solitudine e la sua arzigogolata relazione con se stesso si fanno esclusive, anche il significato del travestimento si fa più profondo e la vera natura e il vero essere si rendono sempre meno visibili, retrocedendo dietro le forme esteriori o l’apparenza che sta in primo piano. Già in II viandante e la sua ombra Nietzsche tratta de «La mediocrità come maschera». [15] «La mediocrità è la maschera più felice che lo spirito superiore possa portare, poiché essa non fa pensare alla gran massa, cioè ai mediocri, che si tratta di mascheramento: e tuttavia egli la mette su proprio per loro, per non irritare loro, anzi non di rado per compassione e bontà» (175). Questa maschera innocua si sarebbe poi mutata in una maschera tremenda che avrebbe nascosto cose ancora più tremende: « E talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo » (Al di là del bene e del male, 270), - e infine in un’ingannevole istantanea della risata divina che anela a trasfigurare il dolore in bellezza. Nel quadro della sua ultima mistica filosofica Nietzsche è così andato gradualmente affondando in un’estrema solitudine nel cui silenzio ci è impossibile seguirlo, di cui null’altro ci resta - quali simboli e accenni - se non le maschere ridenti dei suoi pensieri e la loro interpretazione; Nietzsche, invece, è già divenuto per noi ciò che una volta si firmò in una lettera: « Smarrito per sempre» (lettera dell’8 luglio 1881 da Sils-Maria).5

Questa intima solitudine, questo isolamento, rappresentano la cornice immutabile dalla quale, attraverso tutte le sue metamorfosi, il volto di Nietzsche ci guarda. Per quanto si travesta, egli porta sempre con sé « il deserto e la sacra invalicabile zona di frontiera, dovunque vada » (Il viandante e la sua ombra, 337). E in una lettera dall’Italia del 31 ottobre 1880, indirizzata a un amico,6 trova espressione anche il bisogno che la sua esistenza esteriore possa corrispondere a quest’intima solitudine: «La solitudine, la perfetta solitudine, mi si mostra con sempre maggior evidenza come il rimedio, così come una passione naturale [16] - e la condizione in cui possiamo realizzare le nostre cose migliori la dobbiamo creare anche a costo di molti sacrifici ».Fu però la sofferenza fisica che lo costrinse a mutare la sua solitudine interiore in una esteriore quasi altrettanto perfetta, che lo allontanò dagli uomini e che rese possibile solo a grandi intervalli anche lo scambio con amici - raro e sempre a quattr’occhi.Sofferenza e solitudine, sono dunque questi i due grandi segni del destino nell’evoluzione intellettuale di Nietzsche, segni che si fanno tanto più marcati quanto più ci si approssima alla fine. E sino alla fine essi mostrano un singolare e duplice aspetto che li fa apparire come un caso della vita, ma anche come una necessità intimamente voluta e condizionata da quanto

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accadeva nella sua anima. Anche la sua sofferenza fisica infatti, non diversamente dalla sua riservatezza e dalla sua solitudine, era il riflesso e il simbolo di qualcosa di profondo - e ciò in modo così immediato da far sì che egli Faccettasse, anche nelle sue vicende esteriori, come un buon amico o un compagno di strada che il destino gli aveva tenuto in serbo. In una lettera di condoglianze da Sils-Maria, di fine agosto 1881, scrisse queste parole: «Mi affligge sempre sapere che Lei soffre, che Le manca qualcosa, che ha perso qualcuno: in me, invece, la sofferenza e la privazione fanno parte della sostanza e non, come nel Suo caso, di quel che di non necessario e di non ragionevole vi è nella vita».7

A questo motivo sono da ricondurre i singoli aforismi, sparsi nelle sue opere, sul valore del dolore per la conoscenza. In essi Nietzsche descrive l’influsso sul pensiero degli stati d’animo dell’uomo malato e dell’uomo tornato alla salute, segue [17] con finezza il trascorrere di questi stati d’animo nella più alta sfera spirituale. Una malattia che torna periodicamente a manifestarsi, quale era quella di Nietzsche, divide costantemente un momento della vita dall’altro, una fase speculativa da quella che la precede. Questa doppia vita consente di conoscere e avere consapevolezza di una duplice natura delle cose. Fa sì che ogni cosa possa apparire sempre nuova allo spirito - prenda «un nuovo sapore» come Nietzsche ebbe a dire una volta in modo quanto mai appropriato [Crepuscolo degli idoli, «Morale come contronatura», 3] - e consente uno sguardo del tutto nuovo su ciò che è più consueto e quotidiano. Quel che esiste da sempre acquista così qualcosa della freschezza e della lieve rugiada dell’aurora, poiché una notte lo separa dal giorno precedente. Ogni guarigione diventa dunque per Nietzsche una palingenesi di se stesso e al contempo della vita attorno a lui e sempre di nuovo la sofferenza viene «inghiottita nella vittoria».Se è lo stesso Nietzsche ad accennare al fatto che la natura della sua sofferenza fisica si riflette in certa misura nelle sue opere e nei suoi pensieri, lo stretto legame tra pensiero e sofferenza emerge in modo ancor più chiaro quando si prende in esame l’insieme della sua produzione e del suo sviluppo intellettuale. Qui non ci si trova infatti di fronte a quei graduali cambiamenti della vita intellettuale attraverso i quali passa chiunque cresca fino a raggiungere la forma che gli è naturale, ai mutamenti di una normale crescita, bensì a mutamenti e variazioni repentine, ad alti e bassi della condizione mentale che paiono quasi seguire un loro ritmo e che, in ultima istanza, non sembrano corrispondere ad altro che a un ammalarsi e a un guarire del pensiero.Solo muovendo dall’indigenza più estrema di tutta la sua indole, soltanto prendendo le mosse dalla più tormentata brama di guarigione, gli si schiudono nuove conoscenze. Ma non appena [18] vi si consacra per intero, appena trova in esse un attimo di requie e le assimila alle proprie energie, allora viene colto come da un nuovo attacco febbrile, come da un inquieto e impellente eccesso di energia interiore che volge in ultimo il suo aculeo contro di sé e fa di lui stesso la sua malattia. « Soltanto una sovrabbondanza

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di forza è la dimostrazione della forza», afferma Nietzsche nella prefazione del Crepuscolo degli idoli; in questa sovrabbondanza la sua forza si cagiona sofferenza, si sfoga in lotte dolorose, si eccita in tormenti e commozioni di cui il suo animo vuole divenire fecondo.8 Affermando con orgoglio: «Quel che non mi uccide, mi rende più forte » (Crepuscolo degli idoli, « Sentenze e frecce», 8) egli si flagella non fino a uccidersi, non fino alla morte, ma proprio fino a quelle febbri e a quelle ferite di cui ha bisogno. Questa esigenza del dolore corre attraverso l’intera evoluzione di Nietzsche e ne costituisce l’autentica fonte spirituale-, essa trova l’espressione più adeguata nelle parole: « Spirito è la vita che taglia nella propria carne: nel suo patire essa accresce il suo sapere - lo sapevate? E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? [...] Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per l’incudine che lo    spirito è, e nemmeno per la crudeltà del suo maglio! » (Cosi parlò Zarathustra, «Dei saggi illustri»), «Quel tendersi dell’anima nella [19] sventura, [...] il suo brivido allo spettacolo della grande rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell’interpretare, nell’utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia, grandezza a essa toccò in dono - non lo ricevette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore? » (Al di là del bene e del male, 225).In questo modo di procedere viene ancora una volta alla luce con particolare evidenza qualcosa di duplice: da un lato l’intimo nesso, nella natura nietzscheana, tra vita speculativa e vita interiore, la dipendenza della sua mente dai bisogni e dalle emozioni della sua sfera intima; dall’altro, però, la peculiarità per cui da questa stretta connessione devono nascere sempre nuovi patimenti; ogni volta che si deve attingere la somma chiarezza, la chiara luce della conoscenza, l’anima deve prendere ad ardere di un fuoco che, tuttavia, non può mai defluire in calore benefico, ma deve invece ferire con vampate abbacinanti e fiamme che guizzano; anche in questo caso, come ebbe a dire nella lettera menzionata in precedenza, vi è « la sofferenza come sostanza » della vita.Come la sofferenza fisica fu all’origine dell’isolamento esteriore di Nietzsche, così è nella sua sofferenza psichica che va colta una delle cause più profonde del suo spiccato individualismo, della sua tenace insistenza sul «singolo» come « solitario » nella specifica accezione nietzscheana. La storia del «singolo» è senz’altro una storia di dolore e non può essere paragonata ad alcuna forma di individualismo generico.Il    suo contenuto mira assai meno all’« autosufficienza » che all ’«autosopportazione». Nei dolorosi alti e bassi del suo spirito, si può leggere la storia di altrettante ferite [20] che egli si infligge; Nietzsche tenta di occultare quest’eroica lotta con se stesso allorché pone al di sopra della propria filosofia questc audaci parole: « Questo pensatore non ha bisogno di nessuno che lo confuti: a ciò gli basta se stesso» (Il viandante e la sua ombra, 249).

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La sua straordinaria capacità di venire ogni volta a capo del più duro superamento di sé, di sentirsi sempre a casa in mezzo a nuove conoscenze, sembra esistere soltanto per rendere ancora più impressionante la separazione da quel che ha appena acquisito. «Arrivo! Abbatti la tua capanna e vienimi incontro! » gli impone lo spirito; e con mano caparbia egli si priva del rifugio e si pone di nuovo in cerca delle tenebre, dell’avventura e del deserto, con il lamento sulle labbra: «Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le più belle cose che non mi seppero trattenere uno sguardo irato - giacché non mi seppero trattenere» (La gaia scienza, 309). Non appena un modo di considerare le cose gli diviene congeniale, eccolo porre in pratica le sue stesse parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa» (Al di là del bene e del male, 73).9

Il mutamento delle opinioni e l' impulso alla trasformazione sono dunque profondamente radicati nella filosofia di Nietzsche, sono d’importanza decisiva per il tipo di conoscenza a cui essa perviene. Non a caso, nel canto finale di Al di là del bene e del male, egli si definisce come « un lottatore che troppe volte se stesso [21] ha domato [...]. Troppe volte ha conteso con la sua stessa forza, ferito e impedito dalla sua stessa vittoria » [« Da alti monti. Epodo »].Nel quadro di questa eroica disponibilità a rinunciare alle proprie convinzioni, questo impulso al mutamento prende addirittura il posto, nell’animo nietzscheano, della fedeltà alle proprie convinzioni.10 In II viandante e la sua ombra egli afferma: « Noi non ci faremmo bruciare per le nostre opinioni: non siamo abbastanza sicuri di esse. Ma ci faremmo forse bruciare per poter avere e per poter cambiare le nostre opinioni» (333). E nelle pagine di Aurora questo proposito viene espresso con le belle parole: «Mai trattenere o tacere a te stesso qualcosa che può essere pensato contro il tuo pensiero! Promettilo a te stesso! Ciò rientra nella prima rettitudine del pensare. Ogni giorno devi anche muovere contro te stesso la tua campagna di guerra. Una vittoria e una trincea conquistata non sono più faccende tue, ma della verità, - ma anche la tua sconfitta non è più affar tuo! » (370). Le frasi sono precedute dal titolo « In che senso il pensatore ama il suo nemico». Ma questo amore per il nemico nasce dall’oscuro presentimento che in quello possa essere celato un amico futuro e che nuove vittorie attendano soltanto colui che cade sconfitto; nasce dal presentimento che questo processo psichico di autotrasformazione, sempre uguale e sempre doloroso, rappresenti per Nietzsche l’inaggirabile presupposto di ogni energia creatrice: « E' lo spirito che ci salva, perché non bruciamo e ci carbonizziamo completamente [...]. Liberati dal fuoco, procediamo allora, sospinti dallo spirito, di opinione in opinione [...] come nobili traditori di tutte le cose» (Umano, troppo umano, 1, 637); [22] «noi dobbiamo diventare traditori, commettere infedeltà; abbandonare sempre di nuovo i nostri ideali» (Umano, troppo umano, 1, 629).

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Nella misura in cui si chiudeva in se stesso, questo solitario doveva per così dire moltiplicarsi, smembrarsi in una miriade di pensatori; soltanto così egli riusciva ad avere una vita spirituale. L’istinto che lo spingeva a ferirsi era solo un aspetto del suo istinto di autoconservazione: soltanto gettandosi sempre di nuovo nella sofferenza riusciva a sottrarsi al proprio dolore. « Solo al tallone io sono invulnerabile. [...] E solo dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni. - Così cantò Zarathustra » (Così parlò Zarathustra, « Il canto dei sepolcri»); lui, a cui una volta la vita «ha confidato questo segreto»: «Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa» (Così parlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi»).11

Su null’altro Nietzsche ha invero meditato più a lungo e più a fondo che su questo autentico enigma della sua natura, e su null’altro le sue opere ci informano con altrettanta dovizia come su questo tema: per lui, in fondo, tutti gli enigmi della conoscenza non erano null’altro che ciò. Tanto più a fondo si conosceva, tanto più palesemente [23] tutta la sua filosofia diventava un gigantesco riflesso del suo autoritratto - e tanto più ingenuamente egli attribuiva ciò all’immagine riflessa. Come tra i filosofi gli astratti autori di sistemi hanno universalizzato i propri concetti sino a farne un sistema di leggi che regola il mondo, cosi Nietzsche universalizza la sua anima ad anima del mondo. Ma per tratteggiare l’immagine di quest’anima non c’è prima bisogno di ricondurre l’insieme delle sue teorie a lui stesso, come si farà nelle parti successive di questo libro. Una certa comprensione di essa è già possibile a questo punto dell’esposizione, dove Nietzsche viene considerato soltanto in riferimento alle sue doti intellettuali. La ricchezza di queste predisposizioni era troppo variegata perché a Nietzsche riuscisse di conservarla secondo un ordine preciso: la vitalità e la volontà di potenza di ciascun talento e degl: impulsi del suo spirito condussero necessariamente a una rivalità mai messa a tacere tra le diverse doti. Fianco a fianco, senza mai conoscere pace e tiranneggiandosi a vicenda, conviveva; no in Nietzsche un musicista di grande talento, un pensatore dallo spirito libero, un genio religioso e un poeta nato. Egli stesso tentò di spiegare su questa base la particolarità della sua personalità intellettuale e si pronunciò spesso sul tema nel corso di approfondite conversazioni.Nietzsche distingue due grandi insiemi di caratteri: quello in cui i diversi sentimenti e i diversi istinti si trovano in armonia tra loro, formando una sana unità, e quello in cui gli istinti e i sentimenti si reprimono e si combattono vicendevolmente. Paragona la situazione del primo insieme - a livello del singolo individuo - a quella dell’umanità al tempo del branco, prima dell’emergere di una forma di stato: come in quella situazione l’individuo possiede la propria individualità e il proprio sentimento di potenza solo nella cerchia ristretta del branco, [24] così avviene per i singoli istinti nel chiuso della personalità di cui costituiscono la quintessenza. Le nature che appartengono al secondo insieme, invece, vivono nella propria interiorità così come vivrebbero gli uomini durante una guerra di tutti contro tutti: la personalità stessa, in certa misura, si dissolve in un aggregato di

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personalità istintuali dispotiche, in una molteplicità di soggetti. Questa condizione può essere superata soltanto se si riesce a istituire dall’esterno una forza superiore, un’autorità più forte in grado di dominare tutte le altre, come fa la legge di un organismo statale per la quale esistono solamente poteri a essa sottoposti. Infatti, quel che nei caratteri che abbiamo descritto per primi accade da sé, in modo istintivo - l’inquadramento del singolo nella totalità -, qui deve essere conquistato e strappato alle singole brame tiranniche creando una gerarchia inesorabilmente rigida degli istinti tra loro.12

E' a questo punto che Nietzsche scorge la possibilità di un 'autoaffermazione complessiva attraverso la sofferenza di ogni singola parte. Qui sta rinchiuso in nuce il significato originario della dottrina della décadence, che egli svilupperà in seguito, insieme al pensiero fondamentale secondo cui esiste la possibilità che si diano capacità e azioni eminenti attraverso una sopportazione e un patimento continui. In una parola, qui gli si mostra il significato dell’eroismo come ideale. A strapparlo all’ideale e alla sua tirannia fu la sua straziante imperfezione: « Le nostre manchevolezze sono gli occhi con cui vediamo l’ideale » (Umano, troppo umano, II, 86).[25] «Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e insieme alla propria suprema speranza» (La gaia scienza, 268). E vorrei aggiungere ancora tre aforismi che egli mi scrisse una volta13 e che mi paiono chiarire in modo più netto la sua concezione: «Il contrario dell’ideale eroico è l’ideale dell’armonico sviluppo onnilaterale - un opposto bello e assai desiderabile! Ma un ideale soltanto per uomini profondamente buoni. (Ad esempio: Goethe) ».14

Quindi: «Eroismo - è il convincimento di un uomo che aspira a un obiettivo rispetto al quale egli non tiene conto di sé. Eroismo è la buona volontà nei confronti del tramonto assoluto di se stessi ».E infine il terzo aforisma: « Gli uomini che aspirano alla grandezza sono normalmente uomini cattivi; è il solo modo che hanno di sopportarsi».Il termine «cattivo», così come il termine «buono» che compare negli aforismi precedenti, non deve essere assunto in questo contesto secondo il suo significato corrente, né in un’accezione valutativa, ma solo come la designazione di uno stato di fatto; in quanto tale, esso designa costantemente per Nietzsche la « guerra interna » a un animo umano, quella stessa condizione che egli avrebbe definito più tardi con l’espressione «anarchia negli istinti». Nella sua ultima fase di creatività, dopo avere ormai assunto un determinato orientamento teorico, questa condizione della singola anima si estende fino a diventare un’immagine dell’intera civiltà umana; le parole d’ordine recitano allora: [26] guerra interna = décadence, e vittoria = tramonto dell’umanità in vista della creazione di un’umanità superumana; in origine, però, si trattava soltanto di un’immagine della sua propria anima.Nietzsche distingue la natura armonica o unitaria e la natura eroica o scissa secondo i due tipi dell’uomo dell’azione e dell’uomo della conoscenza; in

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altre parole: il tipo di natura opposta alla sua e la sua propria natura. Uomo dell’azione può diventarlo, a suo avviso, l’uomo non diviso e non frammentato, l’uomo dell’istinto, la natura signorile. Se questi segue la propria evoluzione naturale, il suo carattere si farà sempre più sicuro e nettamente pronunciato, la sua forza compressa avrà modo di scaricarsi in azioni sane. Gli ostacoli che il mondo esterno potrà forse mettergli di fronte, conterranno sempre per lui anche una sfida e una sollecitazione: nulla è infatti più consono alla sua natura della lotta coraggiosa con la realtà esterna, in nulla l’integrità della sua salute si dà tanto a vedere come nella sua abilità bellica. Per grande o piccolo che possa essere il suo intelletto, esso è a ogni modo al servizio di questa fresca forza naturale e di ciò che le fa bene e le giova - non intralcia i suoi fini, non la disperde, non se ne va per la sua strada.Le cose stanno in modo del tutto diverso per l’uomo della conoscenza. Invece di cercare una salda unione dei propri istinti, che li protegga e li conservi, egli lascia che si sparpaglino nel modo più ampio possibile; quanto più ampio è lo spazio che riescono ad abbracciare, tanto meglio; quante più sono le cose verso cui tendono i loro tentacoli, e che toccano, vedono, ascoltano, annusano, tanto più adatti essi risultano ai suoi fini, ai fini della conoscenza. La vita, infatti, è ormai per lui un «mezzo della conoscenza» (La gaia scienza, 324) ed egli grida ai suoi compagni: [27] « Vogliamo essere noi stessi i nostri esperimenti e le nostre cavie! » (La gaia scienza, 319). Rinuncia così volontariamente all’unità di se stesso: quanto più il suo soggetto è polifonico, tanto più gli è caro:Tagliente e mite, rozzo e delicato,Alla mano e bizzarro, sozzo e mondo,Un convegno di saggi e di buffoni:Tutto ciò voglio essere e son io,Colomba a un tempo e serpente e porco !                      (La gaia scienza, « Scherzo, malizia e vendetta», 11)Noi uomini della conoscenza - egli afferma - dobbiamo infatti essere riconoscenti « a Dio, al diavolo, alla pecora e al verme dentro di noi [...], con anime manifeste e occulte, di cui difficilmente si potrebbero scorgere le intenzioni ultime, con prosceni e quinte che nessun piede riuscirebbe a percorrere sino alla fine [...], noi siamo dalla nascita gli amici giurati e gelosi della solitudine» (Al di là del bene e del male, 44). L’uomo della conoscenza possiede un’anima che «ha la scala più lunga e può giungere alla maggiore profondità [...], l’anima dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare [...]; che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: — la più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso» (Così parlò Zarathustra, « Di antiche tavole e nuove »).Con un’anima di questo genere si diventa un «mille-piedi e un mille-tentacoli» (Al di là del bene e del male, 205), sempre in procinto di sfuggire a

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se stessi per raggiungere cose diverse: « Una volta che si sia trovato se stesso, bisogna essere capaci di tempo in tempo di perdersi - e poi di ritrovarsi; presupposto che si sia un pensatore. [28] A questo è infatti dannoso essere legato sempre a una stessa persona » (Il viandante e la sua ombra, 306). Lo stesso intendono dire i versi:Già guidare me stesso m’è odioso!Mi piace, come gli animali del bosco e del mare,Smarrirmi per un buon tratto di tempo,Almanaccando intanarmi in un labirinto soave,E finalmente, dalle lontananze, attirare me stesso a casa,E sedurre me stesso a me stesso!              (La gaia scienza, «Scherzo, malizia e vendetta», 33)Questi versi sono intitolati II solo, vale a dire colui che se ne sta il più possibile appartato dalle pretese e dalle battaglie ilei mondo; chi conduce una vita del genere diventa sempre meno bellicoso nei confronti del mondo esterno, nella misura in cui la sua sfera interiore viene stordita e scossa dalle guerre, le vittorie, le sconfitte e le conquiste che hanno luogo nei suoi istinti. Nell’isolamento di chi è immerso in se stesso e nell’ampliamento dei propri confini, questa vita cerca invece un manto che la risparmi e la protegga dalle vicende della vita esteriore con il loro clamore e il loro pericolo - ma ciò nondimeno essa si trova sempre in lotta e viene sempre ferita; a quest’uomo della conoscenza ben si attaglia la descrizione: «Un uomo che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta, spera, sogna cose fuori dall’ordinario; che viene colto dai suoi stessi pensieri quasi dal di fuori [...], come da quel genere di avvenimenti e di fulmini che è suo proprio » (Al di là del bene e del male, 292).Al suo interno, infatti, l’atteggiamento bellicoso degli istinti non è venuto meno, ma si è caso mai accresciuto: « Ma chi considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto proprio essi possano qui essere entrati in giuoco come geni ispiratori (oppure demoni e coboldi), si accorgerà che [...] [29] ognuno di questi, nella sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo volentieri a presentare precisamente se stesso come l’ultimo fine dell’esistenza e come il più legittimo signore di tutti gli altri istinti. Ogni istinto infatti è bramoso di dominio: e come tale cerca di filosofare». Proprio per questo motivo la conoscenza dell’uomo di conoscenza offre una « decisiva testimonianza di quel che egli è - vale a dire in quale disposizione gerarchica i più intimi istinti della sua natura siano posti gli uni rispetto agli altri » (Al di là del bene e del male, 6).Nonostante ciò, attraverso la conoscenza, in questa guerra interna ha luogo una metamorfosi che le conferisce un nuovo significato - un significato salvifico e redentore; nella conoscenza, infatti, tutti gli istinti trovano un fine comune, una direzione verso cui tendere nella misura in cui è proprio la conoscenza quel che ciascun istinto vuole conquistare. La dispersione del capriccio e la tirannia dell’arbitrio sono così infranti. Gli istinti tengono ferma la loro « molteplicità di soggetto », ma la sottomettono a un potere più

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elevato che li comanda come dei servitori o degli strumenti; rimangono bellicosi e selvaggi, ma rispetto allo scopo della loro guerra divengono all’improvviso degli eroi chiamati a combattere e a versare il loro sangue; l’ideale eroico campeggia sul loro egoismo e indica l’unica via possibile verso la grandezza. I pericolo dell’anarchia è così scampato a tutto vantaggio d' una sicura « struttura sociale degli istinti e degli affetti ».Mi torna ora alla mente una frase pronunciata da Nietzsche che esprime in modo assai caratteristico la gioia dell'uomo della conoscenza per l’ampiezza e la profondità che la sua natura è in grado di abbracciare - il piacere che ne deriva di poter intendere la sua vita come un « esperimento di chi è volte alla conoscenza» (La gaia scienza, 324): [30] «Somiglio a una vecchia fortezza, resistente alle intemperie, con molte cantine e sotterranei nascosti; non mi sono ancora insinuato fino a] fondo dei miei cunicoli bui, non sono ancora giunto alle mie cavità sotterranee. Non dovrebbero reggere il peso dell’intero edificio? Non dovrei potermi arrampicare dalle mie profondità sino a tutte le superfici della terra? Non potremmo fare ritorno a noi stessi attraverso ogni cunicolo buio? ». 15

Lo stesso stato d’animo è reso anche dall’aforisma 249 di La gaia scienza intitolato «Il sospiro dell’uomo della conoscenza»: «Oh, questa mia cupidigia! In quest’anima non dimora alcun disinteresse; ma, piuttosto, un sé bramoso di tutto, che vorrebbe vedere attraverso molti individui come attraverso i suoi stessi occhi e mercé loro vorrebbe afferrare, come per mezzo delle sue stesse mani - un sé che va sempre a riprendersi anche tutto il passato, che niente vuole perdere di quel che potrebbe appartenergli. Oh, questa fiamma della mia cupidigia. Oh, se potessi rinascere in cento esseri! ».In tal modo il carattere avvolgente e vorace di una natura disarmonica e «senza stile» risulta un enorme vantaggio: «Se noi volessimo ed osassimo un’architettura secondo la modalità delle nostre anime [...], nostro modello dovrebbe essere il labirinto» (Aurora, 169); non un labirinto, però, in cui l’anima si smarrisce, ma un labirinto attraverso il cui intrico essa giunge alla conoscenza. « Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante» (Cosi parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»): questa sentenza di Zarathustra vale per quell’anima che è nata per un’esistcnza stellare, per la luce come suo autentico nume tutelare, per la sua autentica trasfigurazione. Nietzsche ha descritto questo con il titolo di «Una specie luminosa di ombra»: [31] « Proprio accanto agli uomini affatto notturni si trova quasi regolarmente, come a essi attaccata, un’anima di luce. Essa è per così dire l’ombra negativa che quelli gettano» (Il viandante e la sua ombra, 258).Quest’anima di luce risulta tanto più luminosa quanto più possente e notturna, e dunque quanto più tirannica e pericolosa, è la natura che, per così dire, si lascia bruciare in essa, che getta tutte le sue doti come materiale infiammabile dentro il sacro fuoco. Il modo in cui ciò accade varia secondo la prospettiva gnoseologica adottata dall’uomo della conoscenza: la concezione nietzscheana della «conoscenza» cambia nei diversi periodi della

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sua evoluzione intellettuale e, di conseguenza, anche quel che egli definisce la « gerarchia interna degli istinti » si riassesta nel movimento della lotta che ha luogo all’interno di questa ricca natura geniale. Si può dire che la storia dell’evoluzione spirituale di Nietzsche sia costituita nell’essenziale dalle figure cangianti di questi riassestamenti finché, nel suo ultimo periodo, l’intera sua vita interiore prende a riflettersi in teorie filosofiche - finché l’anima d’ombra e l’anima di luce non divengono rappresentanti dell’umano e del superumano.Il processo psicologico descritto nelle pagine precedenti permane tuttavia lo stesso, nei suoi tratti di fondo, attraverso tutte le metamorfosi. Con le parole di Nietzsche: « Se si ha del carattere, si ha anche una propria tipica esperienza interiore, che ritorna sempre» (Al di là del bene e del male, 70). Ora, è proprio questa la sua tipica esperienza interiore, che sempre ritorna, da cui egli sempre si risollevò, innalzandosi sopra di sé, nella quale infine sprofondò e andò in rovina.Ma in una tale esperienza non poteva che rovinare. Nel medesimo processo che sempre di nuovo gli assicurava guarigione ed esaltazione, si celava già infatti il momento patologico [32] di questo tipo di evoluzione intellettuale. Ciò non balza subito all’occhio. Si poteva anzi supporre che, in una forza capace di curarsi in questo modo, dovesse essere racchiusa tanta salute quanta se ne trova nella pacata tranquillità con cui le forze si dispiegano armoniose. O addirittura una salute ancora più grande, giacché è in grado di rafforzarsi e dare prova di sé anche in quelle situazioni che cagionano febbri e ferite; poiché è in grado di trasformare lotte e malattie in uno stimolo per la vita e per la conoscenza, in sprone e perspicacia rispetto ai suoi scopi: una salute dunque che abbraccia, senza ricevere danno, lotta e malattia.E così Nietzsche, soprattutto in ultimo, soprattutto nel momento in cui era più malato, avrebbe voluto che la storia della sua sofferenza venisse intesa come la storia di una guarigione. Questa natura possente riusciva senz’altro a curarsi e a ritrovarsi nel suo ideale conoscitivo anche tra dolori e contrasti. Appena raggiunta la guarigione, essa aveva però nuovamente bisogno di lotte e sofferenze, di febbre e ferite. Era lei che, dopo essere riuscita a guarire, le chiamava di nuovo a sé, si volgeva contro se stessa, quasi traboccando, per scivolare in una nuova situazione di malattia. Sopra ogni obiettivo della conoscenza raggiunto, sopra ogni gioia legata a una guarigione, stavano le parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa », infatti « troppa fu la sua gioia per non mutarsi in fastidio » (La gaia scienza, « Scherzo, malizia e vendetta», 47); e Nietzsche si sentiva «ferito dalla sua gioia» (Così parlò Zarathustra, «Il fanciullo con lo specchio»), «Causarsi dolori. [33] La spregiudicatezza di pensiero è spesso segno di uno stato interno agitato che desidera stordimento» (Umano, troppo umano, 1, 581).La salute non è dunque l’istanza superiore e soverchiante che trasforma l’elemento patologico, in quanto secondario, in un suo strumento, ma entrambe - salute e malattia - si condizionano e sono addirittura racchiuse

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l’una nell’altra: insieme rappresentano una peculiare scissione di se stessi all’interno di un’unica vita spirituale.È quest intima scissione che si trova alla base del processo spirituale descritto finora. All’apparenza, la poliedricità, la « molteplicità di soggetto » della natura che desidera in modo disarmonico dovrebbe venire superata [aufgehoben] in una unità superiore, in un fine che indichi la direzione. Ma all’interno dell’anima multiforme questo processo si attua in modo tale per cui è un solo istinto a sottomettere tutti gli altri; per dirla altrimenti: la poliedricità viene ridotta a una scissione che si fa sempre più profonda. Come la salute riesce solo in misura ridotta a contenere, soverchiandolo, l’elemento malato, altrettanto poco l' istinto dominante riesce a contenere e controllare effettivamente tutta la sfera interiore nel momento in cui la pone al servizio della conoscenza: con i suoi occhi spirituali, l’uomo della conoscenza guarda certamente a se stesso come a una seconda natura, ma resta pur sempre prigioniero della propria; è soltanto in grado di scinderla, non di coglierla nel suo insieme. Ben lungi dall’essere un potere che unisce, quello della conoscenza è quindi piuttosto un potere che divide, ma la profondità della scissione crea l’apparenza che la meta di tutti gli impulsi si trovi al loro esterno. A causa di questa autoillusione, tutte le forze premono con entusiasmo in direzione della conoscenza, come se in tal modo potesse riuscir loro di sottrarsi a se stesse e alla loro scissione.[34] A ogni modo si potrebbe credere che almeno una sorta di unità della vita nel suo complesso venga raggiunta per il fatto che da un lato la vita istintuale, con lo sguardo della conoscenza rivolto su di lei, attinge una straordinaria consapevolezza, mentre dall’altro il pensiero riceve un inusuale vitalità dal mondo delle emozioni e degli istinti. Il risultato, tuttavia, è esattamente l’opposto, poiché il pensiero dissolve l’immediatezza di tutti gli impulsi interiori e d’altro canto i moti dell’interiorità mitigano costantemente il rigore del pensiero. In tal modo, di fatto, la scissione complessiva penetra sempre più a fondo in ogni singola parte.Ma, nonostante una gratificazione elevata, addirittura liberatrice, che cosa si ricava da una forma di autoinganno così palese? Che cosa fa sì che un’illusione sia in grado di rendere felice e trasfigurare l’intero esistente nonostante continue malattie e ferite? Con questa domanda siamo giunti all’autentico «problema Nietzsche»; essa ci rimanda innanzi tutto alla segreta relazione esistente in lui tra l’elemento sano e quello patologico.Mentre infatti la pluralità dei singoli istinti non legati tra loro si scinde, per così dire, in due entità che si fronteggiano a vicenda delle quali una domina e l’altra serve - per l’uomo viene a crearsi la possibilità di percepire se stesso non soltanto come un essere diverso, ma anche come un essere superiore. Nel momento in cui sacrifica a se stesso una parte del proprio io, egli si trova a un passo da un ’esaltazione religiosa. Nei turbamenti del suo spirito, in cui immagina di realizzare l’ideale eroico della rinuncia e della dedizione autentiche, fa erompere in se stesso un afflato religioso.

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[35] Fra tutte le grandi doti di Nietzsche non ve n’era nessuna, più di quella del genio religioso, che fosse legata in modo tanto inesorabile e profondo alla totalità del suo spirito. In un’altra epoca, in un altro periodo culturale, una dote simile non avrebbe certo consentito a questo figlio di un pastore protestante di diventare un pensatore. Ma sotto le spinte del nostro tempo, il suo spirito religioso prese la via della conoscenza, pur riuscendo a realizzare ciò che desiderava con l' urgenza dell’istinto, quale espressione naturale della sua salute, soltanto in modo malato; vi riuscì cioè soltanto attraverso una relazione con se stesso, invece che con una potenza vitale esterna e più grande di lui. In tal modo egli ottenne esattamente il contrario di ciò a cui aspirava: non una più alta unità del suo essere, ma la sua più intima scissione, non la fusione di tutti i sentimenti e gli istinti in un individuo indiviso, ma il loro dissidio in un « dividuo ». Aveva pur sempre raggiunto una salute, ma con i mezzi della malattia; una vera forma di adorazione, ma con i mezzi dell’inganno; una vera autoaffermazione e autoesaltazione, ma solo arrecando a se stesso delle ferite.Nel potente afflato religioso da cui origina ogni conoscenza di Nietzsche si trovano dunque indissolubilmente intrecciati in un nodo sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole l'annientamento e brama di autodivinizzazione, infermità dolente e convalescenza vittoriosa, ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza. Si avverte in esso la connessione degli opposti che dipendono senza tregua l’uno dall’altro; si avverte il traboccare e lo spontaneo precipitare [36] nel caos, nelle tenebre e nell’orrore, di forze eccitate e tese allo spasimo e poi ancora un insistere verso la luce, la tenerezza: l’insistere di una volontà che « si libera dall’oppressione della pienezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi» («Tentativo di autocritica», nuova edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica) - un caos che vorrebbe far nascere il Dio, che lo deve far nascere.«Nell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, assurdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmatore, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e c’è anche un settimo giorno... » (Al di là del bene e del male, 225). E in queste parole si dà a vedere come una continua sofferenza e una continua autodivinizzazione si condizionino a vicenda, come luna crei sempre da capo il suo opposto, non diversamente da quello che Nietzsche trova espresso nella storia del re Vigvamitra, «che da millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una tale fiducia in se stesso da intraprendere la costruzione di un nuovo cielo [...]. Chiunque abbia mai una volta edificato un “nuovo cielo” trovò la potenza per questa impresa unicamente nel suo proprio inferno» (Genealogia della morale, III, 10). Un altro luogo in cui egli ricorda questa leggenda si trova in Aurora, immediatamente dopo la descrizione di quei sofferenti assetati di potere che hanno eletto se stessi a oggetto più degno della loro brama di violenza: « Il trionfo dell’asceta su se stesso, il suo occhio che, volto in tal modo

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all’interiorità, vede l’uomo scisso in un essere che soffre e in un essere che fa da spettatore, e soltanto a partire da quel momento s’affisa nel mondo esteriore per raccogliere da esso il legno, per così dire, [37] del proprio rogo, quest’ultima tragedia dell’istinto dell’eccellere, in cui continua ancora ad esistere soltanto una persona che si carbonizza in se stessa [...]». Questo brano, che contiene la descrizione di ogni ascesi quale finora si è data e dei suoi motivi, si conclude con l’osservazione: « Sì, realmente, con l’asceta, il circolo di questa aspirazione ad eccellere è forse pervenuto alla sua fine, esaurendo quindi in sé il suo svolgimento? Non potrebbe questo cerchio ancora una volta essere ripercorso a partire dal suo principio, con la salda fondamentale disposizione interiore dell’asceta e, al tempo stesso, del dio compassionevole? » (Aurora, 113).In Umano, troppo umano egli afferma al riguardo: «Si dà un atteggiamento di sfida verso se stessi, alle cui più sublimate manifestazioni appartengono varie forme di ascesi. Certi uomini hanno cioè un bisogno così grande di esercitare la loro forza e la loro sete di dominio che [...] finiscono col tiranneggiare certe parti del proprio essere. [...] Questo spezzare se stesso, questo scherno per la propria natura, questo spernere se sperni, così apprezzato dalle religioni, è propriamente un altissimo grado di vanità. [...] L’uomo prova una vera voluttà nel violentarsi con pretese eccessive e nel divinizzare poi nella sua anima questo qualcosa che tirannicamente esige» (1, 137); e ancora: «Propriamente, cioè, a lui importa solo di scaricare la sua emozione; allora, per alleviare la sua tensione, afferra magari le lance dei nemici e se le affonda nel petto» (1, 138); e infine: «Egli flagella la sua divinizzazione di sé col disprezzo di sé e la crudeltà, si allieta al selvaggio insorgere delle cupidigie [...], sa tendere un laccio al suo affetto, ad esempio a quello dell’estrema sete di potenza, sicché esso trapassi in quello dell’estrema [38] umiliazione e la sua anima maltrattata venga strappata con questo brusco contrasto da tutti i suoi cardini [...]; è questa in fondo una rara specie di voluttà che egli desidera, ma forse quella voluttà in cui sono intrecciate in un nodo tutte le altre. Novalis, per esperienza e per istinto una delle autorità in fatto di santità, svela una volta con ingenua gioia l’intero segreto: “E' assai stupefacente che l’associazione di voluttà, religione e crudeltà non abbia già da gran tempo attirato l’attenzione degli uomini sulla loro intima parentela e comune tendenza”» (1, 142).Un’indagine corretta su Nietzsche è in effetti nella sostanza un’indagine di psicologia religiosa; è solo nella misura in cui si riesce a far luce sull’ambito della psicologia della religione che partono chiari fasci di luce sul significato del suo carattere, sulla sua sofferenza e sulla sua autobeatificazione. Tutta la sua evoluzione procede in certa misura dal fatto che egli perse la fede, dall’« emozione per la morte di Dio », questa emozione tremenda che riecheggia ancora fin nell’ultima opera che Nietzsche compose già sulla soglia della follia, fin nella quarta parte cioè del suo Così parlò Zarathustra. [39] La possibilità di trovare nelle forme più diverse della divinizzazione di se stesso un surrogato16 «per il Dio perduto»: è questa la storia del suo spirito,

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delle sue opere, della sua malattia. E' la storia dell ' «inclinazione religiosa nel pensatore», che conserva la sua forza anche dopo la distruzione del Dio a cui era rivolta e alla quale possono essere applicate queste parole di Nietzsche: «Il sole è già tramontato, ma il cielo della nostra vita arde e risplende ancora di esso, sebbene non lo vediamo più» (Umano, troppo umano, 1, 223). O si legga invece il toccante sfogo sentimentale dell’«uomo folle»; «Dove se n’è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo'. voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! [...] Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? [...] Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi! » (La gaia scienza, 125).Nel suo ultimo periodo di creatività, Nietzsche fornisce a se stesso la risposta a questo sfogo di tormento e nostalgia, con le parole di Zarathustra: [40] «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva » (Così parlò Zarathustra, « Della virtù che dona»); parole queste con cui diede espressione al più intimo fondamento spirituale della sua filosofia.La nostalgia di Dio, con il suo tormento, divenne un impulso alla creazione di Dio, e ciò dovette necessariamente esprimersi nella divinizzazione di se stesso. Con sguardo felice Nietzsche colse nel fenomeno religioso l’eccezionale soddisfacimento dell’aspirazione più individuale, la volontà di trarre da sé la più sublime felicità. Questo individualismo, che è il cuore nascosto di ogni fenomeno religioso, questo « sublime egoismo », che fluisce in modo libero e spontaneo in tutto quel che è religioso nel momento in cui crede di essere in relazione con una forza vitale o divina che proviene dall’esterno, in Nietzsche, l’«uomo della conoscenza», fu risospinto su di sé. Egli giunse così a far propria nel suo intimo l’empietà che l’intelletto gli imponeva con forza insieme alla sua ardita conclusione: «Se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dèi» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). A queste parole della seconda parte dello Zarathustra si possono collegare le altre: «E' persino nella tua vanità sarà adorazione! » (Così parlò Zarathustra, «Dei sublimi»). In esse trova espressione il pericolo che aleggia sul « solitario » e sul « singolo » che deve dividersi e sdoppiarsi: «Uno è sempre troppo intorno a me [...]. Sempre uno per uno - finisce per fare due! » (Così parlò Zarathustra, « Dell’amico »).La posizione che Nietzsche assunse nei confronti di questo dualismo, il modo in cui si difese o cedette di fronte a esso, e i fenomeni in cui ne cercò le

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tracce - tutto ciò condiziona il variare delle sue conoscenze come i tratti peculiari delle sue diverse fasi intellettuali, finché alla fine questo dualismo divenne per lui un’allucinazione e una visione, una realtà dotata di vita che gli offuscò lo spirito e gli soffocò l’intelletto. [41] Non riuscì più insomma a difendersi a lungo da se stesso: fu questo il dramma dionisiaco del « destino dell’anima » (Genealogia della morale, «Prefazione») in Nietzsche stesso. La solitudine della vita interiore nella quale lo spirito vuole giungere al di là di se stesso non è mai più profonda e dolorosa di quanto lo sia nella sua fase conclusiva. Si potrebbe dire che il muro più compatto tra quelli che Nietzsche costruì intorno a sé sia quello di una parvenza dolce, divina, scintillante che gli aleggia attorno, un miraggio che ne sfuma e dilegua i confini. Ogni via verso l’esterno torna sempre alle profondità di questo io che alla fine deve diventare Dio e mondo, paradiso e inferno - ogni via conduce un passo più in là, verso l’ultima profondità e il tramonto.Questi tratti di fondo della natura di Nietzsche danno conto di quell’elemento, al contempo raffinato ed esaltato, che al pari di una spezia piccante è mescolato a ciò che di grande e significativo vi è nella sua filosofia. Esso viene gustato nel modo più intenso dai palati non corrotti di menti giovani e sane o anche da chi, nella pace tranquilla di concezioni fideistiche, non ha mai sperimentato sulla propria pelle tutte le lotte infuocate e tremende di uno spirito libero con aneliti religiosi. Ma è anche questo, in buona misura, che ha fatto di Nietzsche il filosofo del nostro tempo. In lui ha infatti assunto una forma tipica ciò che agita nel profondo la nostra epoca, quell’« anarchia negli istinti » delle forze creatrici e religiose che vogliono saziarsi con troppa irruenza per potersi accontentare delle briciole che cadono per loro dal tavolo della conoscenza moderna. Che non possano accontentarsi delle briciole, [42] ma che al tempo stesso non possano venir meno nel loro atteggiamento nei confronti della conoscenza - insaziabili nella loro brama appassionata, quanto instancabili nello stento e nella privazione: ciò costituisce il tratto maestoso e impressionante della filosofia di Nietzsche. Questo è anche ciò che essa esprime in formulazioni sempre nuove: una serie di poderosi tentativi di risolvere questo problema della tragedia moderna, questo enigma della sfinge moderna per poi gettarla nell’abisso.Ma proprio per questa ragione è sull’uomo e non sul teoreta che dobbiamo indirizzare il nostro sguardo al fine di trovare una via tra le opere di Nietzsche; l’acquisizione, il risultato delle nostre considerazioni non consisterà perciò in una nuova immagine teorica del mondo che ci si darà a vedere nella sua verità, ma nell’immagine di un’anima umana nella sua combinazione di grandezza e malattia. La rilevanza filosofica delle metamorfosi nietzscheane sembra in un primo momento venire ridotta dal fatto che in esse avviene esattamente ogni volta lo stesso processo. Essa viene invece rafforzata e accentuata dal fatto che il mutare delle concezioni coinvolge sempre la sua natura. A mutare non sono cioè soltanto

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le linee di fondo di una teoria, ma anche ogni suo stato d’animo, l’aria, la luce, mutano insieme a loro. Mentre intendiamo pensieri confutarsi l’un l’altro, scorgiamo mondi sprofondare e mondi nuovi emergere. Proprio su ciò riposa l’autentica originalità dello spirito di Nietzsche: attraverso il medium della sua natura, che riferisce ogni cosa a se stessa e ai suoi bisogni piti intimi, ma che pure a ogni cosa si abbandona, gli si schiudono esperienze e fatti di universi speculativi che noi invece sfioriamo soltanto con l’intelletto senza mai coglierne l’autentica profondità, [43] né dunque trarne impulsi creativi. Da un punto di vista teoretico egli si richiama a maestri e modelli a lui estranei, ma i loro elementi fecondi e le loro acquisizioni sono per lui soltanto lo stimolo per dispiegare la sua vera produttività.17 Il minimo turbamento avvertito dal suo spirito basta a produrre in lui una pienezza di vita interiore e di esperienza di pensieri. Una volta ebbe a dire: «Esistono due specie del genio; quello che soprattutto procrea e vuole procreare e quello che si lascia volentieri fecondare e partorisce» (Al di là del bene e del male, 248). Nietzsche apparteneva senza dubbio alcuno alla seconda specie. Nella sua natura spirituale vi era - in notevoli dimensioni - qualcosa di femminile,18 ma egli era in certa misura un genio perché gli risultava quasi indifferente da dove provenisse lo stimolo. Se noi proviamo a raccogliere tutto quel che ha fecondato la sua terra, [44] allora ci ritroviamo davanti a qualche modesto seme di grano; ma se entriamo nella sua filosofia, allora prende a stormirci attorno una foresta di alberi che regalano ombra, ci avviluppa la prodiga vegetazione di una natura grandiosa e selvaggia. La sua superiorità consisteva nel fatto di offrire a ogni singolo seme che cadeva sul suo terreno interiore quel che egli stesso aveva indicato come il contrassegno dell’autentico genio: «Un nuovo e fecondo terreno germogliante con una forza fresca di foresta vergine e non sfruttata» (Il viandante e la sua ombra, 118).

1 Una caratterizzazione complessiva di Nietzsche, in cui vengono per la prima volta individuati e definiti con precisione i tre periodi della sua evoluzione intellettuale, apparve sul supplemento domenicale della «Vossische Zeitung», numeri 2, 3 e 4, 1891. La «Freie Bühne» presentò inoltre una esposizione più dettagliata di singoli punti con il titolo di Zum Bilde Friedrich Nietzsches, fascicoli 3, 4 e 5, anno 11, 1891 e fascicoli 3 e 5, anno III, 1892; «Das Magazin für Litteratur» dell’ottobre 1892 con quello di Ein Apokalyptiker e «Der Zeitgeist», 20, 1893, con quello di Ideal und Askese.2 «Per quanto riguarda la vita, le cosiddette “esperienze” - chi di noi ha anche soltanto una sufficiente serietà per queste cose? O abbastanza tempo? A questo proposito temo che non si sia mai stati veramente “dentro la faccenda”: appunto non abbiamo là il nostro cuore - e neppure il nostro orecchio» (Genealogia della morale, «Prefazione», 1).

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3 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, trad. it. di M.L. Pampaloni Fama, «Notizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni, Milano 1995, lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 383.]4 Un’importanza analoga egli assegnava alle sue orecchie eccezionalmente piccole e ben modellate, di cui ebbe a dire che erano le vere « orecchie per le cose inaudite» (Così parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra».)5    [Si tratta di una cartolina indirizzata a Paul Rèe, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 124 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, 8 luglio 1881, pp. 101-102.]6    [Si tratta ancora una volta di Rèe; la cartolina inviata da Stresa è ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]7 [Si tratta nuovamente di una lettera a Rèe; per il passo in questione: F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1881, p. 124.]8 «C’è un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, raccapricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? [... ] Ci sono forse - un problema per psichiatri - nevrosi della salute? ». (« Tentativo di autocritica », nuova edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica [1886].)9    Si veda anche questo aforisma: «Quando, un giorno, arriviamo a toccare la nostra meta - mostriamo con orgoglio quali lunghi viaggi abbiamo fatto per giungervi. In verità non c’eravamo accorti d’essere in viaggio. Ma appunto per questo c’eravamo spinti tanto lontano da illuderci di essere, in ogni luogo, a casa nostra » (La gaia scienza, 253).10    Per questo motivo egli definisce le convinzioni «nemici della verità»: «Le convinzioni sono nemici della verità più pericolosi delle menzogne» (Umano, troppo umano, 1, 483).11 Fu questo istinto a fare di lui, più di quanto egli stesso volesse ammettere, quel «don Giovanni della conoscenza» che descrive come segue: «Nella caccia e negli intrighi della conoscenza - su su fino alle stelle più alte e lontane della conoscenza - è ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finché non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella conoscenza è l'assolutamente nocivo, come fa il bevitore, che finisce per darsi all’assenzio e all’acquavite. Così, alla fine, s’incapriccia dell’inferno - è l’ultima conoscenza, quella che lo seduce. Forse anch’essa lo delude, come ogni cosa quando è conosciuta! E allora dovrebbe starsene immobile per tutta l’eternità, inchiodato alla delusione, trasformato lui stesso nel convitato di pietra, con un desiderio di un’ultima cena della conoscenza che non gli toccherà mai più - poiché l’intero mondo delle cose non avrà più un boccone da offrire a questo affamato» (Aurora, 327).12    «Dover combattere gli istinti - questa è la formula della décadence; fintantoché la vita è ascendente, felicità e istinto sono eguali» (Crepuscolo

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degli idoli, «Il problema di Socrate», 11): questo egli afferma e così egli distingue un décadent da una natura signorile.13    [Si tratta di tre dei sei aforismi che Nietzsche scrisse durante il soggiorno a Tautenburg con Lou Salomé nell’agosto 1882; l’autrice ha trascritto soltanto tre di essi non rispettando la successione e la numerazione proposte da Nietzsche: F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 287 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg 8-24 agosto 1882, pp. 242-243.]14    Nietzsche, sia qui detto di passaggio, intende la figura di Goethe in modo del tutto differente da come la intenderà alcuni anni dopo (nel Crepuscolo degli idoli). In questo aforisma egli vede ancora in Goethe l’opposto della sua natura priva di armonia; successivamente, invece, uno spirito a lui profondamente affine che non conosceva armonia, ma che aveva rimodellato se stesso in modo armonico attraverso l’esercizio e il talento.15 [Nel diario per Rèe scritto a Tautenburg nell’agosto 1882, nel quale sono annotati i suoi colloqui con Nietzsche, l’autrice aveva scritto: «Vi sono, nel carattere di Nietzsche, come in una vecchia fortezza, molti sotterranei oscuri e molti trabocchetti segreti che sfuggono all’osservatore superficiale e tuttavia costituiscono la sua vera natura »; cfr. Friedrich Nietzsche, Paul Ree, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegtiung, hrsg. von E. Pfeiffer, Frankfurt 1970, p. 185.]16 Si veda in La gaia scienza quanto viene detto sull’adempimento della missione umana attraverso la creazione di Dio da parte dell’uomo: «Parla l’uomo pio. Dio ci ama perché ci ha creato! / “L’uomo creò Dio” - ribattete voi, o sottili. / E amar non deve quel che lui ha creato? / Perché l’ha creato, perfin negarlo dovrebbe? / Ciò zoppica, ha lo zoccolo del diavolo » (« Scherzo, malizia e vendetta», 38).17    Pur prescindendo da quei pensatori che hanno determinato direttamente le varie fasi dell’evoluzione nietzscheana, molti dei suoi pensieri si possono già rinvenire in filosofi precedenti. Su questa circostanza, del tutto inessenziale rispetto all’autentico valore di Nietzsche, hanno recentemente insistito, con il più grande clamore, persone a cui soltanto il caso ha messo tra le mani questo o quel libro di filosofia. In questo mio scritto non si fa espressamente riferimento alcuno alla posizione di Nietzsche nella storia della filosofia, poiché ciò avrebbe presupposto un esame dettagliato e sistematico delle sue singole tesi in base al loro valore oggettivo, il che deve essere affidato a un lavoro specifico.18    A volte, quando lo avvertiva in modo particolare, era propenso a ritenere quello femminile come l’autentico genio: « Gli animali la pensano diversamente dagli uomini riguardo alle donne: per loro la femmina è un essere che produce [...]. La gravidanza ha reso le femmine più miti, più caute, più timorose, più contente di soggiacere: allo stesso modo la gravidanza dello spirito genera il carattere del contemplativo che è affine a quello femminile: sono le madri maschili» (La gaia scienza, 72).

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2LE SUE TRASFORMAZIONI

Il serpente che non può disquamarsi, perisce. Così pure gli spiriti ai quali si impedisce di mutare le loro idee: cessano di essere spirito.

Aurora, 573

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[47] La prima trasformazione a cui approdò Nietzsche nella sua vita spirituale risale agli albori della sua infanzia o, quanto meno, della sua fanciullezza.Si tratta della rottura con la fede cristiana, una separazione di cui si parla di rado nelle sue opere. Ciò nonostante essa può essere considerata come il punto di partenza delle sue trasformazioni poiché getta una luce particolare sugli aspetti caratteristici della sua evoluzione. Le affermazioni in materia, che ho avuto modo di discutere con lui in modo particolarmente approfondito, riguardavano principalmente i motivi che provocarono questa rottura. Nella maggior parte dei casi, infatti, sono motivi intellettuali quelli che spingono gli uomini di inclinazione religiosa ad abbandonare, attraverso dolorosi conflitti, la loro fede. Ma allorché, in casi più rari, il distacco origina dalla vita interiore, il processo si svolge allora senza conflitti né sofferenze: l’intelletto disgrega infatti solo quel che è già morto da tempo, un cadavere. Nel caso di Nietzsche ebbe luogo un singolare intreccio di queste due possibilità: non furono soltanto motivi intellettuali a liberarlo dalle idee inculcategli fin dai primi anni di vita, né la vecchia fede svanì in risposta ai bisogni del suo animo. Egli invece insisteva sempre sul fatto che [48] il cristianesimo della parrocchia dei suoi genitori avesse aderito alla sua anima in modo « liscio e morbido » « come una pelle sana », e che l’osservanza di ogni precetto cristiano gli fosse risultata facile come il seguire una propria predisposizione. Nietzsche considerava questo suo « talento » per ogni religione, quasi innato e inalienabile, come una delle ragioni della simpatia che i cristiani seri gli riservavano ancora quando un profondo abisso spirituale già lo separava da loro.L’istinto oscuro che per la prima volta lo spingeva fuori da una cerchia di pensieri che gli stavano a cuore si risvegliò proprio in seno a questa calda sensazione di «sentirsi a casa» da cui l’indole di Nietzsche si sentiva avvolta. Per conquistare se stesso attraverso una poderosa evoluzione, il suo spirito richiedeva lotte dell’anima, dolori ed emozioni; aveva bisogno che il suo animo attuasse la separazione da questa quieta situazione di pace perché la sua forza creatrice dipendeva dall’eccitazione e dall’esaltazione della sua sfera interiore: l'esigenza del dolore nella «natura decadente» si manifesta per la prima volta nella vita di Nietzsche.«In tempi di pace l’uomo guerriero si scaglia contro se stesso » (Al di là del bene e del male, 76) e si esilia nell’estraneità di pensieri in cui egli, da quel momento in poi, è destinato a vagare eternamente senza sosta né requie. Ma in questa irrequietezza prende a vivere per Nietzsche un’insaziabile nostalgia che guarda indietro al paradiso perduto, mentre

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la sua evoluzione intellettuale lo spinge ad allontanarsi sempre più da esso in linea retta.Discutendo dei mutamenti che si era già lasciato alle spalle, Nietzsche ebbe a dire una volta quasi scherzando: [49] « Sì, così adesso inizia e va avanti il cammino - fino a dove? Quando sarà stato percorso fino in fondo, dove si andrà allora? Se si esaurissero tutte le possibili combinazioni, cosa ne seguirebbe? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede cattolica? ». E il pensiero nascosto che faceva da sfondo a questa affermazione uscì dall’ombra con le parole che egli aggiunse in seguito, seriamente: «A ogni modo il circolo potrebbe essere più probabile della stasi».Un movimento che ritorna su di sé, che non giunge mai a un punto d’arresto: è questo in verità il tratto distintivo dello spirito nietzscheano. Le combinazioni possibili non sono affatto infinite, ma al contrario alquanto limitate, poiché l’impulso che sospinge in avanti, che ferisce se stessi, che non fa giungere i pensieri allo stato di quiete, scaturisce in tutto e per tutto dall’intima natura della personalità: per lontano che paiano vagare, anche i pensieri permangono costantemente legati ai medesimi processi dell’animo che li costringono ogni volta al servizio dei bisogni dominanti. Avremo modo di vedere in quale misura la filosofia di Nietzsche descriva realmente un circolo e di come alla fine, in alcune delle sue più intime e segrete esperienze di pensiero, l’adulto si riaccosti al fanciullo, sicché per il corso della sua filosofia valgono le parole: « Ecco un fiume che di rigiro in rigiro rifluisce alla sorgente! » (Così parlò Zarathustra, «Della virtù che rende meschini»). Non è dunque un caso se Nietzsche, nel suo ultimo periodo di creatività, sia pervenuto alla sua mistica dottrina dell’eterno ritorno: l’immagine del circolo - di un eterno cambiamento in un’eterna [50] ripetizione - sta come un simbolo miracoloso e un segno segreto sulla porta di accesso alle sue opere.Quale suo primo «giuoco d’infanzia letterario» (Genealogia della morale, «Prefazione»), Nietzsche nomina un saggio della sua fanciullezza - dal titolo Sull’origine del male - in cui «com’è logico» fece di Dio «il padre del male». Anche nel corso delle conversazioni menzionava questo saggio per dimostrare il fatto di essersi dedicato a lambiccamenti filosofici già in un periodo in cui si trovava ancora stretto nell’insegnamento filologico della scuola di Pforta.Se seguiamo Nietzsche dalla sua infanzia ai suoi anni di formazione e quindi al lungo periodo della sua attività di filologo, vediamo chiaramente anche in questo caso come fin dall’inizio la sua evoluzione, persino da un punto di vista meramente esteriore, si svolgesse all’insegna di una certa autocostrizione. Già la rigorosa formazione filologica doveva costituire una costrizione per l’ardore di questo giovane spirito la cui copiosa creatività non trovava di che nutrirsi. Questo vale in particolare per l’indirizzo seguito dal suo maestro Ritschl. Questi rivolgeva principalmente l’attenzione, tanto dal punto di vista del metodo che da quello dei problemi, sulle relazioni formali e

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sui nessi esteriori, mentre l’intimo significato delle opere letterarie restava sullo sfondo. Ciò lasciò tuttavia un segno sul particolare modo di procedere di Nietzsche il quale, successivamente, trasse esclusivamente i suoi problemi dal mondo interiore, con la propensione a subordinare l’elemento logico a quello psicologico.Ciò nondimeno fu proprio qui, con questa rigida disciplina e su questo terreno pietroso, che il suo spirito produsse così precocemente frutti maturi e prodotti eccezionali. Una serie [51] di eccellenti ricerche filologiche1 costella la sua strada dagli anni di formazione fino alla cattedra di Basilea. Non è inverosimile supporre che uno scatenamento troppo precoce di tutto il patrimonio intellettuale di Nietzsche attraverso lo studio della filosofia o delle arti lo avrebbe da subito sviato verso quella sfrenatezza a cui sembrano approssimarsi alcune delle sue ultime opere. Il freddo rigore della scienza filologica gli offrì invece, per un certo lasso di tempo, quel legame che univa e teneva insieme i suoi « molteplici impulsi», pur rivelandosi anche una catena per molte delle cose che in lui stavano assopite.Proseguendo nei suoi studi specialistici egli ebbe però modo di avvertire in che misura la forza di talenti fino ad allora trascurati lo tormentasse e lo inquietasse non meno di un profondo dolore. Era in particolare l’impulso verso la musica da cui non riusciva a distogliersi e spesso gli capitò di tendere l’orecchio verso note musicali, mentre avrebbe voluto porsi in ascolto di pensieri. Le note lo accompagnarono lungo gli anni come un lamento in musica, finché la sua emicrania gli rese impossibile ogni esercizio musicale.[52] Ma per quanto grande possa essere stato il contrasto tra il Nietzsche filologo e quello che si occupa di filosofia, non mancano certo numerosi elementi di mediazione che da un periodo conducono all’altro. Proprio la direzione di ricerca seguita da Ritschl, che pareva rendere più acuto questo contrasto, veniva invece incontro a una certa particolarità dello spirito di Nietzsche, rafforzando e consolidando la sua propensione a produrre. Nell’indirizzo del maestro si rinveniva l’aspirazione a una certa perfezione artistica dal punto di vista formale e a una trattazione virtuosistica delle questioni scientifiche resa possibile da una loro rigorosa delimitazione e dal soffermarsi su di un aspetto ben determinato. In Nietzsche, l’esigenza di limitarsi volontariamente e di concentrarsi su di un compito, di portarlo a termine in modo puramente artistico, è in stretto rapporto con l’impulso fondamentale della sua natura, quello cioè di andare ogni volta al di là di ciò che egli ha prodotto, di allontanarlo da sé come una faccenda sbrigata, come qualcosa che appartiene al passato. Un tale alternarsi di compiti e problemi è ovvio per il filologo; la tipica affermazione nietzscheana: «Una cosa, quando è spiegata, cessa di interessarci» (Al di là del bene e del male, 80) potrebbe averla scritta un filologo; per costui, infatti, fare luce su di una questione oscura significa effettivamente mutare quest’ultima in una faccenda già sbrigata di cui non è più necessario occuparsi. Ma i motivi che condizionano il frequente mutamento di pensieri

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nietzscheano sono profondamente diversi, ed è perciò quanto mai interessante osservare come in questo punto gli estremi della filologia e della filosofia paiano toccarsi e come Nietzsche [53] sia riuscito a imporre la propria soggettività anche in questo travestimento per lui estraneo - quello del sobrio filologo - in questo assoggettamento quanto mai spirituale.Il filologo non si occupa mai di qualcosa mettendo in gioco ciò in cui crede, la sua umanità, non lo assimila in alcun modo e vi rimane vincolato solo finché gli è di qualche utilità per risolvere il suo problema. Per Nietzsche, al contrario, occuparsi di un problema significa prima di ogni altra cosa conoscere, cioè, farsi scuotere; e convincersi di una verità vuol dire per lui venire sopraffatto da un’esperienza, « essere mandato gambe all’aria», come ebbe a dire in un’occasione. Egli si faceva carico di un pensiero come di un destino che coinvolge tutta la persona e la tiene in sua balia; viveva il pensiero molto più di quanto non lo pensasse, ma lo faceva con un fervore così appassionato, con una dedizione così smisurata, che finiva per esaurirvi tutto se stesso; e, al pari di un destino vissuto fino in fondo, il pensiero si staccava nuovamente da lui. Soltanto in quella dimensione di sobrio distacco che segue naturalmente a emozioni di questo genere egli consentiva a una conoscenza ormai lasciata alle spalle di agire su di lui in modo puramente intellettuale, soltanto allora le si consacrava con la lucidità e la calma del suo intelletto indagatore. Il suo notevole impulso al mutamento nell’ambito delle conoscenze filosofiche era condizionato dall’impulso smisurato verso emozioni sempre nuove di natura oltre modo spirituale; la somma chiarezza era così per lui soltanto il fenomeno che sempre si accompagna alla sazietà e all’estenuazione.Ma i suoi problemi non lo abbandonavano nemmeno in questa estenuazione, e la sazietà concerneva soltanto le soluzioni che occultavano temporaneamente la fonte dell’inquietudine. [54] La soluzione a cui perveniva era quindi ogni volta il segno di un mutamento di stato d’animo; soltanto così, infatti, il problema poteva essere conservato e la soluzione cercata ogni volta da capo. Se la prendeva allora con autentico odio contro tutto quel che stava dietro la soluzione, che lo aveva condotto a essa, che gli era stato d’aiuto per trovarla. Dal momento che « una cosa, quando è spiegata, cessa di interessarci», Nietzsche, in fondo, non voleva sapere nulla della soluzione definitiva di un problema, e qualsiasi parola esprimesse all’apparenza la completa risoluzione di un pensiero valido rappresentava per lui la tragedia della sua vita; non voleva infatti che un giorno i problemi della sua ricerca potessero smettere di interessarlo; voleva invece che continuassero a smuoverlo nel più profondo dell’animo ed era in certa misura adirato verso la soluzione che lo derubava del problema; quindi le si gettava ogni volta addosso con tutta la finezza e la raffinatezza della sua scepsi e la costringeva, provando gioia per il male altrui - contento della propria sofferenza e del danno che così si arrecava! - a restituirgli di nuovo il suo problema.

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Si può perciò affermare fin da ora con un certo diritto che ciò che tratteneva a lungo lo spirito appassionato di Nietzsche all’interno di un indirizzo speculativo, di un modo di considerare le cose, ciò che ne rendeva impossibile un ulteriore cambiamento e trasformazione, doveva restare per lui, in ultima istanza, qualcosa di inspiegabile; doveva resistere alla forza di tutti i tentativi di trovare una soluzione, estenuare la sua intelligenza con enigmi mortali, quasi crocifiggerlo a questi enigmi. Allorché infine, procedendo lungo questa via, l’eccitazione del suo animo era divenuta più intensa della forza intellettuale che essa spronava con violenza, soltanto a quel punto non vi era più per lui alcuna via di scampo [55 ] e di fuga. La fine del cammino si perdeva allora necessariamente nell’oscurità, nel dolore e nel segreto, con i sentimenti mossi che assillavano i pensieri, abbattendosi su di essi come un mare in tempesta.Chi intenda seguire fino in fondo il sentiero zigzagante di Nietzsche, giungerà al punto in cui questi, colto da orrore innanzi all’ultima spiegazione e all’ultima soluzione del problema, si getta al fondo dell’eterno enigma della mistica.Ma lo spirito di Nietzsche si distingueva per due altre doti che, in ugual misura, tornarono utili al filologo e, in seguito, al filosofo. La prima era il suo talento per le sottigliezze, la sua genialità nel trattare le cose più fini, quelle che richiedono una mano delicata e sicura per non essere distrutte o deturpate. È questa la dote che, a mio avviso, avrebbe fatto successivamente di lui uno psicologo ancor più raffinato che grande, o meglio: il più grande nel cogliere e dar forma alle finezze. Quanto mai significativa è l’espressione che egli utilizzò una volta (Il caso Wagner, 3) per indicare il modo in cui le cose si presentano agli occhi dell’uomo della conoscenza: «La filigrana delle cose».Connessa a questo aspetto è l’inclinazione a seguire le tracce di ciò che è nascosto e recondito, a portare alla luce quel che si cela; il colpo d’occhio per ciò che è oscuro insieme all’intuizione e alla sensibilità che colmano istintivamente le lacune lasciate dal sapere: su ciò poggia gran parte della genialità di Nietzsche e questo è strettamente legato alla sua grande potenza artistica in cui lo sguardo su quel che è unico e distinto si slarga magnificamente in un’ampia e libera visione del contesto generale, del quadro d’insieme. [56] Egli ha posto questo talento al servizio di una critica rigorosamente filologica, per leggere con scrupolo2 tra le righe dei testi quel che di sbiadito e dimenticato essi contenevano; in questo sforzo si spinse tuttavia oltre l’ambito dei suoi studi eruditi. Il modo in cui ciò avvenne ci introduce al suo più significativo lavoro filologico, quello sulle Fonti di Diogene Laerzio.Dedicarsi alla stesura di questo scritto costituì per Nietzsche l’occasione di studiare a fondo la vita degli antichi filosofi greci e la sua relazione con la vita dei greci nel suo complesso. Nelle sue opere successive, segnatamente in Umano, troppo umano, sarebbe ritornato una volta sul tema. Leggendo queste pagine si può osservare come egli abbia potuto installarsi e

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lambiccarsi il cervello tra le macerie della tradizione, volgendo in poesia le figure andate perdute negli spazi vuoti, nelle parti deturpate, ricreandole e aggirandosi entusiasta « fra creazioni del tipo più potente e più puro ». Scruta dentro al tramonto di quell’epoca « come nel laboratorio di uno scultore di tali tipi ». E lo avvince mirabilmente immaginarsi che in esso si siano potute abbozzare le prime prove di un tipo di filosofo ancora più elevato, quale forse gli sarebbe parso Platone « rimasto immune dalla malia di Socrate ». Ma tutto ciò è tuttavia qualcosa di più di un mero passaggio dall’atteggiamento del filologo a quello del filosofo. Quel che si rivela nella nostalgia creatrice dei suoi pensieri, mentre egli è costretto a esercitare una critica sobria, mette già a nudo [57] il punto sommo e conclusivo della sua ambizione; non a caso Nietzsche ha fatto il suo ingresso nella filosofia non grazie a studi specialistici, ma attraverso una profonda comprensione della vita filosofica nel suo significato più intimo. E se volessimo indicare il fine per cui furono ingaggiate, attraverso tutte le metamorfosi, le lotte di questo spirito insaziabile, non si potrebbero trovare parole più indicative di quelle dell’agognata scoperta « di una nuova possibilità di vita filosofica rimasta fino allora ignorata» (Umano, troppo umano, 1, 261).Questo scritto puramente filologico si colloca così immediatamente a ridosso di tutta la serie delle opere successive, -simile a una piccola porta seminascosta nelle mura che danno accesso al grande edificio. Aprendola il nostro sguardo sfiora la lunga fuga degli spazi interni, fino all’ultimo, fino al più buio. E chi si arresta sulla soglia e getta uno sguardo all’interno non può non pensare senza meraviglia alla forza possente che ha disposto pietra su pietra in un disegno complessivo: una forza che ha adornato ogni singolo elemento profondendo ricchezza, che ha costruito innumerevoli corridoi e nascondigli segreti, quasi avesse in mente la realizzazione di un labirinto - e che pure con ferrea coerenza ha sempre tirato diritto nella sua opera.Gli studi greci non solo fecero presagire a Nietzsche le sue aspirazioni più intime e vedere per la prima volta in modo distinto la meta della sua recondita nostalgia, ma gli indicarono anche il cammino lungo cui avrebbe potuto avvicinarsi a questa meta. Furono infatti questi lavori a mostrargli il quadro culturale complessivo dell’ellenismo antico, [58] a dispiegargli le immagini di un’arte e di una religione tramontate contemplando le quali, con avidi sorsi, poteva bere « una vita fresca e piena ». Pose così la propria erudizione filologica al servizio di ricerche di storia della cultura, di estetica e di filosofia della storia, superandone il formalismo.Il significato della filologia diventò così ai suoi occhi qualcosa di diverso e di più profondo; essa «non è né una Musa né una Grazia, ma una messaggera degli dèi; e come le Muse scesero in mezzo ai contadini beoti afflitti e tormentati, così essa viene in un mondo di colori e immagini cupi, pieno dei dolori più profondi e incurabili e racconta consolatrice delle figure di dèi belle e luminose in un lontano paese incantato, azzurro e felice».Sono, queste, parole della prolusione di Nietzsche all’università di Basilea, Omero e la filologia classica, che venne stampata soltanto per gli amici

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(Basilea 1869). Due anni più tardi fu pubblicato (Basilea 1871) un altro piccolo scritto che seguiva lo stesso indirizzo intellettuale, Socrate e la tragedia, che confluì poi quasi per intero, soltanto con alcune variazioni marginali nello sviluppo dei pensieri, nella prima grande opera filosofica di Nietzsche, data alle stampe nel 1872: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (Lipsia, E.W. Fritsch, ora C.G. Naumann).3 [59] In questi due lavoriNietzsche fondò le sue tesi di filosofia della cultura ancora su basi strettamente filologiche; essi contribuirono perciò a far circolare il suo nome nell’ambiente dei filologi. Nondimeno questi scritti mostrano il cammino che egli si è già lasciato alle spalle muovendo da studi specialistici, attraverso l’arte e la storia, per approdare alla circoscritta visione del mondo di una determinata posizione filosofica: si tratta della visione del mondo di Richard Wagner e dell’intreccio della sua aspirazione artistica con la metafisica di Schopenhauer: sfogliando quest’opera ci ritroviamo in mezzo al cerchio incantato del maestro di Bayreuth.Attraverso Wagner, Nietzsche riuscì a fondere appieno tra loro filologia e filosofia e a inverare per la prima volta la frase con cui, rovesciando una sentenza di Seneca, aveva chiuso il suo studio su Omero e la filologia classica: «Philosophia facta est [60] quae philologia fuit»; « con ciò si vuole dire che ogni attività filologica deve essere racchiusa e circondata da una concezione filosofica del mondo in cui ogni elemento singolo e isolato si volatilizza come qualcosa di riprovevole, finché rimane solo il tutto, quel che è unitario».L’incantesimo che per anni fece di Nietzsche il discepolo di Wagner può essere effettivamente spiegato rammentando il fatto che Wagner intendeva realizzare, all’interno della vita tedesca, quello stesso ideale di cultura artistica che Nietzsche aveva incontrato, come ideale, all’interno della vita greca. La metafisica di Schopenhauer, in ultima istanza, non aggiunge null’altro se non una sublimazione di questo ideale nella sfera mistica, nell’imperscrutabile pienezza di senso, quasi un’accentuazione che la vita e la conoscenza artistica ricevono in virtù dell 'interpretazione metafisica. Questa accentuazione può essere avvertita nel modo più netto se si opera un confronto tra Socrate e la tragedia e l’integrazione e l’ampliamento di questo scritto nelle pagine di La nascita della tragedia dallo spirito della musica. In questo libro Nietzsche tenta di ricondurre ogni evoluzione dell’arte all’azione di due «impulsi artistici della natura » contrapposti, che egli, rifacendosi alle due divinità artistiche dei greci, chiama dionisiaco e apollineo. Il primo impulso comprende l’elemento orgiastico quale aveva modo di erompere nelle estasi gioiose, nella mescolanza di dolore e piacere, gioia e sgomento, nell’ebbrezza immemore delle feste dionisiache in cui i limiti e i consueti confini della vita venivano annullati; in queste situazioni l’individuo pare tornare a fondersi nella totalità della natura, mandando in frantumi il principium individuationis, [61] «e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose ».

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Attraverso il fenomeno fisiologico dell’ebbrezza ci accostiamo ancor di più all’essenza di questo impulso. L’arte che le corrisponde è la musica. Il suo opposto è rappresentato dall’impulso che conferisce forma, incarnato in Apollo, il dio di tutte le capacità figurative. In lui si trovano riunite la moderata limitazione, la libertà da ogni emozione violenta e la calma piena di saggezza. Deve essere considerato come « la magnifica immagine divina del principium individuationis», «della cui legge l’individuo, vale a dire l’osservanza dei limiti dell’individualità» è «la misura nel senso ellenico». La potenza dell’impulso da esso simboleggiato si palesa fisiologicamente nella bella parvenza del mondo onirico. La sua arte è quella plastica della scultura.Nella conciliazione e nell’unione di questi due impulsi inizialmente in conflitto, Nietzsche riconosce l’origine e l’essenza della tragedia attica, la quale, come frutto della conciliazione delle due divinità artistiche avverse, è un’opera d’arte tanto dionisiaca quanto apollinea. Nata dal coro ditirambico, che celebrava le sofferenze del dio, essa è in origine soltanto un coro in cui i cantanti venivano a tal punto incantati e trasformati dall’eccitazione dionisiaca da sentirsi servitori della divinità, Satin, e da considerare Dioniso come loro signore e padrone. Con questa visione, che nasce dal suo interno, il coro raggiunge uno stato di perfezione apollinea. Il dramma, inteso come «la rappresentazione apollinea sensibile di conoscenze e moti dionisiaci», è compiuto. «Quelle parti corali di cui la tragedia è intrecciata sono dunque in certo modo la matrice [...] del vero e proprio dramma»; ne sono [62] l’elemento dionisiaco, mentre il dialogo ne costituisce la componente apollinea. In esso gli eroi del dramma parlano dalla scena come immagini apollinee in cui si oggettiva l’originario eroe tragico Dioniso, semplici maschere dietro cui si nasconde la divinità.Nelle ultime pagine di questo mio libro potremo vedere in che modo Nietzsche, proprio nei suoi ultimi anni, riprese ancora una volta questi pensieri tentando di presentare le diverse fasi della sua evoluzione e il mutare delle sue idee non come immediate produzioni della sua mente ma, in certa misura, soltanto come maschere indossate arbitrariamente, «immagini apollinee » dietro le quali il suo ego dionisiaco, con divina superiorità, era rimasto eternamente uguale. Comprenderemo alla fine le ragioni di quest’illusione.Il valore che Nietzsche assegna all’elemento dionisiaco è caratteristico della sua natura spirituale: da filologo egli ha cercato, attraverso l’interpretazione della cultura dionisiaca, una nuova via d’accesso al mondo degli antichi; da filosofo ha posto quest’interpretazione alla base della sua prima visione unitaria del mondo. Nel suo ultimo periodo di attività, alla fine di tutte le sue successive trasformazioni, questa concezione del mondo fa nuovamente la sua comparsa: essa è certamente cambiata in quanto è venuto meno il suo rapporto con la metafisica di Schopenhauer e di Wagner, ma è anche rimasta uguale a se stessa in quel che i suoi più riposti impulsi spirituali cercavano di esprimere; mutata sembra esserlo nelle immagini e nei simboli della sua ultima esperienza, la più intima e la più solitaria. E il motivo di ciò è

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che Nietzsche ha trovato nell’ebbrezza dionisiaca qualcosa di affine alla sua [63] propria natura: quella nascosta unità essenziale di sofferenza e godimento, di vulnerabilità e divinizzazione di se stesso - gli eccessi a cui si innalza la vita dello spirito, in cui tutti i contrasti si condizionano e si annullano e su cui ancora una volta dovremo soffermarci.L’indirizzo intellettuale seguito dall’uomo teoretico ed estraneo a ogni forma di intuizione, che si inaugura con la figura di Socrate, rappresenta la forma di opposizione più netta all’elemento dionisiaco e alla cultura artistica nata da esso. Nella Nascita della tragedia Nietzsche tenta di descrivere a grandi linee lo sviluppo di questo atteggiamento spirituale muovendo da Socrate, attraverso secoli di scienza e filosofia, fino ai giorni nostri. Con Socrate, la cui dottrina della ragione si rivolge contro gli istinti ellenici originari al fine di imbrigliarli, «si capovolge il gusto greco per la dialettica» e inizia quella marcia trionfale del teoreta che intende indagare i fondamenti ultimi dell’essere attraverso la considerazione razionale e, per suo tramite, presume di poterli anche correggere. Soltanto la critica kantiana ha segnato la fine di questo ottimismo, indicando i limiti della conoscenza teoretica e, come Nietzsche ha poi osservato in tono scherzoso, riducendo la filosofia a una «dottrina dell’astinenza [...] che non sa varcare la soglia e ricusa meschinamente a se stessa il diritto d’accesso » (Al di là del bene e del male, 204). In tal modo essa creò, secondo Nietzsche, lo spazio per la rigenerazione della filosofia a opera di Schopenhauer che, lungo la via della conoscenza intuitiva, dischiuse infine un accesso all’essere insondabile e alle sue varie forme.Tra il 1873 e il 1876 Nietzsche dà alle stampe, nello spirito della sua opera precedente e con [64] il titolo complessivo di Considerazioni inattuali, quattro piccoli scritti destinati ad agire « contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamolo, a favore di un tempo futuro » [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, «Prefazione»]. Il primo di essi, intitolato David Strauss: l’uomo di fede e lo scrittore, consiste in una critica distruttiva del libro, oltremodo elogiato all’epoca, La vecchia e nuova fede e in una lotta energica all’intellettualismo unilaterale della cultura moderna. Di più duraturo interesse è il secondo pregevolissimo scritto, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, la cui tesi fondamentale ricompare nelle ultime opere nietzscheane, in forma modificata ma non per questo meno evidente della sua concezione del dionisiaco. Il termine « storia » [Historie] designa in queste pagine il concetto di vita intellettuale, inteso in senso del tutto generale, in opposizione a quello di vita degli istinti; conoscenza del passato, scienza di ciò che è stato, in opposizione alla piena forza vitale del presente e del divenire. Lo scritto affronta la questione: «Come è possibile subordinare il sapere alla vita? » e precisa il punto di vista dell’autore con l’affermazione: « Solo in quanto la storia serve la vita, vogliamo servire la storia ». Ma essa la serve fintanto che la più importante funzione spirituale dell’uomo rimane del tutto integra di fronte agli influssi dissolventi, opprimenti e onnipervasivi del pensiero: «La forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà,

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voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate». In caso contrario si forma nel nostro animo [65] un caos di ricchezze estranee, che affluiscono in noi senza che siamo in grado di controllarle e assimilarle, e la cui molteplicità mette perciò in serio pericolo il carattere organico e unitario della nostra personalità. Diventiamo allora il passivo campo di battaglie confuse in cui si scontrano senza tregua i pensieri, gli stati d’animo e le valutazioni più diverse; soffriamo per le vittorie degli uni e per le sconfitte degli altri senza essere capaci di fare di noi stessi il signore di tutte queste vicende.Qui viene fatto per la prima volta un accenno al tanto discusso concetto nietzscheano di decadenza, che svolgerà un ruolo così importante nelle opere successive. Non a caso questa prima illustrazione del pericolo insito nella decadenza ci riporta alla mente il modo in cui abbiamo precedentemente descritto la condizione psichica di Nietzsche; in questo luogo ne possiamo già riconoscere l’origine: si tratta del tormento nascosto che a questo spirito appassionato cagionava il costante accalcarsi di conoscenze e flussi di pensiero travolgenti, la violenza con cui ogni suo pensiero e ogni sua conoscenza agivano sulla sua vita interiore, sicché la pienezza di esperienze in intimo contrasto tra loro rischiava di mandare in frammenti i chiusi confini della sua personalità. È lui stesso a riconoscerlo nella prefazione allo scritto in questione: « Non dev’essere taciuto che le esperienze che suscitarono in me quei sentimenti tormentosi, io le ho attinte per lo più da me stesso e dagli altri le ho attinte solo per paragonarle».4

Quel che egli [66] scopriva in se stesso diveniva così per lui il pericolo generale per tutta un’epoca e si dilatava poi fino a diventare il pericolo mortale per tutta l’umanità che lo invocava come liberatore e salvatore. Da questa circostanza deriva però una peculiare ambiguità che attraversa tutto lo scritto e che balza immediatamente all’occhio di un esperto lettore di Nietzsche: infatti, proprio ciò che suscitava le sue perplessità nei confronti dell’imperante spirito del tempo, e che certo era qualcosa di fondamentalmente diverso dai problemi del suo animo, viene poi rivolto da Nietzsche, senza fare distinzione di sorta, contro due cose del tutto diverse tra loro. In primo luogo contro l’atrofìa di una vita spirituale ricca e piena provocata dall’influsso frigido e paralizzante di un’unilaterale istruzione dell’intelletto: «Da ultimo l’uomo moderno si porta in giro un’enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza rumoreggiano puntualmente dentro di noi, come avviene nella favola». «Allora sì che il sentimento all’interno riposa simile a quel serpente che ha ingoiato conigli interi e si stende poi tranquillamente al sole, evitando tutti i movimenti tranne quelli necessari. [...] Tutti quelli che passano di là hanno solo il desiderio che una tale cultura non perisca di indigestione». In secondo luogo, invece, proprio contro l’influsso eccessivamente violento, eccitante e

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perturbante del pensiero sulla vita psichica, contro il conflitto da esso innescato tra forze pulsionali primordiali e sconnesse.La differenza è simile a quella tra ottusità e follia. In Nietzsche stesso i pensieri più astratti erano soliti mutarsi in forze emotive che prendevano a trascinarlo in modo immediato e imprevedibile. Nel quadro della nostra epoca da lui abbozzato, [67] le due azioni contrapposte dell’intelletto dovevano dunque necessariamente confondersi e, per quanto riguarda una di esse - lo scatenarsi caotico della vita psichica -furono due cause diverse a fondersi l’una nell’altra. Non si tratta infatti soltanto di semplici influssi dell’intelletto, del pericolo che l’elemento razionale rappresenta per quello istintivo, ma anche degli influssi di epoche quanto mai remote che abbiamo ereditato e fatto nostri, i quali, scaturiti un tempo da una fonte intellettuale, vivono oggi in noi soltanto in forma di istinti e di valutazioni del sentimento.La personalità chiusa in se stessa non sta dunque solo sotto la minaccia che proviene dall’esterno, ma anche sotto quella che essa porta dentro di sé, che è nata insieme a lei, di quella « contraddittorietà degli istinti » che è ciò che eredita ogni epigono giacché gli epigoni non sono mai di sangue puro.Il superamento del danno che la storia - appresa o vissuta - può in questo senso arrecare può avvenire rivolgendosi in direzione di « ciò che non è storico ». Con questa espressione Nietzsche intende il ritorno all’inconscio, alla volontà di non sapere, alla chiusura d’orizzonte senza cui non c’è vita: « Ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo entro un orizzonte ». « Ciò che non è storico assomiglia ad una atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi ». « E' vero, solo per il fatto che l’uomo pensando, ripensando, paragonando, separando, unendo, limita quell’elemento non storico, solo per il fatto che dentro quell’avvolgente nuvola di vapore nasce un chiaro e lampeggiante raggio di luce -cioè solo per la forza di usare il passato per la vita e [68] di  trasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diventa uomo: ma in un eccesso di storia l’uomo viene nuovamente meno».La sua forza si misura in base alla quantità di storia che egli sopporta e supera, in base alla forza dell’elemento non storico in lui: « Quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti, tanto più egli si approprierà o impadronirà del passato; e se si immaginasse la natura più potente e immane, essa si potrebbe riconoscere dal fatto che per lei non ci sarebbe nessun limite del senso storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa passata, propria ed estraneissima, essa l’attirerebbe a sé, l’introdurrebbe in sé, trasformandola per così dire in sangue. Una tale natura, ciò che non vince, lo sa dimenticare; esso non esiste più, l’orizzonte chiuso e completo, e niente può rammentare che al di là di esso ci sono ancora uomini, passioni, dottrine e scopi ».Uno spirito di questo tipo si rapporta alla storia nei tre modi in cui, in generale, ci si può rapportare a essa senza caderne preda: la considera come storia monumentale, posando il suo sguardo sulle grandi figure del passato, mettendole in relazione con la sua opera e la sua volontà senza

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tuttavia perdersi in esse, ma considerandole come entusiasmanti precursori e compagni di strada.S’immerge nella storia antiquaria nel momento in cui si aggira per tutto il passato come chi si muove tra i luoghi di una vita precedente, tra i luoghi della sua infanzia in cui anche il minimo dettaglio sembra molto importante e significativo: « Egli concepisce le mura, la porta turrita, l’ordinanza municipale, la festa popolare come un [69] diario illustrato della sua gioventù, e in tutte queste cose ritrova se stesso, la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e le sue cattive maniere. Qui si poteva vivere, egli si dice, giacché si può vivere; qui si potrà vivere, giacché siamo tenaci e non ci si può spezzare da un giorno all’altro. Così, con questo “noi”, egli guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe e della città».Guarderà infine anche alla storia in modo critico, per dissodare il passato al fine di edificare il futuro, fine per cui ha bisogno della più grande forza vitale poiché più grande del pericolo di diventare un sognatore o un collezionista, è il pericolo di rimanere un distruttore: «È sempre un processo pericoloso, pericoloso cioè per la vita stessa. [...] Infatti, dato che noi siamo i risultati di generazioni precedenti, [...] non è possibile staccarsi del tutto da questa catena. [...] Arriviamo nel miglior caso a un conflitto fra la natura ereditaria e avita e la nostra conoscenza; [...] noi piantiamo una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, sicché la prima natura rinsecchisce. È un tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva. [...] Ma qua e là la vittoria arride lo stesso, e c’è [...] una notevole consolazione: quella cioè di sapere che anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia, una seconda natura, e che ogni seconda natura che vinca diventa una prima natura».In certa misura si possono applicare questi tre modi di considerare la storia ai tre periodi dell’evoluzione di Nietzsche, prendendo [70] l’avvio da quello antiquario, che coincide con la sua attività di filologo, facendogli seguire la concezione monumentale, che lo vide sedere come discepolo ai piedi di grandi maestri, per giungere infine al positivismo del suo periodo maturo che può essere definito come quello critico. Ma dopo aver superato quest’ultima fase, le tre prospettive si fusero in una, nella quale, come si avrà modo di vedere, i pensieri contenuti in questo scritto torneranno di nuovo in forma misteriosa e commovente, nell’accentuazione estrema e paradossale della tesi secondo cui l’elemento storico è subordinato alla vita individuale, la cui condizione costante è l’elemento non storico.La natura forte, che egli descrive come al contempo storica e non storica, è così un erede di tutto il passato, ed è dunque fuori dal comune per la pienezza della sua esperienza, ma è un erede che sa rendere davvero feconda la sua ricchezza perché la possiede effettivamente, ne è il signore e non ne risulta posseduto e dominato. Un erede o un epigono di tale sorta è poi sempre, al contempo, il capostipite di una nuova civiltà e, quale

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detentore del passato, un creatore dell’avvenire: la ricchezza che egli diffonde porta anche con sé i frutti di tempi futuri. E' uno dei grandi «inattuali» che sono immersi in un lontano passato, che additano a un lontano futuro, ma che stanno nel loro tempo sempre come stranieri, benché il presente concentri e produca in loro la sua massima forza.In queste considerazioni si trova la prima formulazione di pensieri dell’ultimo periodo creativo di Nietzsche: un singolo, il genio di tutta l’umanità, è in grado di interpretare, muovendo dal presente, l’intero passato e con ciò anche di determinare il senso e la finalità dell’avvenire inteso come un tutto.[71] Osservate esclusivamente dall’esterno, le radici di questa intuizione mostrano di risalire fino all’attività di filologo di Nietzsche che lo indusse a impadronirsi, attraverso la conoscenza, di altre civiltà. Sapere ed essere furono sempre un’unica cosa per il suo spirito; e così, per Nietzsche, essere filologo classico equivaleva a essere greco. Ciò doveva di certo rinforzare quella contraddittorietà degli istinti che lo angustiava e il cui culmine era ai suoi occhi la contrapposizione di antico e moderno - ma doveva anche racchiudere in sé gli strumenti per combatterla, e cioè la possibilità di costruire il futuro attraverso un passato superiore al presente, di mutarsi da uomo del suo tempo in epigono di più antiche civiltà e in primogenito di una civiltà nuova.5

Le ultime due Considerazioni inattuali di Nietzsche - Schopenhauer come educatore e Richard Wagner a Bayreuth - sono dedicate a due di questi individui « inattuali » il cui tempo è il passato e il futuro. Queste due statue erette con traboccante entusiasmo in onore del genio mostrano con particolare chiarezza in quale misura la nuova civiltà dell’individuo inattuale, a cui Nietzsche aspira, culmini in un culto del genio stesso. In lui l’umanità non trova infatti soltanto il suo educatore, la sua guida, il suo profeta, ma anche la sua autentica ed esclusiva meta finale. L’idea secondo cui « tutte le produzioni della natura non esistono se non in funzione degli individui isolati» è uno di quei pensieri schopenhaueriani che Nietzsche non ha mai abbandonato. Qualcosa nella parte più riposta del suo animo [72] fremeva insaziabilmente per innalzare l’elemento egoistico al rango di ideale del sé, così come anelava in direzione del lato oscuro di questo sublime destino dell’uomo, verso la solitudine e l’eroismo.Nel suo periodo intermedio egli prese apparentemente le distanze da questa prima concezione del genio, perché essa aveva visto venire meno lo sfondo metafisico su cui solo il profilo del grande « singolo » poteva stagliarsi nella sua sovrumana importanza come una figura di un mondo superiore e più vero. Ma l’idea del culto del genio conteneva uno spunto in direzione di ciò che Nietzsche, alla fine del suo percorso intellettuale, avrebbe nuovamente rielaborato con un colpo di geniale follia. Il valore positivo del genio assunse infatti per lui un’importanza talmente superiore a quella della concezione schopenhaueriana - in funzione di sostituto di un’interpretazione metafisica della vita - che questa finì per rappresentarne solo un debole contraltare.

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Fintanto che il culto del genio rimane un culto da metafisico nel quadro della physis umana, esso comprende una serie continua, una catena di « singoli » che possiedono pari valore e dignità sia per quanto riguarda la loro natura, sia per quanto attiene alla loro importanza. Essi non vengono considerati come segmenti di una linea evolutiva dell’essere umano, essi « non continuano magari un processo, ma vivono simultaneamente e fuori dal tempo », formano « una specie di ponte sul selvaggio fiume del divenire. [...] Un gigante grida all’altro attraverso i desolati intervalli dei tempi, e l’alto colloquio degli spiriti prosegue, non disturbato dai nani petulanti e chiassosi che strisciano sotto di loro». Dal momento che è questo «nano» a determinare tutta la storia dell’evoluzione, [73] le sue vicende così come le sue leggi, una cosa soltanto è allora certa: « Lo scopo dell’umanità non può trovarsi alla fine, ma solo nei suoi più alti esemplari » [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, ix].Ma dal momento che anche gli esemplari più alti esprimono soltanto quel che sta al fondo dell’essere umano, quale sua essenza metafisica, essi si distinguono dalla massa degli uomini meno per una differenza che non per uno svelamento essenziale, per una nudità divina, mentre l’uomo della massa ha migliaia di veli che coprono la sua vera natura - veli che appartengono tutti al mondo e alla superficie della vita e che possono qua e là rendersi impenetrabili. « Il grande pensatore, quando disprezza gli uomini, disprezza la loro pigrizia: poiché per causa sua essi appaiono come merce di fabbrica [...]. L’uomo che non vuole appartenere alla massa non deve far altro che cessare di essere accomodante verso se stesso » (Schopenhauer come educatore, 1). L’educazione amorevole e la premura nei confronti di tutti sono dunque la conseguenza di questo modo di vedere le cose il quale, nel senso più profondo, pone tutti sullo stesso piano poiché rende onore al nucleo metafisico avvolto in ogni velo; da nulla esso risulta quindi più distante come dalle tarde richieste nietzscheane di schiavitù e tirannia.Ma allorché, come accade nella matura riflessione di Nietzsche, questo sfondo metafisico si dissolve, quando l’essere sovrasensibile si perde nell’infinito divenire del reale, allora il singolo può sollevarsi al di sopra della massa soltanto in virtù di una differenza essenziale che equivale a una superiore differenza di grado: incarnando la quintessenza di questo processo, egli lo ingloba in sé per quanto possibile nella sua totalità, mentre l’uomo della massa è in grado di viverlo e incarnarlo soltanto in modo cieco e frammentato. [74] Questo singolo sarebbe dunque in certa misura il solo in grado di dare un senso a quella lunga evoluzione che si chiama storia; egli non sarebbe composto di materia sovrasensibile, come l’uomo schopenhaueriano, ma sarebbe in tutto e per tutto un creatore e, come tale, sarebbe in grado di fungere da sostituto di quel significato delle cose in cui il metafisico ripone la sua fede. In luogo di molte singolarità di pari rango, che si elevano sopra le vicende umane come una catena di monti più alti e uniti tra loro, nell’ultima filosofia di Nietzsche si ritrova soltanto il grande Solitario,

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che intende se stesso come la vetta del tutto; verso l’alto egli risulta ancora più solo degli altri poiché, come punto conclusivo dell’evoluzione, è l’esemplare supremo del genere umano; verso il basso, però, è molto più duro e dispotico di quelle singolarità giacché la massa e la vita, considerate in loro stesse o da un punto di vista metafisico, non significano nulla. Egli deve soltanto fornire loro, su, fino al vertice, un determinato ordine gerarchico. Risulta facile comprendere perché solamente con questa figura il culto del genio assuma dimensioni straordinarie: venuta meno l’interpretazione metafisica che innalzava di principio l’uomo schopenhaueriano in un ordine di cose superiore, ora il genio può soltanto convincere ricorrendo a mezzi straordinari.Quattro sono i problemi della prima fase filosofica di Nietzsche con cui egli, seppure in forma sempre differente, si è confrontato fino all’ultimo: il dionisiaco, la decadenza, l’inattuale, il culto del genio. Li ritroveremo sempre, e insieme ritroveremo Nietzsche: come egli infatti esprime sempre se stesso nella sua filosofia, così anche modella in modo caratteristico questi pensieri. Considerati nel [75] loro mutare e nella loro varietà, essi paiono quasi imperscrutabili ed eccessivamente complessi; se si tenta al contrario di giungere al nucleo di ciò che, in ogni mutamento, permane identico, si rimarrà allora sorpresi della semplicità e della costanza dei suoi problemi. «Sempre un altro e sempre lo stesso», avrebbe potuto dire Nietzsche di sé.Che la visione del mondo di Wagner e Schopenhauer abbia potuto acquisire una simile importanza per Nietzsche e che più tardi, dopo tante battaglie e da posizioni intellettuali del tutto opposte, abbia potuto ancora una volta riaccostarsi ai pensieri fondamentali di quella, indica in che misura essa andasse incontro a tutta la sua natura ed esprimesse ciò che in lui stava assopito. Elevato dalla sua occupazione di filologo a quella di filosofo, si dovette senza dubbio sentire come un prigioniero a cui vengono tolte le catene. In precedenza le sue migliori energie erano infatti legate; adesso poteva respirare, adesso tutto in lui era libero. I suoi impulsi d’artista potevano ora godere appieno delle rivelazioni della musica di Wagner; la sua forte inclinazione verso le esaltazioni religiose e morali trovava una costante possibilità di accrescimento nell’interpretazione metafisica di quest’arte. L’ampiezza e la solidità del suo sapere si posero al servizio della nuova visione del mondo che si rifletteva nella sua concezione della grecità. Poiché nella persona di Wagner il genio era divenuto realtà, poiché egli era per così dire «il salvatore che redime », a Nietzsche toccò il ruolo dell’uomo della conoscenza, del sensale della scienza: in tal modo non venne meno al compito del filosofo. Ma la conoscenza così acquisita fu solo l’occasione per dispiegare per intero la sua natura artistica e religiosa e proprio questo fatto dimostra l’importanza che ciò aveva per il suo spirito. Quello a cui aveva già [76] aspirato durante i suoi anni di formazione filologica, allorché studiava la vita degli antichi filosofi, era adesso una verità: il pensiero un’esperienza, la conoscenza un lavorare e un creare insieme in vista di una nuova civiltà; nel pensiero tutte le forze dell’anima dovevano

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agire insieme: era di tutto l’uomo che vi era bisogno. Nietzsche esprime soltanto l’estasi liberatoria in cui è assorto, allorché, alla fine del suo Socrate e la filologia classica, prorompe nelle parole: «Ahimè! Il fascino di queste lotte sta nel fatto che chi le guarda deve anche combatterle! ». 6

Come i diversi talenti della sua natura possono ora vivere appieno e svilupparsi, così questo periodo della vita di Nietzsche appaga completamente anche quel bisogno profondo, quasi femminile, di adorazione personale, di levare gli occhi al cielo; un appagamento che in seguito, e con dolore, egli troverà in se stesso. Per quanto profonda fosse la gioia che traeva dalla filosofia di Schopenhauer e Wagner, con tutto il suo modo di considerare le cose, quel che però più contava per lui era il suo rapporto personale con Wagner, lo sguardo incondizionato che questi gli rivolgeva. Il suo entusiasmo si accendeva per una personalità in cui credeva di vedere incarnato l’ideale della sua propria natura. La gioia prodotta da una simile fede spande sui pensieri contenuti nei suoi primi scritti filosofici qualcosa di sano, quasi di ingenuo, che si differenzia in modo netto da ciò che contraddistingue le opere successive. E' come se lo si vedesse capire e decifrare se stesso soltanto attraverso l’immagine del suo maestro Wagner e del suo filosofo Schopenhauer. Con timore istintivo egli respinge ancora quell’arte di fare di se stesso, in modo consapevole, l’oggetto e l’«esperimento di chi è volto alla conoscenza» [La gaia scienza, 324], [77] l’arte che lo avrebbe successivamente reso così grande e così malato. « Come può l’uomo conoscersi? Egli è una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli, l’uomo può trarsene settanta volte sette e non potrà dire: “Ecco, questo tu sei realmente, questa non è più corteccia”. Inoltre è un inizio tormentoso, rischioso, scavare se stessi in tal modo e discendere con violenza per la via più breve nel pozzo del proprio essere. Quanto facilmente, nel far ciò, egli può ferirsi in modo tale che nessun medico riesca a guarirlo» (Schopenhauer come educatore, 1). E perciò egli lancia un appello ai giovani che desiderano scrutare dentro se stessi: «Che cosa ti ha attratto, che cosa ti ha dominato e in pari tempo ti ha reso felice? Metti davanti a te la serie di questi oggetti venerati e forse essi ti mostreranno [...] una legge, la legge fondamentale del tuo te stesso vero e proprio. Confronta questi oggetti, guarda [...] in che modo essi formano una scala sulla quale fino ad ora ti sei arrampicato verso te stesso; giacché la tua vera essenza non sta profondamente nascosta dentro di te, bensì immensamente al di sopra di te ».Con una schiettezza che in seguito, all’epoca della più dolorosa autoanalisi, andrà smarrita, Nietzsche mette in mostra i motivi per cui fin dall’inizio egli ha ardentemente agognato questa condizione di discepolo, una «guida e in pari tempo un maestro severo»: «Devo indugiare un poco in una rappresentazione che nella mia giovinezza era frequente ed urgente come nessun’altra. Quando un tempo mi abbandonavo come volevo ai desideri, pensavo che il terribile sforzo e l’impegno di educare me stesso mi sarebbe stato risparmiato dalla sorte, [78] se al momento giusto avessi trovato

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come educatore un filosofo, un vero filosofo, cui si potesse obbedire senza ulteriori esitazioni, perché di lui mi sarei fidato più che di me stesso» [Schopenhauer come educatore, 11].E' interessante notare come, a tal fine, Nietzsche cerchi di scoprire dietro al pensatore Schopenhauer, lo Schopenhauer uomo ideale,7 e come, nei confronti di Wagner, muova da una profonda affinità delle loro nature. Sorprende, in effetti, la consonanza tra le doti naturali e spirituali di Wagner, così come Nietzsche le descrive, e la « polifonicità » delle sue proprie doti quale risulta dalla prima parte di questo libro. Nelle pagine di Richard Wagner a Bayreuth, infatti, egli scrive: «Ciascuno dei suoi impulsi tendeva allo smisurato, tutte le qualità che procuravano la gioia di vivere volevano scatenarsi e soddisfarsi ciascuna per conto proprio; quanto più grande era il loro numero, tanto più grande era il tumulto, tanto più ostile il loro incrociarsi» (III).Appena Wagner raggiunse la «virilità spirituale e morale», questa «molteplicità» riuscì a comporsi e, al contempo, subì una peculiare scissione: «La sua natura appare semplificata in maniera terribile, lacerata in due impulsi e sfere. Giù in fondo ribolle, in impetuosa corrente, una volontà violenta, che per tutte le vie, cavità e gole, vuole per così dire uscire alla luce e aspira alla potenza». [79] «L’intero fiume si precipita ora in questa, ora in quella valle, e si sprofonda nelle gole più oscure: - nella notte di questo semisotterraneo ribollire, apparve, alta su di lui, una stella ». Diamo uno sguardo all’altra sfera di Wagner: «È l’esperienza originaria più peculiare, che Wagner vive in sé e venera come un segreto religioso: [...] quella meravigliosa esperienza e conoscenza, secondo cui l’una sfera del suo essere rimaneva fedele all’altra; [...] la sfera creativa, innocente e più luminosa a quella oscura, indomabile e tirannica» (II).«Nel comportamento reciproco delle due forze più profonde, nella devozione dell’una all’altra, risiedeva la grande necessità, per la quale soltanto egli poteva rimanere intero e se stesso» (III).Verso la fine di questo scritto, Nietzsche tenta di comprendere anche la musica di Wagner muovendo da questa peculiarità che gli risulta così affine e concepisce il genio musicale wagneriano come una sorta di rispecchiamento dello stato della sua anima: « Come la sua musica si assoggetti, con una certa crudeltà di risoluzione, all’andamento del dramma, che è inesorabile come il destino, mentre l’anima ardente di quest’arte è avida di vagare senza redini nella libertà e nella solitudine» (ix).« Sopra tutti gli individui sonori e la lotta delle loro passioni, sopra tutto il vortice dei contrasti, si libra [...] uno strapotente intelletto sinfonico, che genera continuamente la concordia dalla guerra».« Mai Wagner è più Wagner di quando le difficoltà si decuplicano ed egli può dominare in situazioni veramente grandi [80] con la gioia del legislatore. Domare impetuose masse contrastanti, trasformandole in ritmi semplici, attuare una sola volontà attraverso una sconcertante molteplicità di esigenze e desideri».

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Ma proprio questa affinità delle loro nature bifronti avrebbe alla fine sospinto l’evoluzione intellettuale di Nietzsche su di una propria strada solitaria che lo avrebbe prima o poi separato da Wagner. Appena raggiunto il punto più alto del suo percorso, Nietzsche accenna però il primo passo che lo avrebbe inevitabilmente fatto cadere verso il basso. Egli sembra dunque rovesciare del tutto la realtà dei fatti quando, anni dopo, nel suo ingiusto libello intitolato II caso Wagner, sostiene: « La più grande esperienza della mia vita fu una guarigione. Wagner appartiene semplicemente alle mie malattie» (Il caso Wagner, «Prefazione»), La sua evoluzione assume infatti un carattere patologico soltanto molto tempo dopo la sua rottura con Wagner; del suo periodo wagneriano si potrebbe anzi dire, in un certo senso, che appartiene ai suoi momenti alti di salute. Ciò nondimeno, non si può non prestare ascolto a quanto di vero contiene l’affermazione precedente, vale a dire al fatto che Nietzsche, in quell’epoca, non aveva ancora raggiunto il punto più alto della sua evoluzione per quanto sano e felice avesse potuto essere in quegli anni.Una tale salute poteva però essere mantenuta soltanto a costo della grandezza. Perché il discepolo divenisse maestro, doveva fare ritorno a se stesso; ma poiché nel suo intimo egli desiderava, con l’urgenza della necessità, diventare un discepolo nel senso religioso del termine, non gli restò altra possibilità se non quella di riunire in se stesso discepolo e maestro, non fosse altro che per trame sofferenza e per precipitare in una patologica fusione dei due ruoli. [81] Per questo suo sentiero della grandezza valgono le parole dello Zarathustra: « Vetta e abisso - è ora saldato in unità! » [Così parlò Zarathustra, «Il viandante»].Il distacco di Nietzsche da Wagner è stato interpretato nei modi più vari, andando alla ricerca di motivazioni puramente ideali - un irresistibile anelito di verità - o sulla base di motivi umani, troppo umani. In questa vicenda, in realtà, le due cause s’intrecciano in modo del tutto analogo a quanto già riscontrato in occasione del suo distacco dalla fede. Proprio il fatto di aver trovato un pieno soddisfacimento, la quiete dell’anima e una patria per il suo spirito, proprio il fatto che la visione del mondo di Wagner gli risultava morbida e liscia come una «pelle sana», lo stuzzicava a togliersela di dosso, gli faceva apparire « la sua somma felicità come un disagio », lo faceva sentire « ferito dalla sua felicità ». Alla nascita del suo « spirito libero » può così essere applicata in generale la sua «supposizione sull’origine del libero pensiero» umano da un eccesso di beatitudine dei sensi nel quadro di una visione del mondo già data: «Come i ghiacciai ingrossano quando nelle zone equatoriali il sole dardeggia sui mari con più ardore di prima, così può ben darsi che anche un assai forte e dilagante libero pensiero sia testimonianza del fatto che in qualche punto l’ardore del sentimento è straordinariamente cresciuto» (Umano, troppo umano, I, 232).Soltanto in mezzo alla sofferenza cercata e voluta il suo spirito si formò la dura e pugnace corazza, armato della quale sarebbe poi sceso in campo contro i suoi antichi ideali. Rinunciando a ciò che è bello e edificante, [82] e

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sciogliendo al contempo l’ultima forma di dipendenza, egli provò senz’altro un senso di liberazione, una liberazione che rappresentava tuttavia anche un gesto di rinuncia di cui ebbe a soffrire come di una ferita, pur essendosela inferta da sé.Del tutto inattesa per Wagner, la rottura si compì in forma definitiva allorché questi, con il suo Parsifal, approdò a orientamenti cattolicheggianti, mentre l’evoluzione spirituale di Nietzsche, con un repentino mutamento di rotta, si era indirizzata verso la filosofìa positivistica degli autori inglesi e francesi. Il distacco da Wagner non fu soltanto una separazione di spiriti, ma anche la lacerazione di un rapporto in cui entrambi erano stati così vicini come solo padre e figlio, o come due fratelli soltanto possono esserlo. Nessuno dei due poteva dimenticarlo del tutto, nessuno dei due poteva completamente rassegnarsi. Ancora nell’autunno 1882, sei mesi prima della morte di Wagner, durante il festival di Bayreuth e in occasione della prima rappresentazione del Parsifal, si fece il tentativo di pronunciare il nome di Nietzsche di fronte al maestro. Nietzsche risiedeva allora vicino a Bayreuth, nel paesino turingio di Tautenburg nei pressi di Dornburg, e la sua vecchia amica Malwida von Meysenbug pensava, seppure a torto, che si sarebbe riusciti a convincere Nietzsche a recarsi a Bayreuth per riconciliarsi con Wagner. Ma il tentativo fallì; Wagner abbandonò pieno di irritazione la sua stanza e proibì di pronunciare ancora il nome di Nietzsche in sua presenza. La lettera di Nietzsche che qui riproduciamo8 risale all’incirca allo stesso periodo e descrive in modo abbastanza convincente la sua posizione riguardo alla rottura con Wagner:[83] Dunque, mia cara amica, finora tutto procede bene e sabato, tra otto giorni, ci si vedrà di nuovo.Forse la mia ultima lettera non è giunta nelle Sue mani? La scrissi domenica, quattordici giorni or sono. Ciò mi addolorerebbe; in essa Le descrivevo un momento molto felice; mi sono toccate tante cose buone tutte in una volta, e la «più buona» di queste era la Sua lettera di assenso ! -Intanto: quando ci si fida di qualcuno, allora possono andare smarrite perfino le lettere.L’ho pensata molto e nella mia mente ho diviso con Lei tante di [84] quelle cose che esaltano, commuovono e rasserenano, che è come se avessi vissuto insieme alla mia venerabile amica. Se Lei sapesse quanto è strano e nuovo tutto ciò per un vecchio eremita come me! - Quante volte ho dovuto ridere di me stesso!Per quel che riguarda Bayreuth, sono felice di non dover essere là; eppure, se potessi starLe accanto come uno spirito, sussurrandola all’orecchio questo e quello, allora riuscirei a sopportare perfino la musica del Parsifal (altrimenti non riesco a sopportarla).Gradirei che Lei prima leggesse ancora il mio piccolo scritto Richard Wagner a Bayreuth; l’amico Rèe lo possiede di certo. Ho vissuto [85] così legato a quell’uomo e alla sua arte - è stata una lunga, totale passione: non riesco a trovare nessun’altra parola. La necessaria rinuncia, quel ritrovare-me-stesso

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che diventava infine necessario, fanno parte delle cose più aspre e melanconiche del mio destino. Le ultime parole che Wagner mi ha scritto si trovano in un bell’esemplare con dedica del Parsifal: « Al mio caro amico Friedrich Nietzsche. Richard Wagner, Consigliere ecclesiastico superiore». Esattamente nello stesso periodo gli giunse tra le mani, speditogli da me, Umano, troppo umano - tutto fu chiaro, ma fu anche tutto finito.Quante volte, in ogni possibile [86] cosa, ho fatto esperienza proprio di questo: «tutto chiaro, ma anche tutto finito»,E quanto sono fortunato, mia amata amica Lou, di poter pensare riguardo a noi due: “tutto all’inizio, e tuttavia tutto chiaro!”. Si fidi di me! Fidiamoci di noi!Con i più cordiali auguri per il Suo viaggioIl Suo amico

Nietzsche[87] Quando rileggo questa breve descrizione, allora me lo rivedo davanti allorché, durante un viaggio che facemmo insieme dall’Italia attraverso la Svizzera, visitò con me la tenuta di Tribschen, vicino a Lucerna, il luogo in cui aveva trascorso con Wagner un periodo indimenticabile. A lungo, molto a lungo sedette in silenzio sulla sponda del lago, immerso in grevi ricordi; quindi, disegnando con la punta del bastone sulla sabbia umida, parlò con voce sommessa di quei tempi andati. Quando alzò lo sguardo, stava piangendo.La sofferenza fisica più intensa di Nietzsche venne a coincidere con il suo distacco interiore ed esteriore dal wagnerismo e dalla filosofia di Schopenhauer. In quegli anni visse tra crisi e dolori fisici e psichici che lo condussero vicino alla «morte del corpo e dell’anima». La sua malattia si manifestò negli anni di massima produttività, di un confronto eccessivamente variegato ed estenuante con ricerche scientifiche e problemi filosofici, con i movimenti culturali a lui contemporanei, con l’arte di Wagner e la sua musica. Non è certo un caso che anche l’ultimo e fatale attacco di emicrania si sia manifestato sul finire degli anni ottanta, ancora una volta dopo un incredibile periodo di creatività e produttività intellettuale. Quando si sentiva in forma e in salute, in possesso di tutte le sue forze vitali, allora si trovava sempre a un passo dalla malattia; e i periodi di ozio e di quiete involontaria gli procuravano sempre sollievo e rallentavano l’incombere della catastrofe. Da un punto di vista puramente fisico, in ciò si rispecchia qualcosa di quegli aspetti tipicamente patologici dell’«eccesso di salute» della sua vita intellettuale che, [88] dopo aver raggiunto il suo apice, era solita traboccare nella malattia. Da questa condizione, tuttavia, con la forza tenace della sua natura fuori dal comune, egli riusciva sempre a riconquistare la salute.Finché riusciva a dominare i dolori e a sentirsi in pieno possesso della sua capacità di lavorare, la sofferenza non riusciva ancora a essere di detrimento

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alla sua resistenza vitale e alla sua capacità di affermarsi. Ancora il 12 maggio 1878, egli scriveva con animo tranquillo in una lettera da Basilea: « La salute è malferma e pericolante, ma - stavo quasi per dire: “che m’importa della mia salute?”».9

Il 14 dicembre dello stesso anno, tuttavia, segue un accenno al ritiro dall’insegnamento, che egli reputa necessario: « La mia condizione è un limbo misto ad atroci tormenti, non posso negarlo. Probabilmente è finita la mia attività accademica, forse anche qualsiasi attività, e possibilmente... ecc.».10 

E quindi l’amaro lamento: « Sembra che non ci sia più rimedio, i dolori sono stati davvero pazzeschi».11 «Ma l’ordine è sempre questo: “Sopporta! Rinuncia!”. Ahimè, viene a noia anche la pazienza. Ci vuole pazienza ad aver pazienza! ».12

Da ultimo, con il tono di una resa tranquilla, una lettera da Ginevra del 15 maggio 1879: «Io non sto bene, ma sono allenato da tempo a sopportare il dolore e continuerò a trascinare il mio fardello - ma non più per molto, spero! ». 13

Poco dopo rinunciò al suo incarico di professore e la solitudine lo avvolse per sempre. La rinuncia all’attività didattica gli riuscì penosa - era in fondo la rinuncia a ogni lavoro scientifico in senso stretto. [89] Testa e occhi - egli si definisce « un malato che ora è anche cieco per nove decimi e che non riesce più a leggere se non per un breve quarto d’ora e soffrendo» -14 gli impedirono d’allora in poi di sviluppare quantitativamente i suoi pensieri attraverso studi di più vasta portata. L’ampiezza e la molteplicità del suo campo d’indagine è testimoniata dalla grande varietà delle sue lezioni tenute all’università e al Pädagogium di Basilea.È vero che in quegli anni Nietzsche si limitò allo studio dell’ellenismo e che restò filosoficamente legato alle catene di un determinato sistema metafisico. Ma il successivo liberarsi dai vincoli di questo sistema avrebbe potuto avere effetti ben più benefici se le sue condizioni di salute fossero state diverse. Il quadro della vita greca, in cui allora riteneva di leggere, con gli occhi del metafisico, i tratti fondamentali dell’immagine del mondo e della vita degli uomini, avrebbe potuto gradualmente ampliarsi, con il proseguire dell’attività scientifica, in direzione di un quadro complessivo dell’evoluzione del mondo. Grazie al genio della sua sensibilità raffinata e alla capacità artistica di creare immagini, era quasi predestinato a realizzare grandi cose nel campo della storia della filosofia. Il suo impulso a produrre avrebbe così potuto non smarrirsi nella sfera della soggettività. Aveva poi spesso avuto modo di constatare che quanto più alati, impellenti e appassionati sono i pensieri, tanto più vasta e severa deve essere la materia a cui essi vanno legati e subordinati. Nelle sue opere c’imbattiamo così, fino all’ultimo, in sforzi sempre nuovi e infecondi di espandersi verso l’esterno e di fornire un fondamento scientifico al suo pensiero - e in tutto ciò vi è qualcosa del vano [90] colpo d’ala dell’aquila prigioniera. Egli era costretto dalle sue condizioni di salute a fare di se stesso la materia dei propri

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pensieri, a porre il suo io alla base della propria visione filosofica del mondo, ricavandola così dalla propria interiorità. In condizioni diverse non avrebbe forse prodotto qualcosa di tanto particolare e dunque di così assolutamente unico. Ma ciò nonostante non si può tornare con lo sguardo su questo punto di svolta del destino nietzscheano - su questa inconsueta coazione all’isolamento e alla segregazione -senza il più profondo rammarico, non si può sfuggire alla sensazione che egli qui non colga una grandezza che gli era riservata.A questo punto su Nietzsche calò la notte. I suoi ideali di un tempo, la sua salute, la sua capacità di lavorare, la sua cerchia d’influenza - tutte le cose che avevano regalato calore, luce e splendore alla sua vita, svanirono una dopo l’altra. Fu un crollo spaventoso, sotto le cui macerie rimase come sepolto. Fu l’inizio dei suoi «tempi bui» (Il viandante e la sua ombra!, 191).Gli scritti che seguono non nascono, come i precedenti, da una pienezza accumulata e accessibile al suo animo, non sono composti muovendo da una meta che egli crede di avere raggiunto; narrano piuttosto di come egli si orienti nella notte, di come proceda lentamente a tastoni; sono i passi tormentati, combattuti e infine vittoriosi in direzione di una meta oscura.«Mentre proseguivo da solo,» avrebbe confessato anni dopo a proposito di questo periodo «tremavo; non passò molto e fui malato, più che [91] malato, ossia stanco, per l’incontenibile delusione di fronte a tutto ciò che a noi uomini moderni restava per entusiasmarci... ». Ma non lo vediamo farsi largo tra le rovine lamentandosi - e a ragione egli indica l’elemento d’interesse di quegli scritti « nel fatto che qui parla uno che soffre e rinuncia come se non soffrisse e non rinunciasse» (Umano, troppo umano, 11, «Prefazione»),Ancora una volta egli si trasforma in qualcuno che crea e che scopre sempre del nuovo. S’immerge in profondità sotto questo mondo di macerie, mina e scalza ancora una volta le sue fondamenta, e scruta con occhi avvezzi alle tenebre i tesori nascosti e i segreti del sottosuolo. Un secondo Trofonio che con astuzia entra ed esce sgattaiolando e che riesce ancora a far luce sul mondo là fuori e sui suoi enigmi. Così lo vediamo, «all’opera [...] un essere sotterraneo, uno che perfora, scava, scalza di sottoterra. [...] Lo si vedrà avanzare lentamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e di aria comporta ». E a tal proposito ci giunge quella domanda fiduciosa, con cui egli stesso tornerà a guardare a questi anni e a cui l’esame della sua evoluzione successiva fornirà una risposta; «Non sembra forse che» questo essere voglia «avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora?... » (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione» [1886]).[92] Mia cara amica, il cielo è ora chiaro sopra di me! Ieri a mezzogiorno era come se fosse il mio compleanno: Lei inviò il Suo assenso, il regalo più bello che qualcuno potesse mai farmi - e mia sorella mi spedì delle ciliegie. Teubner mi mandò le prime bozze della Gaia scienza; e inoltre era giunta a

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compimento l’ultimissima parte del manoscritto, e quindi il lavoro di sei anni (1876-1882), tutto il mio «spirito libero»! Oh, che anni! [93] Che tormenti d’ogni sorta, che solitudine e che disgusto della vita! E contro tutto questo, in certo qual modo contro la morte e la vita, mi sono preparato questo farmaco, questi miei pensieri con le loro piccole strisce di cielo senza nubi sopra di loro: - oh, amica cara, penso così spesso a tutto ciò, sono scosso e toccato e non so come la cosa possa essere riuscita: compassione per me stesso e sentimento di vittoria mi riempiono interamente. Poiché è una vittoria, e una vittoria totale - è riapparsa perfino la salute del corpo, non so come, [94] e tutti mi dicono che sembro più giovane che mai. Il cielo mi protegge dalle follie! -Ma d’ora in poi, se Lei vorrà consigliarmi, allora io sarò consigliato bene e non avrò più nulla da temere. -Per quel che riguarda l'inverno, ho pensato seriamente ed esclusivamente a Vienna; i progetti invernali di mia sorella sono del tutto indipendenti dai miei, e non vi è quindi nessun pensiero recondito. Il Sud Europa non è ora nei miei pensieri. Non voglio più essere solo e voglio imparare di nuovo a diventare un uomo. Ah, in questa materia ho ancora quasi tutto da imparare! -[95] Riceva il mio ringraziamento, amica cara! Tutto andrà bene, come Lei ha detto.Al nostro Rèe, con tutto il cuore!Interamente Suo

F.N.Tautenburg presso DornburgTuringia.15

È con questi sentimenti di pena e di ammirazione per se stesso che Nietzsche ritorna su quella fase del suo sviluppo intellettuale di fronte alla quale noi ora ci troviamo. Possiamo subito notare come il suo elemento caratteristico siano fin dall’inizio le lotte e le ferite messe in conto per appropriarsi di una nuova visione del mondo, la profonda malattia da cui [96] egli infine plasmò la sua nuova salute. La sua originalità dovette perciò palesarsi molto meno nelle idee e nelle teorie che andava elaborando che nella forza con cui si separò dal vecchio ideale per poterle concepire. Non arrivò cioè, come succede a molti, alla consapevolezza di una maggiore autonomia e di un’attività spirituale più personale attraverso un’evoluzione intellettuale fredda e indifferente nei confronti dei pensieri acerbi che essa si lascia alle spalle. Ci arrivò soltanto attraverso una ribellione violenta contro il proprio passato, in cui i fattori intellettuali furono un elemento concomitante più che decisivo. Notiamo perciò come, in un primo momento, Nietzsche accetti sempre i nuovi pensieri così come li trova, con una certa mancanza di autonomia, accogliendoli cioè dapprima in modo acritico. Nel frattempo, infatti, tutta la sua energia è assorbita dalle esperienze più intime, e le nuove teorie in quanto tali - per ricorrere a un’espressione a lui cara - costituiscono soltanto una provvisoria « filosofia di proscenio » [Al di là

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del bene e del male, 289], mentre dietro le quinte, nascosta, si svolge la lotta dell’anima, il vero processo che conta.Quanto più saldamente egli è legato al passato, e quanto maggiore è la forza con cui il balzo verso il nuovo esige uno sradicamento totale dal vecchio terreno spirituale, tanto più profondo è il significato interiore della metamorfosi. Si può dunque affermare, in un certo senso, che proprio l’apparente mancanza di autonomia interiore con cui Nietzsche si abbandona a un nuovo modo di pensare che gli è estraneo testimonia la forza di un’autonomia eroica. Mentre i pensieri che gli sono più cari lo tengono ancora avvinto, egli si lascia andare inerme [97] in sfere di pensieri di fronte alle quali si sente ancora un estraneo, anzi, segretamente, un avversario, ma con queste belle parole nel cuore: «Una vittoria e una trincea conquistata non sono più faccende tue, ma della verità, - ma anche la tua sconfitta non è più affar tuo! » (Aurora, 370, «In che senso il pensatore ama il suo nemico»),È questo un elemento da non perdere di vista se si vuole rendere giustizia al brusco mutamento d’opinione di Nietzsche e se si vuole comprendere l’origine della sua prima opera positivistica, un’opera nata dal suo spirito in modo così sorprendente e inaspettato. Ancora nel 1876 era infatti apparsa l’ultima delle Considerazioni inattuali, il libretto Richard Wagner a Bayreuth scritto con traboccante entusiasmo, e già nell’inverno 1876-1877 uscì la prima delle sue raccolte di aforismi, Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (« Consacrato alla memoria di Voltaire in occasione della celebrazione dell’anniversario della sua morte, il 30 maggio 1778»), insieme a un’appendice, Opinioni e sentenze diverse (Ernst Schmeitzner editore, Chemnitz 1878). Per nessun altro libro valgono con maggior diritto le parole che egli ebbe a scrivere sulle opere di questo periodo: « I miei scritti parlano solo dei miei superamenti: dentro ci sono “io”, con tutto ciò che mi fu nemico. [...] Solitario ormai [.,.] presi [...] partito contro di me e per tutto ciò che mi faceva male e mi riusciva duro» (Umano, troppo umano, LI, «Prefazione alla nuova edizione » [1886]).Quest’opera riflette con tale chiarezza il suo stato d’animo di quel periodo, che essa pare contenere due parti del tutto diverse tra loro: da una parte il Nietzsche positivista, ancora lontano dal raggiungere una posizione autonoma, [98] che non ci offre quasi nulla di suo nelle nuove teorie che ha appena acquisito, ma che può soltanto indicarci il luogo in cui ora si trova, da quale nuova «pelle» egli si è fatto passivamente ricoprire. Dall’altra il Nietzsche che lotta e patisce, che si libera con risolutezza dei vecchi ideali e che, in questa lotta, ci mostra la commovente pienezza della più originale vita speculativa attraverso l’ardore con cui si volge contro il suo vecchio io e si procura ferite. Su questa base deve anche essere intesa la passione e la mancanza di riguardi con cui egli muove contro Wagner e le posizioni che questi sostiene. Nessuno è meno capace di una giustizia calma e ponderata di chi ha appena mutato le proprie opinioni e lo ha fatto non per motivi puramente intellettuali, bensì muovendo dall’elemento « umano, troppo umano » che sta al fondo della sua propria indole. Non scagliamo nessun

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pensiero tanto lontano da noi, e con maggiore forza, di quello da cui ci siamo appena separati attraverso un doloroso conflitto e innanzi al quale ancora stiamo, feriti e sconvolti, pieni di oscure lacerazioni che il nostro orgoglio cerca di tenere nascoste: vi è in tutto ciò un odio, come l’eco di un amore che non potremo mai scordare.Quanto mai indicativo della rapidità e della profondità di questo mutamento è il fatto che anche in questa occasione esso prese le mosse da un rapporto personale. Come il rovello maggiore nella lotta contro il vecchio ideale di conoscenza fu la rottura di un’amicizia, così anche la nuova forma di conoscenza ebbe a incarnarsi per Nietzsche in una persona. Quanto più dolorosa era stata la solitudine in cui la rottura dell’amicizia lo aveva sospinto, tanto più intimo divenne il rapporto che Nietzsche strinse con Paul Rèe, poiché, come gli scrisse una volta, [99] «per il solitario l’amico è un pensiero più prezioso che per chi sta in mezzo a molti » (31 ottobre 1880, dall’Italia).16

Se il rapporto con Richard Wagner fu caratterizzato dall’esclusività con cui Nietzsche gli si dedicava e lo ammirava, da una forma di discepolato, il suo legame di amicizia con Rèe costituì più una sorta di comunanza intellettuale che non trovava un ostacolo nel fatto che i due amici vivevano lontani e che Rèe poteva lasciare solo di tanto in tanto la sua residenza nella Prussia occidentale per incontrarsi con Nietzsche in luoghi diversi. Anche se, a dire il vero, già il 19 novembre 1877 da Basilea, dove viveva ancora tra i suoi compagni di idee, Nietzsche si lamentava per la distanza che a causa di una malattia di Rèe lo separava da molto dall’amico: « Spero di sentire presto da Lei, amico mio, che i maligni spiriti della malattia se ne sono andati del tutto: allora, per il Suo nuovo anno, non avrei altro da augurare a me stesso se non che Lei rimanga quello che è, e che continui ad essere per me quel che è stato in questo ultimo anno. [...] Cèrto però debbo dirLe che nella mia vita non avevo mai avuto tante gioie dall’amicizia quante ne ho avute quest’anno per merito Suo, per tacere di quel che ho imparato da Lei. Quando sento parlare dei Suoi studi, mi viene sempre l’acquolina in bocca per la voglia della Sua compagnia; noi siamo fatti proprio per intenderci bene, ci incontriamo, io credo, sempre a metà strada, come buoni vicini ai quali viene in mente sempre nello stesso momento di farsi visita, e si incontrano quindi al confine dei loro possedimenti. Forse è più nelle sue possibilità [100] che nelle mie superare la grande distanza tra Stibbe e Basilea; posso sperare in questo senso per l’anno nuovo? Quanto a me, sono troppo sofferente e malandato perché non mi sia lecito chiedere il più grande piacere che esista, anche se la richiesta è immodesta - una bella conversazione tra noi due su cose umane, una conversazione personale e non epistolare, che sono sempre meno in grado di sostenere».17

Quanto più le sofferenze fisiche costringevano Nietzsche alla solitudine, e quanto più doveva vivere isolato, lontano da tutti gli uomini per potere sopportare queste sofferenze, tanto più struggente era il desiderio di vedere l’amico capace di fare della sua solitudine una « solitudine a due »

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[Zweisamkeit]: «Dieci volte al giorno vorrei essere da Lei, con Lei» (lettera da Basilea, dicembre 1878).18 In spirito continuo a legare il mio futuro al Suo» (da Ginevra, maggio 1879).19 «Ho dovuto rinunciare a molti desideri, ma non ancora a quello di vivere insieme a Lei - non ho rinunciato al mio “giardino di Epicuro”» (da Naumburg, l’ultimo giorno d’ottobre del 1879).20

I violenti dolori e le crisi di cui Nietzsche soffriva risvegliarono in lui pensieri di morte che conferivano a ogni incontro un significato profondo; « Quanta felicità mi ha regalato, mio amico caro, straordinariamente caro ! » esclama dopo uno di questi incontri. « L’ho dunque ancora vista e trovata un’altra volta, come il mio cuore me ne aveva serbato il ricordo; quei giorni furono come un’ebbrezza continua, piacevole. Le confesso che spero di non rivederLa più, la mia salute ne risulta scossa troppo in profondità, il tormento troppo persistente, a che mi giovano tutti gli sforzi per dominarmi e la mia pazienza? Sì, a Sorrento c’era ancora da sperare, [101] ma è tempo passato. Così mi ritengo fortunato di averLa avuta, amico mio, cordialmente amato».21

In questi anni i due svilupparono opinioni tanto più concordanti, quanto più comuni erano i loro studi. Per lo più Rèe procurava a Nietzsche i libri di cui aveva bisogno, leggeva a voce alta per l’amico dagli occhi dolenti e viveva con lui una relazione e un continuo scambio di pensieri sia epistolare, sia diretto.«Mio carissimo amico [...] » - scrive Nietzsche dopo una separazione piuttosto lunga - «Per quando saremo insieme - se m’è dato provare ancora questa felicità - ho pronte molte cose dentro di me. E per quel momento è pronta anche una cassettina di libri intitolata Réealia, ci sono anche delle buone cose che Le faranno piacere. Può mandarmi un libro istruttivo, possibilmente di autore inglese,22 ma tradotto in tedesco e con bei caratteri grandi? Io vivo assolutamente senza libri, cieco per nove decimi come sono, ma dalle Sue mani accetterò volentieri il frutto proibito. - Evviva la coscienza, ora che avrà una sua storia e che il mio amico se ne è fatto lo storico! Fortuna e prosperità sul suo cammino. Vicino a Lei con tutto il cuore, il Suo Friedrich Nietzsche ».23

[102] E una volta ancora, variando le espressioni: «Con tutte le cose buone che Lei fa e che ha in animo di fare, la tavola sarà imbandita anche per me, e il mio appetito di Réealismo è molto vivo, Lei lo sa ».24

Il Réealismo fu dunque la prima forma in cui Nietzsche accettò il realismo filosofico e seppellì il vecchio idealismo. Non apprezzò soltanto, ma sopravvalutò addirittura - come documenta una lettera all’autore ancora conservata -15 la prima piccola opera di Rèe, apparsa anonima, le Osservazioni psicologiche (Carl Duncker, Berlino 1875), delle sentenze secondo lo stile e lo spirito di La Rochefoucauld. Gli autori preferiti di Rèe divennero ora anche i suoi preferiti: gli scrittori di aforismi francesi, La Rochefoucauld, La Bruyère, Vauvenargues, Chamfort, influenzarono in questo periodo lo stile e il pensiero di Nietzsche in modo straordinario. Degli scrittori filosofici francesi, d’intesa con Rèe, prediligeva Pascal e

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Voltaire, dei romanzieri Stendhal e Mérimée. Di importanza più profonda fu tuttavia per lui la seconda opera di Rèe, L’origine dei sentimenti morali (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1877),26 che in certa misura costituì, nel periodo successivo, la professione di fede positivistica di Nietzsche. Il libro lo avvicinò ai positivisti inglesi, a cui anche Rèe si era accostato, che egli prese tosto a preferire alle opere tedesche dello stesso genere. Il principale elemento d’attrazione del positivismo era rappresentato per Nietzsche dalla risposta alla domanda che Rèe affrontava nel suo libro, vale a dire la domanda intorno all’origine del fenomeno morale. [103] Per Rèe essa coincideva con la domanda sui fondamenti della sanzione di sentimenti altruistici; le sue ricerche si indirizzavano in primo luogo contro i sistemi etici della metafisica tradizionale. E poiché l’etica di Wagner e di Schopenhauer poggiava sull’altruismo e sul suo valore come sentimento metafisico, Nietzsche aveva trovato proprio nel libro di Rèe le armi più adatte per la sua lotta contro la visione del mondo che aveva abbandonato. «L’origine dei sentimenti morali» diventò così il vero oggetto della sua ricerca e il suo nuovo scritto può essere definito, in breve, come il tentativo di giungere a piena consapevolezza intorno alla nullità dei suoi ideali di un tempo attraverso uno sguardo sulla storta della loro origine. Lungo questa via tutto il suo filosofare si trasforma in una analisi e in una storia dei pregiudizi e degli errori umani; il metafisico si trasforma in psicologo e in storico, ponendosi sul terreno di un positivismo disincantato e coerente.Nietzsche aderì nel modo più rigoroso alla scuola positivistica inglese e alla sua nota posizione che riconduce i giudizi di valore e i fenomeni morali all'utilità, alla consuetudine e all’oblio delle originarie motivazioni utilitaristiche; non è perciò necessaria alcuna spiegazione specifica delle sue teorie, è sufficiente indicare il luogo da cui le ricava. Si leggano ad esempio passi come questo di Umano, troppo umano: « La storia dei [...] sentimenti morali si svolge nelle seguenti fasi principali. Prima si dicono buone o cattive singole azioni senza alcun riguardo ai loro motivi, ma solo per le loro conseguenze utili o dannose. Presto però si dimentica l’origine di queste designazioni e ci si immagina che [104] la qualità di “buono” o “cattivo” inerisca alle azioni in sé, senza riguardo alle loro conseguenze» (1, 39). «Quanto poco morale apparirebbe il mondo senza la dimenticanza! Un poeta potrebbe dire che Dio ha posto la dimenticanza come custode sulla soglia del tempio della dignità umana» (1,92). Il cammino percorso dalla cosiddetta moralità delle azioni può essere indicato con le parole: « Ora per abitudine, eredità e educazione, originariamente perché il vero - come anche l’equo e il giusto - è più utile e procura più onore del non vero» (11, 26). Quindi, nell’aforisma 40 di II viandante e la sua ombra: «L’importanza del dimenticare nel sentimento morale. Le stesse azioni che nella società originaria furono in un primo tempo ispirate dallo scopo dell’utilità comune, furono successivamente compiute da altre generazioni per altri motivi: per paura o per rispetto di coloro che le esigevano e raccomandavano, oppure per abitudine, in quanto sin dall’infanzia le si erano viste fare intorno a sé,

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oppure per benevolenza, in quanto il compierle creava dappertutto gioia e volti consenzienti, o per vanità, in quanto venivano elogiate. Tali azioni, in cui il motivo principale, quello dell’utilità, sia stato dimenticato, si chiamano poi morali».« Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci fu regolarmente richiesto senza motivo » (Il viandante e la sua ombra, 52), mentre quel che è sorto nel corso della storia dell’umanità nel modo testé descritto, viene tramandato al singolo uomo come un insieme di concetti morali rigorosi e sanzionati dalla religione. «Il costume rappresenta le esperienze di uomini passati su quanto si presumeva utile e dannoso, - ma il sentimento del costume (eticità) non si ricollega a quelle esperienze come tali, bensì all’età, [105] alla santità, alla indiscutibilità del costume» (Aurora, 19).L’intera opera risulta così pervasa da ciò a cui già il titolo allude in modo caratteristico: un lavoro concettuale di distruzione, la messa a nudo senza riguardi del carattere «troppo umano» di tutto quel che fino a ora veniva ritenuto sacro, eterno e sovrumano. Per cogliere la rigida unilateralità e l’esagerazione con cui in queste pagine Nietzsche si rivolge contro se stesso, vale la pena di esaminare la sua nuova posizione rispetto a quei quattro punti che erano stati oggetto di un’interpretazione opposta nel suo precedente periodo filosofico: l’«elemento dionisiaco», il «concetto di decadenza», l’«inattuale» e il «culto del genio».Al posto di Dioniso, quale custode e protettore del nuovo tempio della verità troviamo ora quel Socrate tanto denigrato in precedenza. « Se tutto va bene, verrà il tempo in cui, per promuovere il proprio avanzamento spirituale e morale, si prenderanno in mano i Memorabili di Socrate a preferenza della Bibbia, e in cui Montaigne e Orazio saranno utilizzati come messaggeri, e guide per la comprensione del più semplice e imperituro mediatore-saggio, Socrate. A lui riconducono le strade delle più diverse maniere filosofiche di vita, che sono in fondo le maniere di vita dei diversi temperamenti, stabiliti dalla ragione e dall’abitudine, e tutti quanti rivolti con la loro punta verso la gioia di vivere e di se stessi [...]» (Il viandante e la sua ombra, 86). Questa vittoria dell’elemento socratico, della ragione e dell’impassibilità del saggio sull’elemento dionisiaco, l’esaltazione degli istinti e l’ebbrezza vitale dimentica di se stessa, culmina nella frase: «L’uomo scientifico è l’ulteriore sviluppo dell’uomo artistico» [106] (Umano, troppo umano, 1, 222) e di tutto quel che si basa sull’intelligenza invece che sull’ebbrezza, infatti « l’artista è già di per sé un essere rimasto indietro» (Umano, troppo umano, 1, 159). La nascita dello spirito socratico rappresenta perciò un eccezionale progresso per la Grecia: «Prendere le forme dagli altri popoli, non crearle, ma trasformarle col dar loro il più bell’aspetto - ciò è greco: imitare, non per l’uso, bensì per l’illusione artistica, [...] ordinare, abbellire, appianare - così si procede da Omero fino ai sofisti del terzo e quarto secolo dell’era volgare; e questi ultimi non sono altro che facciata, parola pomposa e gesto entusiastico e si rivolgono solamente ad anime svuotate e avide di

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apparenza, di suono e di effetto. Ed ora si apprezzi la grandezza di quei greci d’eccezione che crearono la scienza! Chi racconta di loro, racconta la storia più eroica dello spirito umano! » (Umano, troppo umano, II, 221; si veda anche Aurora, 544, riguardo al «tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale» di allora).La tesi secondo cui tutto ciò che attiene alla sfera del sentimento origina dai giudizi e dalle deduzioni concettuali viene contrapposta a quanti sostengono che la vita istintuale è la più alta forma di vita: « I sentimenti non sono niente di ultimo, di originario; dietro ai sentimenti stanno giudizi e apprezzamenti di valore che abbiamo ereditato nella forma di sentimenti [...]. L’ispirazione che discende dal sentimento è nipote di un giudizio - e spesso di un falso giudizio! In ogni caso non del tuo proprio giudizio! Aver fiducia nel proprio sentimento, significa obbedire al proprio nonno e alla propria nonna e [107] ai loro progenitori, più che agli dèi che sono in noi\ la nostra ragione cioè e la nostra esperienza » (Aurora, 35). I «nobilmente entusiasti», che tentano di impedire che il sentimento venga subordinato alla ragione, inducono a un «pervertimento intellettuale» (Aurora, 543). «A questi entusiasti ubriaconi l’umanità deve gran parte dei suoi mali [...]. Oltre a ciò quegli esaltati impiegano tutte le loro forze nel radicare dentro la vita la loro fede nell’ebbrezza quasi fosse la fede nella vita stessa: un’orribile fede! Come i selvaggi vengono oggi rapidamente guastati dall’“acqua di fuoco” e periscono, così l’umanità è stata lentamente e fino in fondo guastata per tutti i versi dalle spirituali acquaviti di sentimenti inebrianti [...] » (Aurora, 50). « [...] Non pensano che anche la conoscenza della più brutta realtà è bella [...]. La gioia degli uomini della conoscenza accresce la bellezza del mondo [...]: due uomini tanto fondamentalmente diversi come Platone e Aristotele concordavano su ciò che costituisce la suprema felicità [...]: lo trovavano nel conoscere, nell’attività di un intelletto bene esercitato, che sa rinvenire e inventare (non già, semmai, nell’“intuizione” [...], non nella visione, [...] e neppure nel fare, [...])!» (Aurora, 550). ,Così tramonta il precedente culto del genio:27 « Ah, la gloria a buon mercato del “genio” ! Come hanno fatto presto a erigergli il trono, a trasformare l’adorazione in una consuetudine! Si continua sempre a star proni dinanzi alla forza 1108] - secondo un’antica abitudine da schiavi - eppure, se deve essere stabilito il grado di venerabilità, è decisivo, nella forza, soltanto il grado di ragione» (Aurora, 548). E' iniziata l’epoca degli spiriti forti e schietti, la smodata venerazione della genialità artistica è di ostacolo alla « progressiva, virile educazione dell’umanità» (Umano, troppo umano, 1, 147). All’apparenza, il genio lotta sì «per la superiore dignità e importanza dell’uomo», ma «non vuole a nessun costo farsi privare delle interpretazioni che alla vita conferiscono splendore e profondità, e si ribella contro metodi e risultati freddi e schietti », invece di fare un passo indietro di fronte alla più importante « dedizione scientifica al vero in ogni forma, per spoglio che possa apparire» (Umano, troppo umano, 1, 146).

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Se si analizza la cosiddetta «ispirazione», si nota come l’opera d’arte non sia tanto il prodotto del miracolo di una fantasia creativa, ma del « giudizio » che osserva, ordina, sceglie - « come ora, dai taccuini di Beethoven, si vede che egli ha composto le più belle melodie a poco per volta e quasi trascegliendo da molteplici spunti. [...] L’improvvisazione artistica rimane molto in basso rispetto al pensiero d’arte scelto con serietà e sforzo» (Umano, troppo umano, 1, 155). Il genio è dunque qualcosa che può essere appreso in misura assai maggiore di quanto per lo più non si ritenga: « Non parlate di doni naturali, di talenti innati! Si possono nominare grandi uomini di ogni specie, che furono poco dotati. Ma essi acquistarono grandezza, divennero “geni” [...]: essi avevano tutti quella solida serietà di mestiere, che impara a formare perfettamente le parti [109] prima di osar comporre un gran tutto; a tal fine essi prendevano tempo, perché provavano un piacere maggiore nel far bene il piccolo, il secondario, che nel mirare all’effetto di un insieme abbagliante» (Umano, troppo umano, 1, 163). In queste pagine - in cui Nietzsche pensa al miracolo di Wagner - l’impulso a spiegare e a sminuire il miracolo della genialità è così forte quanto lo sarà, nella sua ultima fase intellettuale, quello di parlare in favore del genio - questa volta del vero genio - e di glorificarlo. In questo momento ogni vera grandezza gli appare addirittura come un destino, poiché essa tenta di « soffocare molte forze e germi più deboli », mentre sarebbe auspicabile e giusto che a vivere non fossero soltanto i grandi uomini, ma che venisse insieme « concessa aria e luce anche alle nature più deboli e delicate »( Umano, troppo umano, I, 158). «Il pregiudizio a favore della grandezza. Gli uomini sopravvalutano manifestamente ogni cosa grande ed eminente. [...] Le nature estreme attirano troppo l’attenzione degli altri; ma è altresi necessaria una cultura molto più meschina per lasciarsi avvincere in questo caso» (Umano, troppo umano, 1, 260).Nietzsche non trova mai sufficienti parole per fustigare l’orgoglio di chi si ritiene un’eccezione rispetto alla generalità: «E' fantasticheria credere di essere un miglio di strada avanti e che l’intera umanità segua la nostra via. [...] Non bisogna pronunciare così facilmente la parola dell’orgoglioso isolamento» (Umano, troppo umano, 1, 375). Il più delle volte, infatti, questa fantasticheria si basa su di una fatua illusione riguardo ai motivi di quel che facciamo e non facciamo; il vero pensatore sa che un’accentuazione tanto marcata [110] delle differenze di rango tra gli uomini non è giustificata e che l’« umano », anche nei suoi sentimenti più nobili e alti, resta pur sempre qualcosa di «troppo umano». Forte di questa idea egli è in grado di porsi allo stesso livello di tutti gli altri e, proprio perciò, di sollevarsi con il pensiero al di sopra della sua natura inadeguata. « Verrà forse un tempo in cui questo coraggio del pensiero sarà così radicato, che come l’estrema superbia esso si sentirà al di sopra degli uomini e delle cose, - un tempo in cui il saggio, essendo l’uomo più di chiunque altro coraggioso, vedrà, più di chiunque altro, se stesso e l’esistenza sotto di sé?» (Aurora, 551). Il saggio tende perciò a valutare le azioni degli uomini in base al loro

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carattere « troppo umano »: « Si sbaglierà di rado se si ricondurranno le azioni estreme alla vanità, quelle mediocri all’abitudine e quelle meschine alla paura» (Umano, troppo umano, 1, 74).L’importanza della vanità quale motivo principale delle azioni umane viene costantemente sottolineata e valorizzata da Nietzsche, e nel libro di Rèe le era dedicato tutto un capitolo. « Chi nega la vanità in sé la possiede di solito in forma così brutale, da chiudere istintivamente gli occhi di fronte ad essa, per non doversi disprezzare» (Umano, troppo umano, 11, 38). «Come sarebbe povero lo spirito umano senza la vanità! » (Umano, troppo umano, 1, 79). La vanità, la «cosa in sé umana» (Umano, troppo umano, II, 46). «La peste peggiore non potrebbe nuocere tanto all’umanità quanto se un giorno si dileguasse in quest’ultima la vanità » (Il viandante e la sua ombra, 285). Infatti, anche ciò che siamo soliti considerare come forza o come il potere consapevole di chi vale più di ogni altro è per lo più soltanto una manifestazione della vanità di mettersi in mostra. [111] L’uomo vuole valere più di quanto la sua forza gli consenta effettivamente di valere. « Egli nota per tempo che non ciò che è, ma ciò che viene considerato, lo sorregge o lo perde: ecco l’origine della vanità» (Il viandante e la sua ombra, 181, «La vanità come la grande utilità»). In quest’ultimo aforisma Nietzsche equipara l’individuo forte a quello vanitoso, astuto, furbo, che nasconde la propria paura e la propria mancanza di difese accrescendo la considerazione in cui viene tenuto dagli altri. Le affermazioni a tal riguardo si trovano in spiccato contrasto con la sua più tarda teoria delle nature servili e di quelle signorili, così come con quella dell’originaria natura sociale dell’individuo (cfr. al riguardo anche l’aforisma «Vanità come sopravvivenza di uno stato non sociale », in II viandante e la sua ombra, 31). La vanità si dilegua nella misura in cui l’uomo superiore prende consapevolezza dell’uguaglianza o della somiglianza delle motivazioni umane e si riconosce nel carattere « troppo umano » dei suoi impulsi che lo pone sullo stesso piano di tutti gli altri uomini.L’unica differenza che davvero conta tra gli uomini è quella relativa al tipo e al grado delle loro facoltà intellettuali; nobilitare gli uomini non significa altro che portare l’intelligenza tra loro. Anche ciò che da un punto di vista morale può essere definito cattivo, nella maggior parte dei casi si dimostra condizionato da abiezione e abbrutimento spirituale. « Molte azioni vengono dette cattive, mentre sono soltanto stupide, perché il grado di intelligenza che si decise per esse era molto basso» (Umano, troppo umano, 1, 107). L’incapacità di valutare correttamente il danno o la sofferenza che si arreca ad altri fa sì che il cosiddetto delinquente, colui che è rimasto arretrato nel proprio sviluppo intellettuale, possa sembrare particolarmente [112] crudele e spietato. «Se l’individuo combatte questa lotta in modo che gli uomini lo dicano buono, o in modo che lo dicano cattivo, di ciò decide la misura e la conformazione del suo intelletto» (Umano, troppo umano, 1, 104). «Gli uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà precedenti [...]. Sono uomini arretrati il cui cervello, per tutti

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i possibili casi nel decorso del processo ereditario, non ha continuato a svilupparsi così delicatamente e molteplicemente» (Umano, troppo umano, 1,43). Sono gli uomini del declino. Quanto più progredito è infatti un uomo, tanto più si raffina, si mitiga, anzi in certa misura si assottiglia la grezza forza istintuale delle passioni primitive dalla quale ancora sgorgano le azioni dell’uomo arretrato. « Buone azioni sono cattive azioni sublimate; cattive azioni sono buone azioni imbruttite e abbrutite. [...] I gradi della capacità di giudizio decidono da che parte uno si lasci trarre [...]. Anzi, in un determinato senso, tutte le azioni sono ancor oggi stupide, perché il più alto grado di intelligenza umana [...] sarà sicuramente ancora superato: e allora [...] si compie il primo tentativo di vedere se l’umanità possa trasformarsi da un’umanità morale in un 'umanità saggia» (Umano, troppo umano, I, 107). Suo tratto distintivo sarà che negli uomini «l’istinto di violenza» si farà «più debole », « la giustizia in tutti più grande », mentre cesseranno «violenza e schiavitù» (Umano, troppo umano, 1,452). Da invidiare sono gli uomini a cui le consuetudini di generazioni hanno trasmesso in eredità un animo mite, compassionevole e amorevole: « L’origine da antenati buoni costituisce la vera [113] nobiltà di nascita; un’unica interruzione di quella catena, cioè un antenato cattivo, sopprime la nobiltà di nascita. Bisogna chiedere a chiunque parli della propria nobiltà: non hai nessun uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio o crudele fra i tuoi antenati? Se egli in buona scienza e coscienza può rispondere di no, se ne ricerchi l’amicizia » (Umano, troppo umano, 1, 456). «Il mezzo migliore per cominciare bene ogni giornata è, svegliandosi, pensare se non si possa in questa giornata procurare una gioia almeno a una persona. Se ciò potesse valere come un sostitutivo dell’abitudine religiosa della preghiera, il prossimo trarrebbe vantaggio da questo cambiamento» [Umano, troppo umano, 1, 589]. E questa magnificazione dei sentimenti delicati e compassionevoli a discapito non solo della brutale rozzezza, ma anche della passione entusiastica dell’ebbrezza religiosa o artistica, risuona altresì in questa bella giustificazione dell’irreligiosità: « Nel mondo non c’è abbastanza amore e bontà per poterne far dono anche a esseri immaginari» (Umano, troppo umano, 1, 129).28

Avremo modo di vedere in seguito con quanta forza l’ultima filosofia nietzscheana si scagli contro questo modo d’intendere la morale della compassione e questo indebolimento della vita degli istinti, e di come Nietzsche riservi il nome di uomo superiore soltanto a chi conserva in sé tutta la pienezza delle passioni [114] e degli istinti — quindi all’uomo « cattivo». A questo punto della sua evoluzione, invece, non riesce a concepire alcun valore umano al di fuori della bontà e del disinteresse, poiché essi soltanto rappresentano il superamento del nostro passato di animali.E' soltanto l’uomo saggio, dunque, che si dovrebbe chiamare «buono», non perché sia di natura diversa dall’uomo che saggio non è, ma perché la condizione umana originaria si è in lui spiritualizzata e, in virtù di ciò, si è « addolcita ogni intemperanza nella sua costituzione» (Umano, troppo umano, 1, 56). «La piena risolutezza del pensare e del ricercare, ossia il libero

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pensiero divenuto proprietà del carattere, rende moderati nell’agire giacché indebolisce la cupidigia» (1, 464). «In tal modo [...] si dilegua sempre più [...] l’eccessiva eccitabilità dell’animo. Egli [il saggio] si aggira alla fine tra gli uomini come un naturalista fra le piante e percepisce se stesso come un fenomeno che eccita fortemente solo il suo istinto conoscitivo» (1, 254). Ogni grandezza umana si basa su di un affinamento di quel che è legato all’istinto; l’uomo superiore nasce soltanto dalla cancellazione dell’elemento animale, come un «non-più-animale», pensato in modo meramente negativo; in quanto «essere dialettico e razionale», egli è il « superanimale » (1,40), in cui può a poco a poco mettere radici « una nuova abitudine, quella di comprendere, di non amare, di non odiare, di guardare dall’alto» (1, 107).Un « superuomo », al contrario, un essere dalle qualità positive, nuove e superiori, era in quell’epoca per Nietzsche una fantasticheria totale, e l’escogitarla, la dimostrazione più forte della vanità umana. « Ci dovrebbero essere creature dotate di spirito più di quanto non siano gli uomini, anche solo per gustare a fondo l’umorismo insito nel fatto [...] che l’uomo si considera lo scopo dell’intera esistenza del mondo, e l’umanità è veramente soddisfatta solo se può assegnarsi una missione mondiale» (Il viandante e la sua ombra, 14). « Una volta si cercava di pervenire al sentimento della sovranità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c’è la scimmia accanto ad altri orribili animali, e digrigna intelligentissima i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui va l’umanità deve servire a dimostrare la sua sovranità [...]. Ahimè, anche così non si arriva a niente! [...] Per quanto alto possa risultare lo sviluppo dell’umanità - che forse finirà per essere assai più in basso di quanto non fosse al principio -non c’è per essa alcun trapasso in un ordine più elevato, come non potrebbero la formica e il verme auricolare innalzarsi, al termine della loro “carriera terrestre”, all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire si strascica dietro l’essere stato: perché mai in questa eterna commedia ci dovrebbe essere un’eccezione [...]? Basta con questi sentimentalismi!» (Aurora, 49). Se un uomo riuscisse a penetrare a fondo nella vita, allora dovrebbe « disperare del valore della vita; se riuscisse ad abbracciare e sentire in sé l’intera coscienza dell’umanità, egli proromperebbe in una maledizione contro l’esistenza; giacché in complesso l’umanità non ha mete, e per conseguenza l’uomo [...] può trovare in essa non la sua consolazione e il suo sostegno, ma la sua disperazione» (Umano, troppo umano, 1, 33). Quindi «il primo principio della nuova vita » recita: « Bisogna organizzare la vita su ciò che è più sicuro e dimostrabile: [116] non, come finora si è fatto, su ciò che è più lontano, più indeterminato e che ha l’orizzonte più nuvoloso» (Il viandante e la sua ombra, 310). Si deve diventare di nuovo «buoni vicini delle cose prossime» (Il viandante e la sua ombra, 16) e, invece di bearsi nell’« inattualità » del passato e del futuro più remoti, incarnare i pensieri più alti della conoscenza del proprio tempo. L’umanità, infatti, può ora avere di mira, in luogo di tutti quegli obiettivi fantastici, «la conoscenza della verità

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quale unica immensa meta» (Aurora, 45). «Verso la luce - l’ultimo tuo movimento; un giubilo di conoscenza - l’ultimo tuo accento» (Umano, troppo umano, 1, 292).È possibile che un intellettualismo così eccessivamente sviluppato risulti di danno alla felicità e alla capacità di vivere dell’umanità, che sia in un certo senso un « sintomo di decadenza», - ma in questo periodo il concetto di decadenza coincide per Nietzsche con quello della più nobile grandezza: «Forse potrà anche darsi che l’umanità perisca per questa passione della conoscenza [...]. Non sono amore e morte fratello e sorella? [...] Piuttosto che retroceda la conoscenza noi tutti preferiamo che l’umanità perisca! » (Aurora, 429). Un tale «epilogo tragico della conoscenza» (Aurora, 45) sarebbe giustificato, poiché nessun sacrificio è troppo grande per essa: « Fiat veritas, pereat vita! ». Questo motto riassumeva allora l’ideale conoscitivo nietzscheano - lo stesso motto contro cui, ancora poco tempo prima, egli si era scagliato con il più grande accanimento e che, soltanto pochi anni dopo, avrebbe combattuto con pari violenza: il rovesciamento di questo motto può dunque essere considerato la quintessenza della sua prima, così come della sua tarda dottrina. La volontà di vita a ogni costo, anche a quello della conoscenza della vita: [117] è questa la «nuova dottrina» che Nietzsche avrebbe successivamente contrapposto a quell’infiacchimento della vita la cui comprensione culmina nel riconoscimento della mancanza di valore di ogni cosa creata; «Nella maturità della vita e dell’intelligenza l’uomo è colto dal sentimento che suo padre ebbe torto a generarlo» (Umano, troppo umano, 1, 386); infatti « ogni fede nel valore e nella dignità della vita è basata su un pensiero non puro» (Umano, troppo umano, 1, 33).Seguendo i pensieri di Nietzsche in questo gruppo di opere, si può distintamente avvertire la costrizione interna che lo portò ad accentuarli fino a conseguenze sempre più aspre e il grado di autocontrollo con cui ciò avvenne. Ma proprio in virtù del contrasto tra questa idea di conoscenza e i suoi desideri e bisogni più intimi, la conoscenza della verità divenne per lui un ideale - assunse ai suoi occhi il valore di una forza più alta, distinta, superiore. La costrizione, a cui in tal modo si sottomise, gli fece assumere nei confronti di questo ideale un atteggiamento entusiastico, quasi religioso, e gli rese possibile quella scissione di se stesso, motivata religiosamente, di cui Nietzsche aveva bisogno; quella scissione grazie alla quale l’uomo della conoscenza può osservare dall’alto i propri sentimenti e i propri impulsi come se fossero una seconda natura. Sacrificandosi, per così dire, per la verità come per una potenza ideale, egli pervenne a una liberazione dagli affetti di tipo religioso che accese in lui un fuoco, quale nessuna liberazione calda e pacifica dai suoi intimi desideri e inclinazioni avrebbe potuto far divampare. In modo alquanto paradossale, tutta la sua lotta contro l’ebbrezza, tutta la sua magnificazione [118] della mancanza di passioni, sembrano così, in questo periodo, soltanto un tentativo di giungere all’ebbrezza attraverso una violenza su se stesso.

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La sua metamorfosi si compie perciò in modo estremo; si potrebbe addirittura affermare che l’energia impiegata per pronunciare un sonoro e spregiudicato «Sì!» all’indirizzo del nuovo modo di pensare, rappresenti solamente l’atto di violenza di un «No! » con cui egli cerca di soggiogare la sua natura e i suoi bisogni più profondi. La « spregiudicata freddezza e la tranquillità dell’uomo della conoscenza » - il suo ideale in questa fase della sua evoluzione - rappresentavano una specie di supplizio sublime che egli riuscì a sopportare grazie alla risolutezza con cui concepiva le sofferenze della vita dell’anima come una delle « malattie per le quali occorrono cataplasmi ghiacci» (Umano, troppo umano, I, 38) - e che fanno anche bene, poiché «il freddo pungente è uno stimolante altrettanto efficace di un grado di calore più elevato ».Il suo accordo con l’indirizzo speculativo di Rèe non si palesa perciò mai con tanta evidenza come nella prima opera, Umano, troppo umano, all’epoca in cui, dunque, egli soffriva nel modo più intenso per la separazione da Wagner e dalla sua metafisica. E fu il carattere di Rèe a fargli spesso da guida nel suo eccessivo intellettualismo; sulla sua base modellò un’immagine ideale che gli servì da regola: la superiorità del pensatore sull’uomo, l’indifferenza per ogni valutazione proveniente dalla vita affettiva, la dedizione incondizionata e senza riguardi alla ricerca scientifica si profilarono innanzi a lui come un nuovo e superiore tipo di uomo della conoscenza e conferirono alla sua filosofia la sua impronta peculiare.[119] Mosso dal bisogno di vedere incarnati in una forma umana i pensieri puramente scientifici che desumeva dal positivismo, Nietzsche restò tuttavia preso al laccio dall’immagine di una personalità specifica e determinata, che gli riusciva del tutto contraria, tormentandosi per poterne accentuare ancor di più i tratti. Il fatto che, per evolversi, avesse sempre bisogno di negare se stesso, e che per crescere intellettualmente avesse bisogno di sofferenza volontaria, chiarisce anche in questo caso l’apparente contraddizione per cui, per salvare la propria autonomia dall’influsso di Wagner e della metafisica, cadde ancora una volta in balia di un potere estraneo, cercò di rinunciare al suo io. Né nella natura dell’indirizzo filosofico seguito, né nel suo rapporto con Rèe vi erano motivi perché ciò avvenisse: le ragioni erano legate esclusivamente alla sua natura. Fu questa soltanto a spingerlo in direzione di un rapporto stretto con un’altra persona e i suoi pensieri; lo spinse, per così dire, a pensare e creare uno «spirito collettivo» (Umano, troppo umano, 1,180). È in questo senso che, inviandogli il suo Umano, troppo umano, Nietzsche potè scrivere all’amico: « A Lei appartiene, agli altri viene regalato! » 29 - per poi aggiungere: «Tutti i miei amici ritengono concordemente che il mio libro sia stato scritto e provenga da Lei: mi congratulo perciò per questo nuovo lavoro [...]. Evviva il Réealismo [...]! ».30

In questo modo, tra i due amici nasce una peculiare forma di complementarietà del tutto opposta a quella che si era avuta un tempo tra Nietzsche e Wagner. Per Wagner - il genio dell’arte - Nietzsche avrebbe dovuto essere il pensatore e l'uomo della conoscenza, l’intermediario

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scientifico della nuova cultura artistica. Ora, al contrario, era Rèe il teoreta [120] e Nietzsche lo completava ricavando le conseguenze pratiche dalle sue teorie e cercando di stabilirne il significato per la cultura e per la vita. Su questo punto, intorno al problema del valore, le personalità intellettuali dei due amici prendevano strade diverse. Là dove l’uno smetteva, l’altro cominciava. Come pensatore dall’approccio rigidamente unilaterale, Rèe non si fece mai influenzare da simili questioni; era lontano dalla ricchezza spirituale, artistica, filosofica e religiosa di Nietzsche, ma, dei due, era la mente più acuta. Guardava con stupore e interesse il modo in cui i fili dei suoi pensieri, orditi con rigore e precisione, si mutavano, tra le mani incantate di Nietzsche, in tralci vivi e fiorenti.Tipico delle opere di Nietzsche è il fatto che anche gli errori e le inesattezze che esse contengono schiudano una pienezza di stimoli tale da accrescerne il significato complessivo, anche là dove ne diminuisce il valore scientifico. Caratteristico delle opere di Rèe è invece il fatto che esse contengano più carenze che errori; ciò viene espresso con la massima chiarezza dalla frase conclusiva della breve prefazione a L'origine dei sentimenti morali; « In questo scritto vi sono delle lacune, ma le lacune sono meglio dei riempitivi! ». La geniale poliedricità di Nietzsche apre invece nuovi scorci proprio su regioni di cui la logica non possiede la chiave d’accesso, in cui si vede cioè costretta a lasciare alla conoscenza le sue lacune.Se il fondersi appassionato della vita speculativa con la vita interiore nel suo complesso era un tratto peculiare di Nietzsche, un tratto di fondo dell’indole spirituale di Rèe era invece la scissione netta e portata all’estremo di pensiero e sentimento. Alla genialità di Nietzsche corrispondeva il fuoco [ 121] che ardeva vivace dietro i suoi pensieri e che li faceva brillare di una luce la cui potenza essi non avrebbero mai potuto acquisire grazie soltanto alla comprensione logica; la forza intellettuale di Rèe si basava invece sulla fredda imperturbabilità della dimensione logica di fronte a quella psichica, sull’acutezza e il limpido rigore del suo pensiero scientifico. Il pericolo per Rèe era rappresentato dall’unilateralità e dalla chiusura di questo pensiero, dalla mancanza di quel fiuto raffinato e lungimirante che richiede più comprensione che comprendonio; per Nietzsche, diversamente, il pericolo stava in quella sconfinata capacità di sentire e nella dipendenza dei prodotti del suo intelletto dai sentimenti e dai moti dell’animo. Anche quando il suo modo di pensare pareva trovarsi in momentanea contraddizione con i desideri e gli impulsi segreti del suo cuore, era proprio da questa lotta e da questo scontro brutale con quei desideri e quegli istinti che egli traeva la sua più elevata capacità conoscitiva. L’indole spirituale di Rèe, per contro, pareva escludere ogni contributo della vita affettiva a questioni attinenti la sfera della conoscenza, una volta che l’esito del processo gnoseologico corrispondeva al suo sentimento personale. Il pensatore che era in lui guardava infatti dall’alto, con senso di superiorità e di estraneità, l’uomo che era in lui, suggendogli così, in un certo senso, parte della sua energia e, insieme a essa, del suo egoismo. In luogo di questo, nel carattere di Rèe, non

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vi era null’altro se non una profonda, notevole e illimitata bontà d’animo, le cui manifestazioni rappresentavano un’interessante e toccante antitesi alla fredda sobrietà e al rigore del suo pensiero. Nietzsche, al contrario, possedeva quell’alato amor proprio che si riversava nei suoi ideali gnoseologici fino al punto da confondersi quasi con essi e porsi di fronte al mondo [122] con l’entusiasmo dell’apostolo e di colui che converte.Dietro all’intesa teoretica, nascosta sotto il velo dei pensieri, vi è dunque una profondissima diversità di sentire dei due amici. Quel che per l’uno costituiva l’espressione naturale della propria indole, era tutto il contrario dell’indole dell’altro; ma proprio per questo i due avevano lo stesso ideale. Nietzsche stimava e sopravvalutava in Rèe ciò che gli riusciva più difficile, giacché l’intimo significato della sua trasformazione consisteva ancora una volta per lui in una costrizione di se stesso: «Mio caro amico e perfezionatore! » lo chiama infatti in una lettera « come potrei tener duro senza osservare di tanto in tanto la mia natura, per così dire, in un metallo puro o in una forma più elevata, io, che sono a mia volta un frammento, [...] se, in quei rari, rari e buoni momenti, non scrutassi di fuori la terra migliore dove si aggirano le nature complete e perfette! ». 31

Ma questa abnegazione incurante di sé non è che la via lungo cui egli, nel quadro di una nuova visione del mondo, si in largo verso un nuovo sé; non è che la dolorosa condizione in cui egli crea e modella ancora una volta i frutti dello spirilo altrui che ha preso su di sé, per trarne uno spirito suo, originale e colmo di vita. Sono, come sempre, le doglie che accompagnano la nuova creazione, garantendogli di vivere appieno e di rinnovarsi in essa con tutto il suo essere e le sue energie.La storia dell’evoluzione di Nietzsche in questa metamorfosi e del suo liberarsi di essa, è in fondo la storia della sua esperienza interiore, la storia delle lotte della sua anima. Nei lavori che appartengono a questo periodo - dal suo [123] primogenito, che gli diede molte preoccupazioni, Umano, troppo umano, fino all’atmosfera profondamente commossa e gioiosa di ha gaia scienza, che in certa misura appartiene già al periodo successivo - questa evoluzione si dispiega di fronte a noi. In tutte queste opere, in una serie di raccolte di aforismi, egli ha voluto innalzare «l’immagine e l’ideale dello spirito libero », 32 dello spirito libero nei suoi pensieri riguardo ogni ambito del sapere e della vita, e ancor più nella pienezza stessa delle sue esperienze speculative. La tonalità emotiva in cui ciascuno di questi libri è venuto alla luce s’imprime ogni volta in essi come ciò che hanno davvero di caratteristico già a partire dal titolo. I titoli di Nietzsche non sono mai ricavati in modo casuale da una materia astratta o indifferente; sono in tutto e per tutto immagini di processi interiori, ma sono in tutto e per tutto dei simboli. Così, sul finire degli anni settanta, riassunse in poche parole il contenuto fondamentale della sua solitaria esistenza di pensatore, allorché sul frontespizio del suo secondo lavoro scrisse: Il viandante e la sua ombra (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1880).

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Con quest’opera egli ha fatto ritorno nella solitudine di se stesso dall’ardore delle sue prime, appassionate lotte: il guerriero si è fatto viandante il quale, invece di portare attacchi astiosi alle abbandonate contrade del suo spirito, esamina la terra del suo esilio volontario per vedere se il terreno pietroso non si lasci coltivare e se non possegga anch’esso, in qualche luogo, uno strato di terra fertile. Lo scontro roboante con l’avversario si è dissolto nel tranquillo dialogo con se stesso: il solitario presta ascolto ai propri pensieri come in una conversazione a più voci, vive in loro compagnia come fossero un’ombra che lo accompagna ovunque. Ma gli appaiono foschi, monotoni e spettrali, [124] anzi tanto grandi e minacciosi come lo sono soltanto le ombre, quando il sole è al tramonto. Non a lungo, però, poiché la sua vicinanza li priva progressivamente di ciò che hanno di umbratile: quel che era pensiero e pallida teoria acquista sonorità e sguardo, forma e vita. Ma questo è il processo interiore attraverso cui Nietzsche si appropria e dà nuova forma a quel che è nuovo e inconsueto: infondendogli vita, aiutandolo a raggiungere una pienezza vitale. Si potrebbe affermare che Nietzsche si sceglie le più malinconiche ombre del pensiero per nutrirle con il proprio sangue, per vederle infine mutarsi - sia pure tra perdite e ferite - nella propria persona, nel proprio doppio.Nella misura in cui i pensieri di cui si attornia accolgono in loro tutta la ricchezza del suo essere, nella misura in cui si saziano lentamente di tutta la sua magnifica forza e del suo ardore, la tonalità d’animo di Nietzsche si fa più alta e fiduciosa. Si avverte come egli percorra passo a passo la strada verso se stesso, cominci a sentirsi a suo agio nella sua nuova «pelle», cominci a vivere appieno la sua singolarità, come un viandante che dopo dure fatiche torni finalmente a casa. Non vuole più raggiungere la meta speculativa del suo compagno Paul Rèe, vuole la sua meta. Questo lo si capisce perfino dalle lettere in cui egli ammira pur sempre il teoreta: « Fra l’altro sono sempre più ammirato di come si dimostra agguerrita la Sua esposizione sotto l’aspetto logico. Ecco, di una cosa del genere io non sono capace, tutt’al più sospirare un poco o cantare - ma dimostrare in modo da dare al cervello un senso di piacere, questo sa farlo Lei, ed è cento volte più importante».33

[125] In questo «cantare e sospirare» è proprio la sua genialità a imporsi sulla sua coscienza come il talento per i più bei lamenti e i più begl’inni di vittoria che abbiano mai accompagnato una battaglia del pensiero, come il talento creativo di volgere in musica interiore anche il pensiero più freddo e ripugnante. Se il musicista che era in lui avesse cessato di sfogarsi a sue spese, allora egli sarebbe svanito, una singola nota nella nuova grande melodia della totalità.E, in effetti, quel che conferisce alle opere e ai pensieri di questo periodo un significato del tutto particolare è la nuova unità che il suo carattere ha acquistato grazie al fatto che tutti i suoi istinti e i suoi talenti si sono progressivamente posti al servizio dell’unica grande meta della conoscenza. Il Nietzsche artista, poeta, musicista, inizialmente represso e sottomesso con

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violenza, prende a farsi sentire, subordinato tuttavia al pensatore e ai suoi scopi; ciò gli ha consentito di « candire e sospirare» le sue nuove verità in modo tale da elevarlo al rango di primo stilista del tempo presente.34

[126] Prendere in esame il suo stile per quanto concerne le sue cause e i suoi presupposti è dunque qualcosa di più di un’indagine sulla semplice forma in cui vengono espressi i suoi pensieri: significa ascoltare in segreto la più intima natura di Nietzsche. Lo stile di queste opere trae infatti origine dalla dissipazione, fatta di sacrificio ed entusiasmo, di grandi doti artistiche a vantaggio di una conoscenza rigorosa, dall’aspirazione ad esprimere questa conoscenza rigorosa, e null’altro che essa, ma non in un’universalità astratta, [127] ma nella sfumatura più individuale, così come essa si riflette in ogni sentimento di un’anima commossa e inquieta. Già nelle opere del suo primo periodo Nietzsche era riuscito a riversare in forma compiuta l’interiorità e la pienezza più vive; solo ora, però, egli apprese a congiungerle all’acutezza e al rigore di un sapere spassionato: come un anello d’oro esso cinge la pienezza della vita in ciascuno dei suoi aforismi, conferendo loro, proprio grazie a ciò, un incanto particolare. Nietzsche creò così, in certa misura, un nuovo stile nella filosofia che fino a quel momento aveva inteso soltanto il tono della trattazione scientifica o il discorso poetante dell’entusiasta: egli creò lo stile del caratteristico, che esprime il pensiero non soltanto in quanto tale, ma con tutta la ricchezza di tonalità emotive della risonanza della sua anima, con tutti i nessi del sentimento, sottili e segreti, che una parola o un pensiero possono risvegliare. Con questa sua particolarità Nietzsche non padroneggia soltanto il linguaggio, ma si innalza anche al di sopra dei limiti di quel che non può essere espresso in maniera adeguata attraverso di esso, facendo risuonare nella tonalità emotiva quel che altrimenti sarebbe rimasto muto nella parola.In nessun altro spirito, come in quello di Nietzsche, il mero contenuto del pensiero riusciva a mutarsi in modo così completo in qualcosa di veramente vissuto, giacché la vita di nessun altro individuo si risolse così integralmente nell’idea di diventare creativo nell’ambito del pensiero, ma con tutta la propria interiorità di uomo. I suoi pensieri non si distinguevano, come accade di solito, dalla vita reale e dalle sue vicende: costituivano piuttosto l’autentico e il solo evento della vita di questo solitario. E, di fronte a questo fatto, anche l’espressione più viva che egli riusciva a trovare per descriverlo, gli sembrava pallida e fiacca: «Ahimè, che cosa siete [128] mai voi, miei pensieri scritti e dipinti! » si lamenta nel bell’aforisma finale di Al di là del bene e del male (296). « Or non è molto eravate ancora così versicolori, giovani e maliziosi, così colmi di spine e di droghe segrete, che mi facevate starnutire e ridere - e ora? [...] Che cosa, infatti, scriviamo e dipingiamo noi, mandarini del pennello cinese, eternizzatori delle cose che si lasciano scrivere, che cosa soltanto siamo capaci di dipingere? Ahimè, sempre unicamente quel che appunto è destinato ad appassire e comincia a perdere il suo profumo! Ahimè, sempre tempeste dileguanti e affievolite e tardi sentimenti ingialliti! Ahimè, sempre soltanto uccelli che presero

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stanchi il volo e fuggirono via, e che ora si lasciano acchiappare dalla mano - dalla nostra mano! [...] Ed è soltanto per il vostro meriggio, o miei pensieri scritti e dipinti, che io possiedo colori, molte variopinte dolcezze e cinquanta gialli e marroni e verdi e rossi: - ma questo non basta a far indovinare quale aspetto avevate nel vostro mattino, voi improvvise faville e prodigi della mia solitudine, voi, miei vecchi, amati — malvagi pensieri! ».E' dunque essenziale immaginarsi Nietzsche, nelle sue passeggiate calme e solitarie, portarsi a spasso un paio di aforismi, il risultato di una lunga conversazione muta con se stesso, - non ricurvo sullo scrittoio, non con la penna in mano: «lo non scrivo soltanto con la mano: / Anche il piede vuol scrivere sempre» canta in La gaia scienza («Scherzo, malizia e vendetta», 52). Mare e monti gli stanno attorno durante le sue passeggiate tra i pensieri, come lo sfondo più produttivo 1129] per questa figura di solitario. Al porto di Genova fece un sogno, vide un mondo nuovo spuntare su di un orizzonte velato, nell’aurora, e trovò la frase del suo Zarathustra-. « Bello è guardare verso mari lontani, dalla sovrabbondanza» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). Tra i monti dell’Engadina riconobbe se stesso, come in un riflesso di gelo e di ardore, dal cui connubio erano originate tutte le sue lotte e le sue trasformazioni: «In molti paesaggi di natura scopriamo di nuovo noi stessi, con piacevole brivido; è la più bella rassomiglianza», afferma egli a tal proposito, «[...] in tutto il [...] carattere [...] di quest’altopiano, che si è accampato senza paura accanto agli orrori delle nevi eterne, qui dove Italia e Finlandia si sono strette in alleanza e dove sembra esserci la dimora di tutti i toni argentei della natura » (Il viandante e la sua ombra, 338). Di questo luogo, con i suoi «piccoli laghi appartati» da cui «la solitudine in persona pareva guardarlo con i suoi occhi», egli parla anche in una lettera: « La sua natura è affine alla mia, non ci stupiamo l’uno dell’altro, e anzi ci sentiamo familiari».35

L’emicrania e il dolore agli occhi costringevano Nietzsche a lavorare per aforismi; ciò corrispondeva però in misura sempre maggiore anche alla sua indole spirituale, che non vedeva i propri pensieri di fronte a sé in una concatenazione continua, così come li si fissa su carta quando si lavora in modo sistematico, ma prestava invece loro ascolto come in un dialogo a due, un dialogo sempre interrotto e ripreso che prendeva spunto da singoli dati di fatto e che il suo [130] «orecchio per le cose inaudite» (Così parlò Zarathustra, « Prologo di Zarathustra ») riusciva a percepire come una parola effettivamente pronunciata.« Non riesco a scrivere, anche se lo farei davvero volentieri » appunta in una cartolina (gennaio 1881, dall’Italia). «Ahimè, gli occhi! Non so più cosa fare, mi tengono letteralmente lontano, a forza, dalla scienza - e cosa posseggo oltre a essi? Già, le orecchie! si potrebbe dire». Egli prese tuttavia con grande serietà questo tendere l’orecchio e questo prestare ascolto, e non vi è nessuna frase dei suoi libri a cui non possa venire applicato quel che egli scrisse una volta, in una delle sue lettere: « Sono sempre occupato in questioni linguistiche molto sottili; l’ultima decisione riguardo a un testo

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obbliga all’“ascolto” più scrupoloso della parola e della frase. Gli scultori chiamano quest’ultimo lavoro ad unguem ». 36

Quando Nietzsche, nel 1881, portò a termine la sua terza opera su basi positivistiche, Aurora (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1881), il processo di vitalizzazione e di individualizzazione delle teorie che aveva fatto proprie era giunto a piena conclusione. Quest’opera e, in pari misura, quella successiva, mi paiono quindi le più importanti e ricche di contenuto di questo periodo intermedio. Nelle loro pagine, infatti, a Nietzsche è riuscito il superamento pratico di quell’eccesso di intellettualismo a cui, senza dubbio, ancora sottostava, in una sorta di martirio volontario, in Umano, troppo umano; è riuscito cioè a integrare questo intellettualismo con la sua interiorità e la sua individualità e ad approfondirlo in modo umano, senza che il terreno scientifico su cui esso poggiava gli crollasse sotto i piedi - senza che il rigore con cui indagava i suoi problemi venisse meno. [131] La sua natura gli era stata d’aiuto nel confutare le unilateralità e le asprezze della sua filosofia pratica e a plasmare, dalle battaglie intellettuali degli ultimi anni, un tipo più vitale di uomo della conoscenza. La subordinazione della vita degli affetti al pensiero si era compiuta in Nietzsche - come abbiamo avuto modo di vedere - attraverso una dedizione all’ideale di verità di una potenza interiore tale da far sì che, proprio per suo tramite, l’importanza della vita affettiva per il pensiero gli si dovesse rivelare. In modo impercettibile, l’accento fondamentale si spostò dunque per lui dal procedimento puramente intellettuale alla potenza del sentimento che è in grado di porsi al servizio anche delle verità più fredde e sgradevoli, semplicemente perché sono delle verità. Al posto della forza dell’intelletto, è la forza dell’anima che comincia a diventare ciò che determina il valore di un pensatore come uomo. Ed è facile vedere come, lungo questa via, il valore di un nuovo mollo di pensare dovesse progressivamente aumentare agli occhi di Nietzsche, quello di una filosofia maldisposta verso tutto ciò che attiene alla sfera dell’intelletto.In nessuno dei suoi libri, come in Aurora, si possono intravedere i passaggi sottili e i nessi concettuali che conducono dal suo periodo positivistico a quello successivo, a una filosofia mistica della volontà. Il passaggio dall’antico al nuovo costituisce l’elemento di grande attrattiva e il valore del libro, così come era il caso di Umano, troppo umano. In modo del tutto contrario da quelle pagine, però, dove, dal punto di vista teoretico, venivamo posti di fronte al fatto compiuto di un mutamento di opinione, in cui il sentimento dolente cerca lentamente di ritrovarsi. Qui, invece, [132] ogni possibilità di un mutamento di prospettiva teorica viene ancora respinta con forza come la « tentazione dell’uomo scientifico », mentre l’anima, ancora bramosa e procedendo a tastoni, allunga i suoi tentacoli verso ciò che è proibito, sebbene l’intelletto ancora glielo vieti. Sono dunque espressioni di un lieve oscillare, singole esplosioni di una vita psichica profondamente agitata, quelle da cui noi, colmi di presagi, deduciamo quel che accadrà dal momento che esse, in uno stato d’animo del genere, posseggono un’ingenuità involontaria e un’immediatezza che Nietzsche altrimenti

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disdegna. In queste pagine egli si tradisce di continuo, senza supporre di mettere a nudo, vagliando e censurando ogni possibilità di «tentazione », quel che di segreto e nascosto vi è nella sua vita interiore, sicché noi crediamo di vedere come il suo io passato e quello futuro si confessino l’un l’altro desideri e speranze recondite all’insaputa di una filosofia dell’intelletto all’apparenza ancora integra. Ribellandosi contro questi desideri e queste speranze, egli grida a se stesso nell’aforisma «Non fare della passione l’argomento della verità»; «O voi [...] nobilmente entusiasti, io vi conosco! [...] Vi accanite [...] fino ad odiare la critica, la scienza, la ragione. [...] Immagini colorate in cui occorrerebbero fondamenta razionali! Fuoco e potenza di espressioni! [...] Voi sapete creare luci ed ombre ed oscurare con la luce! [...] Quanto siete assetati di trovare uomini [...] in questa condizione - che è quella del pervertimento intellettuale - e di accendere le vostre fiamme al loro tizzone! » (Aurora, 543). È soltanto con l’ultima filosofia nietzscheana che si comprende del tutto come sia proprio lui stesso, [133] quello a cui rivolge questo monito: «Niente sarebbe più assurdo del voler aspettare ciò che la scienza stabilirà un giorno definitivamente sulle prime e ultime cose [...]. L’impulso a voler assolutamente avere in questo campo solo sicurezze, è un rigurgito religioso, niente di meglio» (Il viandante e la sua ombra, 16).In mezzo alle tante ribellioni contro se stesso, fa tuttavia anche capolino, isolato, il tedio per la severa moderazione che la conoscenza intellettuale impone a se stessa e per la « tirannide del vero»: «Non saprei per quale ragione l’egemonia e l’onnipotenza della verità dovrebbero essere desiderabili; [...] ci si deve poter riposare di essa nella non verità: altrimenti ci diventerà noiosa [...]» (Aurora, 507). E agli artisti contro cui rivolge le proprie ingiurie, egli grida addirittura con nostalgia: «Oh, se i poeti volessero ridiventare quel che devono essere stati una volta: - veggenti, che ci raccontano qualcosa del possibile! [...] Se volessero farci sentire anzitempo qualcosa delle virtù future ! O di virtù che non esisteranno mai sulla terra, benché potrebbero esistere in qualche luogo del mondo - di astri dalla purpurea fiamma e di intere vie lattee della bellezza! Dove siete voi, astronomi dell’ideale?» (Aurora, 551).Nelle pagine di Aurora noi vediamo così non solo come Nietzsche lotti contro le brame segrete che stanno crescendo in lui, ma come anche vi ceda, abbandonandosi all’anelito di qualcosa di nuovo, nel presentimento di uno scopo della conoscenza che va profilandosi innanzi ai suoi occhi. I due momenti si confondono in modo significativo, in quanto proprio il più grande ardore dell’anima che [134] Nietzsche impiega in vista dell’ideale della conoscenza, indica sempre che in lui ha già avuto inizio il tramonto di quell’ideale a cui si era arreso solo con riluttanza al tempo in cui era fermamente convinto della sua verità e della sua necessità. E' questa l’« orbita solare dell’idea», così come lui stesso l’ha descritta sulla base della propria esperienza: « Quando un’idea sta appena salendo all’orizzonte, la temperatura dell’anima è di solito molto fredda. Solo a poco a poco l’idea

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sviluppa il suo calore, e questo diventa massimo [...], quando la fede nell’idea si sta già di nuovo abbassando» (Il viandante e la sua ombra, 207). Nello stesso scritto, tuttavia, egli caratterizza se stesso con queste parole: «Quelle persone che cominciano lentamente e solo con difficoltà si familiarizzano con una cosa, hanno talvolta successivamente la qualità dell’accelerazione costante, - sicché da ultimo nessuno sa dove la corrente possa portarli» (ivi, 331).La forza di un’interiorità che s’infiamma lentamente e a fatica, ma in modo tanto più ineluttabile e irresistibile, - questa traboccante pienezza doveva infine allontanarlo dal positivismo e condurlo verso nuovi orizzonti concettuali. In aperto contrasto con quella «mancanza di affetti» che aveva magnificato in precedenza, egli intravede ora il suo ideale nel fatto che l’uomo della conoscenza sia l’uomo di « un unico, alto sentimento, che sia l’incarnazione di un unico, grande stato d’animo»; il suo «stato d’animo abituale» deve essere « quello che fino a oggi è entrato solo una volta ogni tanto nelle nostre anime, come un qualcosa d’eccezionale avvertito con un brivido: un movimento continuo tra l’alto e il basso, e il sentimento dell’altezza e della profondità, un costante salire come su delle scale e al tempo stesso un abbandonarsi come su nubi» (La gaia scienza, 288). Un «uomo della conoscenza» di questo tipo ha ora davanti a sé, come una tentazione, quel che una volta [135] rappresentava per lui un pericolo: «Librarsi! Vagabondare! Folleggiare! » (La gaia scienza, 46). E in Aurora, con il titolo «La disposizione d’animo festiva», si afferma: «Proprio per quegli uomini che bruciano del loro anelito di potenza, è indescrivibilmente gradevole sentirsi soggiogati. Affondare, d’improvviso, giù negli abissi di un sentimento come in un vortice! Lasciarsi strappare le briglie di mano e starsene a guardare un movimento per chissà dove! » (271).È con questo stato d’animo di festa, di sovrabbondanza e di dovizia, ricavata e acquisita dalle conoscenze più sobrie, in quest’incanto di quiete e riposo dopo una lunga giornata di lavoro, che Nietzsche scivola dentro al mondo della mistica. E' la « felicità del contrasto » ciò che egli cerca al suo interno, del contrasto rispetto alla freddezza, al rigore e all'intellettualismo del modo di pensare positivistico: fondare da capo la conoscenza sui moti entusiastici del sentimento, della vita affettiva, e subordinarla agli slanci creativi della volontà.Questa «aurora» non è più una luce pallida, fredda, che illumina soltanto dietro di sé; alle sue spalle già si va levando un sole che riscalda e dà vita; e mentre Nietzsche si trova ancora nella grigia penombra del crepuscolo, i suoi occhi guardano ormai all’orizzonte, a quell’apparizione chiara e promettente. «Vi sono tante aurore che ancora devono risplendere»: egli scrisse queste parole del Rgveda quale motto sul frontespizio del suo libro, senza ancora l’ardire di credere di essere lui stesso chiamato ad accendere quella luce nel cielo della conoscenza. Il libro contiene Pensieri sui pregiudizi morali - [136] un’aggiunta al titolo a mo’ d’integrazione - e pare volere ancora partecipare di quello spirito dissolvente e negatore delle opere precedenti; sulle sue

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pagine aleggia però ormai uno spirito sognante e speranzoso, che certo solo qua e là riesce a esprimersi appieno, ma che in silenzio riflette su come sia possibile giungere, prescindendo da tutti i pregiudizi, a nuovi giudizi di valore, su come sia possibile diventare il creatore di nuovi valori. « Quando infine saranno annientate anche tutte le consuetudini e i costumi sui quali si sostiene la potenza degli dèi, dei sacerdoti, dei redentori, quando dunque sarà morta la morale nel suo antico significato: verrà allora... sì, che cosa verrà allora?» (Aurora, 96).La caduta e il rovesciamento dell’antico non sono più un punto d’arrivo, piuttosto una prospettiva, un inizio, un appello a tutte le migliori forze spirituali. «Qualcosa ancora verrà - la cosa più importante ancora verrà » promette l’aurora, rosseggiando e illuminandosi sempre più.Un anno dopo aver dato alle stampe Aurora, Nietzsche mi scrisse per la prima volta delle sue nuove speranze filosofiche e dei suoi nuovi progetti: « Dunque, mia carissima amica, Lei tiene sempre in serbo per me una buona parola e piacerLe mi dà una gran gioia. La spaventosa esistenza di rinunce che mi tocca condurre, e che è dura come una restrizione ascetica della vita, conosce alcuni modi per consolarsi che me la rendono sempre più preziosa del non essere. Alcune grandi prospettive dell’orizzonte spirituale e morale sono le mie più possenti fonti vitali. Sono proprio contento che la nostra amicizia affondi le sue radici e le sue speranze proprio in questo terreno. Nessun altro può rallegrarsi così di cuore [137] per tutto quello che Lei ha fatto e ha in progetto di fare! Il Suo fedele amico F.N. ». 37

Poco tempo dopo, nelle ultime righe di un’altra lettera, egli esclamava: «Anch’io adesso ho delle aurore intorno a me, e non quelle del libro! Ciò a cui non credevo più [...] mi sembra ora possibile - come l’aurora dorata sull’orizzonte di tutta la mia vita futura... ».38 Questa atmosfera, che con la violenza della nostalgia evoca un nuovo mondo spirituale, lontano, all’orizzonte, a offrire una compensazione per tutto quel che la critica e il dubbio hanno distrutto, risuona nel modo più limpido nelle parole finali di Aurora, quelle in cui Nietzsche tenta di intendere il suo modo di pensare critico e negatore come un segnale in direzione di nuovi ideali: « Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?» (Aurora, Conclusione [575, «Noi, aerei naviganti dello spirito»]).Quando nel 1882 portò a termine la sua Gaia scienza, per Nietzsche la sua India era già diventata una certezza: credeva di essere approdato sulle coste di un mondo sconosciuto, ancora privo di nome, enorme, del quale non si sapeva nient’altro se non che doveva trovarsi al di là di tutto quel che il pensiero può contestare, di tutto quel che il pensiero può distruggere. Un mare ampio, apparentemente sconfinato, tra lui e ogni [138] possibilità di una nuova critica mediante concetti: al di là di ogni critica, egli pensava di aver raggiunto la terraferma.

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L’esultanza spavalda di questa certezza risuona nei versi che scrisse sull’esemplare di La gaia scienza che mi dedicò:Amica - disse Colombo - più non fidarti di alcun genovese!Nell’azzurro egli sempre si affisa,Troppo lo attrae ciò che è più lontano!

Chi lui ama, gli piace allettarloAl di fuori dello spazio e del tempoSopra a noi con stelle sfavillano,Attorno a noi freme l’eternità.39

Ma rispetto alla totale novità di quel continente e al suo trovarsi al di là di ogni possibile critica, Nietzsche era caduto in inganno; si trattava dell’errore opposto a quello di Colombo che, cercando il Vecchio, trovò il Nuovo. Poiché Nietzsche, in effetti, dopo una circumnavigazione del globo, era approdato, senza accorgersene e giungendo dal lato opposto, proprio sulla costa di quel continente da cui era originariamente salpato e che credeva di essersi lasciato alle spalle per sempre nel momento in cui si era allontanato dalla metafisica. Avremo modo di vedere come tutte le opere del suo ultimo periodo nascano da questo vecchio terreno, sebbene sulla loro crescita e sulle loro caratteristiche abbiano influito le esperienze degli ultimi anni.E' indiscutibile che uno degli elementi che Nietzsche apprezzò maggiormente nell’indirizzo di pensiero positivistico era rappresentato dallo spazio di tolleranza che esso, entro certi limiti, poteva offrire a tutti i suoi cambiamenti di umore e alle oscillazioni del suo sentimento: per questo vi restò legato per un certo periodo. Non lo chiudeva in catene, come aveva inevitabilmente fatto la metafisica, ma gli indicava solamente una direzione di marcia; non gli imponeva un sistema della conoscenza, ma gli metteva a disposizione, nella [139] sostanza, soltanto un nuovo metodo conoscitivo. Per questa ragione anche la sua emancipazione dal positivismo non fu così violenta e repentina come la sua svolta wagneriana; non fu uno spezzarsi di catene, ma un perdersi e un andar fuori rotta - «E tutto il mio peregrinare e ascendere montagne: non era altro che una necessità e un ripiego per uno che non sapeva come aiutarsi: - la mia volontà tutta non vuole se non volare» (Così parlò Zarathustra, «Prima che il sole ascenda»). «Ho imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre» (Così parlò Zarathustra, «Del leggere e scrivere»). Ma anche questa trasformazione nietzscheana si verificò in modo così irresistibile e irrevocabile come la precedente. Prima o poi, infatti, egli si sarebbe dovuto spingere oltre una considerazione puramente empiristica delle sue problematiche, oltre la limitazione di principio all’ambito dell’esperienza; data la sua forma mentis, non poteva rinunciare per molto, in una forma o nell’altra, a una «filosofia delle cose ultime e supreme ». In fondo non si trattava che di vedere lungo quale silenziosa via secondaria sarebbe tornato di soppiatto là dove abitano gli dèi e i superuomini.

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Nietzsche scrisse una volta a Rèe: « Ahimè, mio buon amico carissimo [...] leggo, con mio sommo dispiacere, che Lei è malato. Che cosa sarà di noi, se ora, nei nostri “anni migliori”, appassiamo così miseramente [...]. Che il destino voglia riservarci una bella vecchiaia perché forse il nostro modo di pensare si attaglia a quell’età nel modo più naturale, come una pelle sana? Ma se almeno non dovessimo attendere tanto! Il pericolo sarebbe che perdessimo la pazienza».40

E Nietzsche la perse del tutto. «Già la pelle mi si raggricchia e si fende», canta infatti poco tempo dopo in un brutto verso41 di La gaia scienza, e [140] sotto la «pelle da vecchio» dello «spassionato uomo della conoscenza» si agita possente quell’impulso al ringiovanimento mosso dal quale Nietzsche, già al tramonto, scrisse un’apoteosi della vita, della vita eterna.Il destino non ebbe bisogno di tenergli in serbo nessuna vecchiaia.Ma quale base della nuova dottrina che intendeva annunciare, quale unico fondamento affidabile su cui questa potesse venire edificata, Nietzsche pensava ancora in quegli anni a una giustificazione scientifica. Proprio in questa fase di transizione lo vediamo colto dal più vivace desiderio di dedicarsi a quelle ricerche di ampio respiro a cui aveva dovuto rinunciare per lunghi anni. Seguì, con instancabile interesse e partecipazione, gli studi che Rèe aveva intrapreso a partire dal 1878 per ampliare e consolidare i pensieri del suo primo libro di filosofia morale. Quando Rèe, nel 1881, comunicò a Nietzsche che sperava di portare a termine la sua opera ancora prima della fine dell’anno, ricevette questa risposta colma di gioia: « Questo stesso anno [... ] deve anche dare alla luce l’opera in cui io, nell’immagine del legame [Zusammenhang] e della catena dorata, posso dimenticare la mia povera, frammentata filosofia! Che magnifico anno il 1881! ». 42

Lo scritto in questione, La nascita della coscienza (Berlino 1885), fu tuttavia portato a termine da Rèe soltanto quattro anni più tardi, dopo che Nietzsche, frattanto, si era da tempo levato di dosso l’ultimo lembo del suo « spirito libero » e aveva già dato alle fiamme, con la consueta energia, la vecchia pelle. Ma a causa del vivo interesse con cui aveva preso parte agli studi di Rèe per quel libro, questo assunse un valore particolare per [141] la sua vita intellettuale. Egli non si basò tuttavia su La nascita della coscienza nello stesso modo in cui, precedentemente, in Umano, troppo umano, si era basato sull'Origine dei sentimenti morali. La differenza tra l’ultimo periodo intellettuale di Nietzsche e quello positivistico che lo precede consiste nel fatto che nella sua ultima fase egli non si limitò più a esprimere il significato riposto di alcune teorie già esistenti, ma si consacrò all’audacissimo sviluppo di un suo proprio sistema, aspirando ad abbandonare lo stile aforistico e frammentario. Se l’atteggiamento da « spirito libero » lo aveva spinto a interiorizzare le proprie conoscenze nella grande profondità dell’esperienza e del sentimento, era la forza appassionata di quest’esperienza interiore che lo spingeva ora a sgravarsi in determinati pensieri e teorie; lo spingeva a realizzarsi in visioni del mondo nuove e conchiuse.

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Nell’estate del 1882 Nietzsche prese la decisione di dedicarsi per un certo numero di anni a quel genere di studi che gli sembrava indispensabile per la costruzione sistematica della sua « filosofia dell’avvenire », lo studio delle scienze naturali. A tal fine intendeva rinunciare alla sua vita al Sud, per poter seguire delle lezioni a Parigi, Vienna o Monaco. Qualsiasi attività letteraria avrebbe dovuto interrompersi per dieci anni, finché il nuovo non fosse soltanto giunto a piena maturazione in lui, ma avesse anche trovato il modo di fornire dimostrazione scientifica della sua esattezza.Qualche tempo dopo, anche Rèe avvertì il bisogno di confrontarsi con le scienze della natura, che fino a quel momento erano rimaste estranee tanto a lui quanto a Nietzsche. Egli, tuttavia, non intendeva utilizzarle come materiale per la costruzione [142] delle sue ipotesi filosofiche, ma aveva invece il desiderio, dopo avere terminato il suo libro, di lasciar liberamente agire su di sé dei nuovi pensieri e di uscire completamente dal suo ristretto ambito specialistico. Si rivolse così alla medicina, tornò a studiarla, e sostenne l’esame di stato con l’idea di dedicarsi per un lungo periodo alla psichiatria per poi fare ritorno, lungo questa via traversa, alle scienze umane. Dal punto di vista intellettuale i due amici non furono mai tanto lontani come allora, quando, in apparenza, sembravano ancora una volta tendere verso la stessa cosa: erano giunti ai poli opposti della loro indole e del loro spirito.43 Ciò si esprime in modo significativo anche nel fatto che i dieci anni di silenzio che Nietzsche aveva in programma furono quelli della sua maggiore produttività, mentre Rèe non ha ancora oggi raggiunto il punto in cui la sua vecchia produzione e le sue nuove conoscenze riescono a fondersi insieme e a spronarlo verso una nuova e più elevata attività.L’emicrania impedì a Nietzsche di mettere in pratica le sue decisioni; l’inverno 1882, alle porte, lo trova già nella sua cella da eremita a Genova. Ma anche in migliori condizioni di salute, il progetto non sarebbe stato portato a termine. Nietzsche, infatti, non era più in quella situazione di attesa in cui lo spirito può accogliere stimoli esterni e accettare spontaneamente idee che lo turbano; era già stato troppo intensamente sollecitato a produrre per potere ancora essere sconvolto da qualcosa che avrebbe potuto porre un freno al suo impulso creativo. [143] Infatti, mentre per sprigionare le sue forze creative aveva bisogno — sia pure tra sofferenze e vittorie su se stesso - di un influsso fecondo proveniente dall’esterno, e anche se nel momento in cui si consacrava a una nuova conoscenza rinunciava a se stesso nell’entusiasmo di un istinto di fusione, una volta che la «fecondazione» era avvenuta egli pareva rendersi inaccessibile e chiuso rispetto a ogni nuovo possibile influsso, tutto preso dalla sua condizione e da quel che la vita voleva ottenere da lui. E quando rivolgeva la sua attenzione verso l’esterno, era solo per fare spazio, quale che fosse il prezzo da pagare, alla vita che doveva nascere in lui, mai, invece, per esaminare ancora una volta e per mettere in questione la propria condizione esistenziale.Il secondo rifiuto forzato, per motivi di salute, a studi scientifici di ampio respiro, lo condusse questa volta a un risultato opposto a quello dell’epoca

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della rottura con Wagner e del suo periodo positivistico. Allora, infatti, esso fu il motivo per cui, invece di fondare nuove teorie, Nietzsche cercò di far fruttare per la propria interiorità quelle altrui di cui si era appropriato e di verificare i loro effetti sul suo animo. Adesso, invece, questa rinuncia lo spinge a volgere in certa misura in poesia le basi teoretiche di cui risulta sprovvisto. E proprio in questo consiste uno dei tratti fondamentali dell’ultima filosofia nietzscheana: il bisogno di ampliarsi in modo sistematico, come se si trattasse di ricavare dai più svariati ambiti del sapere la prova dell’esattezza del suo pensiero creativo, rappresenta in realtà un tentativo violento di creare uno spazio per esso; un godere appieno della propria dimensione interiore con una sovranità tale da far sì che la sua immagine del mondo si trasformi involontariamente in una culla per la propria opera.A ciò corrisponde il fatto che, a partire da questo momento, tutte le sue teorie, per paradossali che possano sembrare, acquistano un carattere tanto più [144] personale, quanto più universale è il modo in cui paiono concepite, quanto più generale è il valore a cui esse aspirano. E il loro nucleo si nasconde però dietro a un tal numero di veli, e il segreto del loro significato ultimo dietro a un tal numero di maschere, da far sì che le dottrine che dovrebbero esprimerli risultino in ultimo quasi soltanto immagini e simboli di un’esperienza interiore. Manca, infine, qualsiasi intenzione di accordarsi e di intendersi con altri: « Il mio giudizio è il mio giudizio: difficilmente anche un altro potrà vantare un diritto su di esso » (Al di là del bene e del male, 43) — e al contempo il suo giudizio diviene, per decreto, legge universale,- un ordine per l’umanità intera. In conclusione, per Nietzsche, intima ispirazione e rivelazione al mondo esterno si fondono insieme al punto che egli ritiene che la sua vita interiore racchiuda l’intero universo e crede che il suo spirito contenga in sé, in forma mistica, la quintessenza di ciò che esiste e la metta al mondo: « Per me - come potrebbe esistere un al-di-fuori-di-me? Non esiste un fuori! » (Così parlò Zarathustra, «Il convalescente»).A conferma del fatto che l’ultimo periodo di attività di Nietzsche consiste interamente nell’interpretazione filosofica della vita della sua anima, in una sua lettera egli definisce La gaia scienza - l’opera che inaugura questa fase - « il più personale tra i miei libri»44 e, in un’altra lettera, di poco precedente alla pubblicazione di quest’opera, si lamenta: « Il manoscritto risulta, come accade di rado, impubblicabile. Ciò discende dal principio del mihi ipsi scribo! ».45

In effetti Nietzsche non ha mai scritto così esclusivamente per se stesso come in questo periodo in cui si accingeva ad attribuire al proprio io l’intera sua concezione del mondo, a spiegare ogni cosa a partire da esso. Il momento mistico delle nuove dottrine nietzscheane [145] è già dunque presente, sebbene ancora nascosto nell’elemento puramente personale da cui origina. Questi aforismi rappresentano perciò dei monologhi - monologici come mai lo furono gli scritti di Nietzsche -, delle digressioni a mezza voce addirittura, spesso concepite come una muta pantomima di uno spirito che deve occultare più che far vedere. Da essi, i pensieri della « filosofia

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dell’avvenire» ci rivolgono già la parola, ma ci stanno ancora attorno come figure velate, il cui sguardo cupo ed enigmatico si posa su di noi, non perché, come in Aurora, e sprimano soltanto dei presagi e siano ancora privi di tratti consolidati e di contorni sicuri, ma perché a bella posta gli è sialo messo un velo e raccomandata riservatezza. Nietzsche pare starci di fronte con il dito sulle labbra e proprio da ciò noi capiamo che desidera confessarci molto, che desidera confessarci tutto.Ma gli è difficile parlare senza riserve, poiché anche in questo caso è ancora una volta dolore quel che egli deve confessare. E in un senso assai più profondo e doloroso di quanto non fosse fino a ora, anche questa volta la filosofia di Nietzsche ci dà accesso ai tormenti e ai supplizi della sua esperienza, ma in modo tale che persino i duri scontri e le rinunce del suo periodo positivistico ci paiono ora ingenui e innocui. Ciò può sembrare a prima vista contraddittorio, poiché l’ultima filosofia di Nietzsche nasce proprio dall’impulso a costruire, al posto di teorie positivistiche per cui ormai provava avversione, una concezione del mondo che corrispondesse appieno alle sue più intime aspirazioni. La sua ultima trasformazione ha dunque inizio tra l’esultanza e la gioia. [146] Ma non si può dimenticare il fatto che questa forma estrema di raccoglimento in se stesso, questo tentativo di costruire una visione del mondo a propria immagine e somiglianza, porta in piena luce il dolore che Nietzsche provava per se stesso, la sostanza più profonda del suo essere. Nelle sue trasformazioni gnoseologiche egli aveva finora tentato di sottrarsi a questo dolore di se stesso, tiranneggiando e torturando una parte del proprio sé attraverso l’altra; in tutte le trasformazioni dell’uomo teoretico, tuttavia, l’uomo concreto era rimasto immutato ed eternamente uguale a se stesso, con tutte le sue pene. Soltanto ora che Nietzsche non si costringe e non si mortifica più, soltanto ora che dà piena voce al suo struggimento, si comprende appieno in quale tormento egli vivesse, si avverte finalmente il grido di liberazione da se stesso, per una natura opposta alla sua, per una metamorfosi completa e definitiva, per un cambiamento non delle singole conoscenze, ma di tutto l’uomo e della sua interiorità. Si può pienamente vedere come egli tendesse la mano, disperato, al di fuori di sé, verso l’esterno, verso un ideale che potesse salvarlo e che cercava muovendo dall’antitesi di se stesso. Si poteva dunque prevedere che non appena Nietzsche avesse liberamente trasformato il contenuto della sua anima nel contenuto del mondo, che non appena avesse ricavato le leggi del mondo dalla sua esperienza più intima, la sua filosofia avrebbe tratteggiato una visione tragica del mondo: egli doveva infatti concepire il genere umano come una specie ibrida, sofferente di se stessa, dall’evoluzione disperatamente patologica, la cui esistenza non trova alcuna giustificazione in sé, ma in una specie assolutamente diversa, superiore di superuomini verso cui poteva costituire soltanto un ponte. La meta finale dell’umanità era dunque il tramonto e il sacrificio in nome di questo ideale a essa antitetico.[147] Soltanto all’inizio dell’ultima filosofia nietzscheana si mostra dunque con assoluta chiarezza fino a qual punto l’impulso fondamentale che domina

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la sua natura e la sua conoscenza sia quello religioso. Le diverse filosofie sono per Nietzsche altrettanti surrogati di Dio che lo devono aiutare a poter fare a meno di un ideale mistico di Dio al di fuori di se stesso. Le sue ultime dottrine confessano che non vi riuscì. E proprio per questo motivo nelle sue ultime opere noi ci imbattiamo ancora una volta in una lotta tanto appassionata contro la religione, la fede in Dio e il bisogno di salvezza: perché egli era così pericolosamente vicino a tutto questo. Nelle sue parole trova espressione un astio per l’angoscia e l’amore con cui vorrebbe convincersi della sua forza divina, non facendo parola della sua miseria umana. Scorgiamo allora attraverso quale autoillusione e quale astuzia segreta Nietzsche riesca a risolvere il tragico conflitto della sua vita, - il conflitto di avere bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare. Modellando cioè dapprima, con fantasia ebbra di struggimento, sognando estasiato come in una visione, il mistico ideale del superuomo per poi, al fine di salvarsi da se stesso, tentare con un balzo mostruoso di identificarvisi. Egli finisce così per diventare una figura doppia, per metà uomo malato e sofferente, per metà superuomo redento e sorridente. L’uno lo è come creatura, l’altro come creatore, l’uno come realtà, l’altro come una realtà superiore misticamente concepita. Sovente però, ascoltando i suoi discorsi, si avverte con orrore che egli ha elevato a oggetto di culto qualcosa che in verità non esiste nemmeno per lui, e si riflette sulla sua frase: « ...E chissà che fino a oggi in tutti i grandi avvenimenti non si sia verificata appunto la stessa cosa: che la moltitudine [148] abbia adorato un dio - e che il “dio” sia soltanto una povera vittima sacrificale! » (Al di là del bene e del male, 269).« Dio come vittima sacrificale » è davvero un titolo che potrebbe essere apposto sull’ultima filosofia di Nietzsche, rivelando nel modo più palese l’intima contraddizione che essa contiene, quell’esaltazione di gioia e dolore che confluiscono l’ima nell’altra senza distinguersi. Abbiamo avuto modo di osservare in precedenza come Nietzsche avesse compiuto la sua ultima trasformazione muovendo da uno stato d’animo di festa, di ebbrezza sognante e di sovrabbondanza: ora osserviamo il punto in cui la violenza dell’eccitazione interiore si rovescia in dolore. Per tutto quel periodo, anche nella vita fi ogni giorno, il suo animo fu interamente pervaso da quello stato di estremo sconvolgimento psichico in cui si è persino capaci di un’allegria smodata, ma solo perché tutti i nervi fremono, quella condizione in cui si riesce facilmente a ridere e a scherzare, ma solo con le labbra che tremano. Nietzsche aveva però ogni volta bisogno di questo intreccio di gioia e dolore, di esaltazione e sofferenza, per andare incontro a una rinascita. La sua felicità doveva prima diventare una «ultrafelicità» e, in questo eccesso, divenirgli nemica e avversa; la quiete e la sensazione di sentirsi a casa, conquistate a fatica all’interno di un ambito del sapere, lo spingevano a ferirsi e ad allontanarsi da se stesso, affinché il suo spirito potesse deliziarsi e alleviarsi in nuove creazioni.

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È significativo il fatto che nel giubilo del suo cuore egli chiamasse la propria opera la lieta novella, La gaia scienza, ma che al contempo, sopra l’aforisma finale, apponesse le oscure parole enigmatiche: «Incipit tragoedia! ».[149] Questa unione di profonda inquietudine e di giocosa baldanza, di tragedia e serenità, che è tipica dell’insieme delle ultime opere, trova riscontro nel fatto che La gaia scienza, in marcato contrasto con l’oscuro segreto delle parole finali, contiene un «preludio» in versi dal titolo «Scherzo, malizia e vendetta». È la prima volta che troviamo dei versi nelle opere di Nietzsche, ma essi compaiono con più frequenza nella misura in cui egli crede di approssimarsi al tramonto. Il suo spirito si spegne cantando. Questi versi sono sorprendentemente diversi nel loro valore; in parte compiuti, pensieri che nella loro bellezza e pienezza si volgevano in poesia; in parte di un’incompiutezza così stupefacente quale sola poteva nascere da un estro scherzoso. Su tutti i versi incombe però qualcosa che commuove in modo singolare: sono infatti fiori che un solitario sparge sulla propria via crucis per suscitare l’impressione che sia una via della gioia. Come rose appena colte che il suo piede vuole calpestare, mentre egli è già occupato a intrecciare, con le sue conoscenze più dolorose, la corona di spine per il suo capo. Questi versi suonano come un preludio allo spettacolo impressionante della sua massima elevazione e del suo tramonto. Nemmeno la filosofia di Nietzsche alza del tutto il sipario su questo spettacolo. Quel che ci lascia vedere, come un’immagine su questo sipario, è solo una variopinta ghirlanda di fiori su cui, nascoste a metà, spiccano brillando, grandi e tristi, le parole: « Incipit tragoedia! ».

1 I lavori filologici di Nietzsche sono i seguenti: Per la storia della silloge teognidea, in «Rheinisches Museum», vol. 22; Contributi alla critica dei lirici greci. 1. Il lamento di Danae di Simonide, in «Rheinisches Museum», vol. 23; De Laertii Diogenis Fontibus, in «Rheinisches Museum», voll. 23-24; Analecta Laertiana, in «Rheinisches Museum», vol. 25; Contributi alla storia delle fonti e alla critica di Diogene Laerzio, Scritto augurale del Pädagogium di Basilea, 1870; Certamen quod dicitur Homeri et Hesiodi e codice Fiorentino post H. Stephanum denuo ed. F.N., in « Acta societatis philologae Lipsiensis », a cura di F. Ritschl, vol. 1; inoltre II trattato fiorentino su Omero ed Esiodo, la loro stirpe e il loro agone, in «Rheinisches Museum», voll. 25 e 28. È opera di Nietzsche anche l’indice dei primi ventiquattro volumi del « Rheinisches Museum» (1842-1869), compilato su disposizione di Ritschl.2 La sua lettura era quella che egli una volta definì il «leggere bene» e cioè «lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini, lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati...» (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione» [1886]).

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3 Al suo apparire questo libro suscitò la più vivace disapprovazione da parte della congrega dei filologi; l’autore aveva avuto l’ardire di fondare le sue affermazioni non soltanto sulle tesi del riprovevole filosofo Arthur Schopenhauer, ma anche sulle intuizioni artistiche dell’allora parimenti oltraggiato «musicista dell'avvenire» Richard Wagner. Un giovane filologo di spicco, Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, che oggi è uno dei rappresentanti più prestigiosi della filologia classica in Germania, divenne, in modo non particolarmente felice ed elegante, il portavoce della posizione unilaterale della congrega. Senza render in alcun modo giustizia stila peculiarità del libro di Nietzsche, lo attaccò con la massima violenza da una prospettiva strettamente filologica nell’opuscolo Filologia dell’avvenire! Risposta alla «Nascita della tragedia» di F.N., Berlino 1872. In difesa dell’attaccato scesero in campo coloro ai quali il libro era principalmente rivolto: Richard Wagner, l’artista, con una lettera aperta a Nietzsche apparsa sulla «Norddeutsche Allgemeine Zeitung» del 23 giugno 1872, ed Erwin Rohde, che già a quell’epoca aveva fornito validissima dimostrazione della sua profonda conoscenza dell’antichità greca. Nello scritto polemico dallo stile eccellente Filologia deretana. Lettera di un filologo a Richard Wagner, Lipsia 1872, egli si pose sul terreno scelto dall’avversario e respinse al mittente le obiezioni e le accuse avanzate da questi; a ciò Wilamowitz rispose poi con una replica, Filologia dell’avvenire! Atto secondo. Risposta al tentativo di salvataggio della «Nascita della tragedia» di F.N., Berlino 1873.

4 Si veda la « Prefazione » che introduce la nuova edizione del secondo volume di Umano, troppo umano [1886] dove si afferma: «Ciò che dissi contro la “malattia storica”, lo dissi come uno che di essa imparava lentamente, faticosamente a guarire ».5 «Non dev’essere taciuto che [...] solo in quanto sono allievo di epoche passate, specie della greca, giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio dell’epoca moderna» (Sull’utilità e il danno della storia per la vita, «Prefazione»).6 [Si tratta, evidentemente, di un errore dell’autrice, giacché uno scritto di Nietzsche che porti come titolo Socrate e la filologia classica non esiste. E difatti la citazione di Nietzsche si trova in La nascita della tragedia, xv.]7 « Presentivo di aver trovato in lui quell’educatore e filosofo che da tanto tempo cercavo. Certo soltanto come libro e questa era una grande mancanza. Tanto più mi sforzai di vedere attraverso il libro e di rappresentarmi l’uomo vivente, il cui grande testamento dovevo leggere e che prometteva di fare suoi eredi soltanto coloro che volevano e potevano essere qualcosa di più che suoi semplici lettori: vale a dire suoi figli e discepoli» [Schopenhauer come educatore, 11].

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8 [Si tratta di una lettera da Tautenburg del 16 luglio 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 269 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 16 luglio 1882, pp. 228-229.]9    [Si tratta di una lettera a Paul Rèe, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 720 a Paul Rèe, Basilea, 12 maggio 1878, p. 291.]10    [Si tratta ancora di una lettera a Rèe, scritta il 23 aprile 1879 e non il 14 dicembre 1878, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 844 a Paul Rèe, Basilea, 23 aprile 1879, p. 365.]11 [Nietzsche si esprime così ancora con Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 613 a Paul Rèe, Sorrento, 7 maggio 1877, p. 210.]12 [Così Nietzsche a Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 781 a Paul Rèe, Basilea, 14 dicembre 1878, p. 330.]13 [Nietzsche scrive a Rèe da Ginevra il 15 aprile e non il 15 maggio 1879: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 842 a Paul Rèe, Ginevra, 15 aprile 1879, p. 363.]14 [Si tratta ancora di una lettera a Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n, 879 a Paul Rèe, St. Moritz, settembre 1879, pp. 391-392.]15 [Si tratta di una lettera del luglio 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 256 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 3 luglio 1882, pp. 216-217.]16 [Si tratta di una lettera da Stresa, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]17    [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 671 a Paul Ree, Basilea, 19 novembre 1877, p. 261.]18    [Ivi, lettera n. 781 a Paul Rèe, Basilea, 14 dicembre 1878, p. 330.]19 [Si tratta della lettera da Ginevra del 15 aprile 1879 citata in precedenza: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 842 a Paul Rèe, Ginevra, 15 aprile 1879, p. 364.]20 [Ivi, lettera n. 899 a Paul Rèe, Naumburg, 31 ottobre 1879, p. 408.]21 [F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 5 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, fine gennaio 1880, p. 7.]22A quei tempi Nietzsche viveva in un’ammirazione per gli studiosi e per i filosofi inglesi che, tempo dopo, si mutò nel suo opposto; in Umano, troppo umano, II, 184, egli li definisce ancora le «nature integre, complete e completanti » e in una lettera a Rèe definisce la filosofia inglese contemporanea «l’unica di buon livello filosofico che oggi esista». Coerentemente, l’unica cosa che in questo periodo egli ancora stimi nel suo antico maestro Schopenhauer è « il suo duro senso dei fatti, la sua onesta volontà di cose chiare e razionali, che lo fa spesso apparire così inglese» (La gaia scienza, 99). [Per la lettera a Rèe cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 643 a Paul Rèe, Rosenlaui, primi di agosto 1877, p. 240.]23 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 384. Il riferimento alla storia della coscienza allude alla nuova opera di Rèe, La nascita iella coscienza, Berlino 1885.]

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24 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 737 a Paul Rèe, Basilea, verso la fine di luglio 1878, p. 305.]25 [Si tratta di una lettera di Nietzsche a Rèe dell’ottobre 1875, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 492 a Paul Rèe, Basilea, 22 ottobre 1875, pp. 112-113, che terminava con queste parole: «[...] Con la preghiera di accogliere benevolmente il mio ringraziamento per aver pubblicato le Sue massime - dimostrando così che la salute spirituale del Suo prossimo Le sta a cuore».]26 L’opera viene citata da Nietzsche in Umano, troppo umano, 1, 37. [Il passo in questione recita: « Qual è comunque la proposizione principale a cui giunge, attraverso le sue penetranti e taglienti analisi dell’umano agire, uno dei più arditi e freddi pensatori, l’autore del libro Sull’origine dei sentimenti morali? “L’uomo morale” egli dice “non è più vicino al mondo intelligibile (metafisico) dell’uomo fisico”. Questa proposizione [...] potrà forse un giorno, in un qualche futuro, servire come l’accetta che reciderà alla radice il “bisogno metafisico” degli uomini: [...] ma in ogni caso come una proposizione dalle più importanti conseguenze, feconda e terribile insieme, e che scruta il mondo in quel modo bifronte, proprio di tutte le grandi conoscenze».]27 Si vedano in Umano, troppo umano, I, gli aforismi 162: « Culto del per vanità» e 164: «Pericolo e guadagno nel culto del genio».28 Questo possesso di « amore e bontà » come le erbe e le forze più salutari nel commercio degli uomini (Umano, troppo umano, I, 48) possiede un valore ancora maggiore del grande e celebrato sacrificio del singolo; ancora «più potentemente » ha contribuito « alla formazione della civiltà » quella benevolenza continua, amichevole, che crea i « momenti piacevoli » della vita.29    [F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n. 717 a Paul Rèe, Basilea, 24 aprile 1878, p. 290.]30    [Ivi, lettera n. 743 a Paul Rèe, Grindelwald, 10 agosto 1878, pp. 308-309.]31 [Si tratta di una lettera a Rèe dell’agosto 1881, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1881, p. 124.]32 [Ivi, lettera n. 251 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 27-28 giugno 1882, p. 213.]33 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-79, cit., lettera n, 627 a Paul Rèe, Rosenlauibad, seconda metà di giugno 1877, p. 222.]34 Si vedano i seguenti aforismi che Nietzsche annotò una volta per me [in una lettera dell’agosto 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 288 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg, 8-24 agosto 1882, pp. 243-245]:

La dottrina dello stile

1.    La prima cosa che conta è la vita: lo stile deve vivere.

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2.    Lo stile ti si deve adeguare in funzione di una persona ben precisa alla quale vuoi comunicare te stesso (Legge della doppia relazione).3.    Prima di poter scrivere, bisogna sapere esattamente: «Questo lo direi o lo reciterei in questo e questo modo». Scrivere deve essere un’imitazione.4.    Poiché a chi scrive mancano molti mezzi della recitazione, in generale egli deve prendere a modello un tipo di recitazione molto espressivo: la copia di ciò, lo scrivere, risulterà necessariamente molto più pallida.5.    La ricchezza di vita si rivela nella ricchezza di gesti. Bisogna imparare a sentire ogni cosa - lunghezza e brevità delle frasi, le interpunzioni, la scelta dei vocaboli, le pause, la successione degli argomenti - come un gesto.6.    Attenzione al periodo! Hanno diritto al periodo soltanto gli uomini che, anche nel discorrere, posseggono un ampio respiro. Nei più, il periodo è un’affettazione.7.    Lo stile deve fornire la dimostrazione del fatto che si crede ai propri pensieri, che non li si pensa soltanto, ma li si sente.8.    Quanto più è astratta la verità che si vuole insegnare, tanto più si devono sedurre a essa solamente i sensi.9.    Il tatto del buon scrittore di prosa quando sceglie i suoi strumenti sta nell’accostarsi a ridosso della poesia, ma nel non sconfinare mai in essa.10.    Non è cortese e avveduto anticipare al proprio lettore le obiezioni più facili. È molto cortese e molto avveduto far sì che il proprio lettore esprima da solo la quintessenza della nostra saggezza.35 [Si tratta di una lettera a Rèe scritta da St. Moritz nel 1879, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, P- 383.]36 [Si tratta di una lettera all’autrice del giugno 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 251 a Lou von Salomé, Tautenburg, 27-28 giugno 1882, p. 213.]37    [Si tratta di una lettera da Naumburg, scritta nel giugno 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 240 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, presumibilmente 12 giugno 1882, p. 204.]38    [In realtà si tratta di una lettera da Naumburg del 7 giugno dello stesso anno, quindi di poco precedente quella appena citata da Andreas-Salomé: F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo i, lettera n. 237 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, 7 giugno 1882, pp. 200-201, in cui tuttavia si parla della « possibilità dorata sull’orizzonte di tutta la mia vita futura...».] 39 [La dedica, che risale all’inizio del novembre 1882, è ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 321 a Lou von Salomé a Lipsia, Lipsia, inizio di novembre 1882, p. 271, trad. it. in F. Nietzsche, Opere, Milano 1964, vol. vi, tomo 4, pp. 74-77.]40    [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 762 a Paul Ree, Basilea, 20 ottobre 1878, pp. 317-318.]

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41    [« Scherzo, malizia e vendetta », 8.]42 [F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1881, p. 124.]43 Vedi nell’aforisma 279 di La gaia scienza, intitolato «Amicizia stellare», le belle parole con cui Nietzsche si accomiatò allora da questa comunanza spirituale.44    [E Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 292 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, fine agosto 1882, p. 247.]45    [Ivi, lettera n. 235 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, 29 maggio 1882, p. 199.]

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3IL «SISTEMA NIETZSCHE»

Voi volete ancora creare il mondo, davanti al quale possiate inginocchiarvi.

Così parlò Zarathustra, « Della vittoria su se stessi »

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[153] Spirito? Che cos’è per me lo spirito! Che cos’è per me la conoscenza! Non apprezzo nulla come gli impulsi, - e giurerei che sono quello che abbiamo in comune. Ma guardi attraverso questa fase in cui sto vivendo da alcuni anni, - guardi alle spalle di essa! Non si lasci trarre in inganno riguardo a me - non creda che lo « spirito libero » sia il mio ideale ! ! Io sono -Perdono! Carissima Lou! [...]

F.N.In questo modo misterioso s’interrompe una lettera1 che Nietzsche scrisse nel periodo tra la pubblicazione di La gaia scienza e quella del suo poema mistico Così parlò Zarathustra. In queste poche righe sono già abbozzati i tratti essenziali dell’ultima filosofia nietzscheana: nel campo della logica, il commiato per questioni di principio dall’ideale conoscitivo puramente logico osservato fino a quel momento, dal rigore teoretico dello « spirito libero » legato all’intelletto; nel campo dell’etica, in luogo della critica negatrice condotta fino ad allora, la dislocazione del fondamento della verità nel mondo degli impulsi, inteso come fonte di una nuova valutazione di tutte le cose; e, in ultimo, una sorta di ritorno alla prima fase dell’evoluzione filosofica, [154] quella che precedeva lo spirito libero positivistico, vale a dire alla metafisica dell’estetica di Wagner e Schopenhauer e alla loro dottrina del genio superumano. Su quest’ultima infine, quale nucleo della nuova filosofia dell’avvenire, poggia il mistero di una gigantesca autoapoteosi che egli ha ancora timore di esprimere in quella frase esitante, «io sono».L’ultimo periodo intellettuale di Nietzsche raccoglie cinque opere: il poema in quattro libri Così parlò Zarathustra (Ernst Schmeitzner, Chemnitz, I e II, 1883; in, 1884; C.G. Naumann, Lipsia, iv, 1891); Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire (C.G. Naumann, Lipsia 1886; seconda edizione, 1891); Genealogia della morale. Uno scritto polemico (CG. Naumann, Lipsia 1887); Il caso Wagner, un problema per amatori di musica (C.G. Naumann, Lipsia 1888) e infine la piccola raccolta di aforismi Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello (C.G. Naumann, Lipsia 1889). Non ci è possibile seguire passo passo il dispiegarsi del suo pensiero filosofico sulla base di queste opere, poiché esse non rappresentano, come accadeva nei periodi precedenti, altrettanti gradi evolutivi del suo pensiero bensì, per la prima volta, sono tutte destinate a servire all’esposizione di un sistema, sebbene si tratti di un sistema che poggia più su di una tonalità emotiva generale che sulla chiara compattezza della deduzione concettuale. Il carattere aforistico che questi libri ancora mantengono si dimostra in questo caso come un innegabile limite della forma espositiva e non come un pregio peculiare della stessa,

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come era stato fino a ora. Quel che Nietzsche ha raggiunto attraverso il perfetto controllo [155] della forma aforistica - la capacità cioè di sfruttare appieno quel che ogni pensiero significa per l’animo umano e di restituirlo in tutte le sue tenui e riposte implicazioni secondarie - non risulta sufficiente per una fondazione sistematica delle sue teorie, che si disperde così nel gioco ingegnoso di ipotesi abbacinanti. La malattia agli occhi, insieme all’abitudine a un pensiero che procede per balzi, costrinsero Nietzsche a conservare in generale il modo di scrivere adottato in precedenza, sebbene - tanto in Al di là del bene e del male come nella Genealogia della morale - egli tenti costantemente di andare al di là di uno stile puramente aforistico, di ordinare e presentare in modo sistematico i propri pensieri, dal momento che ciò che aveva in mente era un tutto unitario.Per la prima volta, dunque, in questi scritti rinveniamo una sorta di teoria della conoscenza, un tentativo di confrontarsi con i problemi della gnoseologia dopo averli sempre scansati fino a quel momento, così come in genere egli evitava volentieri ogni problema a cui riusciva ad accostarsi soltanto per vie puramente concettuali. Ora però Nietzsche non si limita più alla filosofia pratica, ma ritiene necessario indicare gli strumenti con cui ha forzato la piccola porta della teoria della conoscenza attraverso la quale è giunto alle sue ipotesi. Osservazioni alquanto particolareggiate al riguardo si trovano sparse nei più svariati luoghi delle sue opere. Assai caratteristico sembra però essere il fatto che sia dato rinvenirle soltanto ora che Nietzsche ha dichiarato la sua ostilità di principio al mondo della logica astratta, ed è fermamente deciso a tagliare con un colpo di spada tutti i difficili nodi concettuali in cui potrebbe inciampare: [156] si confronta con la teoria della conoscenza soltanto per mandarla a gambe all’aria.Ai tempi del suo wagnerismo, Nietzsche, discepolo di Schopenhauer, aveva seguito il suo maestro nella nota interpretazione e variazione di Kant, in base alla quale le questioni intorno alle cose ultime e supreme non trovano certo la loro risposta attraverso l’intelletto, ma grazie alle sublimi ispirazioni e alle illuminazioni della volontà. In seguito Nietzsche, protestando vivacemente contro questa assunzione della metafisica schopenhaueriana, aveva aderito alla rigorosa autodelimitazione della scienza empirica che si accontenta della conoscenza intellettuale all’interno dell’ambito di sua competenza. Ma egli rinnovò questa adesione solo fino a quando, sulla scorta di un intellettualismo da fanatico, riuscì a crearsi, muovendo da questo moderato sapere dell’intelletto, un ideale di verità capace di entusiasmarlo e a cui sottomettere ciecamente la sua volontà e la vita della sua anima. Non appena il suo fanatismo si esaurì, e non appena il suo entusiasmo smise di vedere gli scopi e i valori della conoscenza alla luce di un idealismo così esasperato, egli fu però colto da disgusto e prese a desiderare nuovi ideali. Un’idea gli si parò allora innanzi nell’ambito del positivismo, l’idea della relatività di ogni pensiero, la riduzione di ogni conoscenza intellettuale alla

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base assolutamente pratica della vita istintuale da cui essa è originata e da cui seguita a dipendere.Non gli restava che seguire con la consueta esaltazione questa via, tracciata in precedenza dai suoi compagni di strada filosofici, per fare finalmente ritorno alla sua originaria valorizzazione degli affetti. [157] Giacché quel che per altri era soltanto una conseguenza naturale della moderna teoria della conoscenza, che non alterava affatto i metodi e i risultati della scienza empirica in quanto tale, per Nietzsche fu l’occasione di un totale mutamento di opinioni. Con la stessa esagerazione estrema e con lo stesso fanatismo con cui aveva adorato il pensiero rigorosamente concettuale come il sommo ideale di verità, prese ora a farsene beffe come qualcosa di modesto e volgare in confronto agli istinti che in verità lo governano.A cambiare, nel frattempo, era stato solo il suo stato d’attimo, soltanto la sua comprensione sentimentale della situazione; ma proprio questo era tutto per lui e ciò lo spinse progressivamente verso conclusioni di portata sempre più ampia, per poi diventare, in ultimo, il punto di partenza di una nuova visione del mondo.È questo il tipico modo in cui nascono tutti i concetti fondamentali della «filosofia dell’avvenire» di Nietzsche; lo incontreremo di nuovo nella sua teoria della conoscenza come nella sua dottrina morale, nella sua estetica come nella sua ultima mistica, e sempre avremo modo di registrare la presenza di queste tre fasi evolutive: dapprima il collegamento a singole estreme conseguenze della scienza empirica moderna, quindi un capovolgimento del suo stato d’animo nel modo di concepire questi risultati - una loro esasperazione ed esagerazione fino all’estremo - e infine, derivanti da ciò, le sue nuove teorie.Ma sotto questo rispetto si devono distinguere due aspetti: da un lato l’effettivo contenuto filosofico di queste teorie, dall’altro il mero riflesso dell’anima di Nietzsche in esse, dal momento che egli esprime nei suoi pensieri la sua indole più profonda. Questo riflesso ci riconduce all’immagine di Nietzsche [158] che abbiamo tratteggiato nella prima parte di questo lavoro. Il contenuto teoretico vi risulta invece essere una congiunzione artistica delle due fasi dell’evoluzione intellettuale nietzscheana; un esempio di due tessuti intrecciati tra loro dalla mano di un genio: la dottrina schopenhaueriana della volontà e la dottrina positivistica dell’evoluzione.Il libro che si deve prendere in considerazione più di ogni altro, occupandosi della teoria della conoscenza di Nietzsche e della sua lotta contro l’importanza dell’elemento logico e la riduzione di quest’ultimo all’elemento illogico per antonomasia, è Al di là del bene e del male che, in certe sue parti, avrebbe potuto benissimo intitolarsi Al di là del vero e del falso. In quest’opera, infatti, egli discute nel modo più esauriente la non giustificabilità della contrapposizione di valore tra « vero e non vero » che, considerata nella sua origine, non risulta meno instabile della contrapposizione di valore tra « buono e cattivo ». Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi [...]. Che cosa in noi tende propriamente

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alla “verità”? [...] Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non, piuttosto, la non verità? » (Al di là del bene e del male, 1). «Sì, che cosa ci costringe soprattutto ad ammettere che esista una sostanziale antitesi di “vero” e “falso”? Non basta forse riconoscere diversi gradi di illusorietà...? » (ivi, 34). «In quale curiosa semplificazione e falsificazione vive l’uomo! [...] E soltanto su queste basi d’ignoranza, ormai salde e granitiche, ha potuto levarsi fino ad oggi la nostra scienza; la volontà di sapere sul fondamento di una volontà molto più possente, la volontà cioè di non sapere, d’incertezza, di non verità! Non già come sua antitesi, bensì - come suo affinamento! » (ivi, 24). L’«esser cosciente» non è «contrapposto, in una qualche maniera decisiva, all’istintivo, - il [159] pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari» (ivi, 3). Tutta la logica, in fondo, altro non è che una mera « convenzione di segni» (Crepuscolo degli idoli, «La “ragione” nella filosofia», 3), ogni pensiero una sorta di «linguaggio segnico degli affetti », poiché non ci è dato « discendere o salire ad alcuna altra “realtà”, salvo appunto quella dei nostri istinti - il pensare, infatti, è soltanto un rapportarsi reciproco degli istinti» (Al di là del bene e del male, 36). E da ciò segue che « quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività”. Ma eliminare in generale la volontà, sospendere tutte quante le passioni, ammesso che di questo fossimo capaci: come? non significherebbe castrare l’intelletto?... » (Genealogia della morale, III, 12).È questo il punto in cui la posizione di Nietzsche si stacca all’improvviso da quella che aveva assunto precedentemente, sospingendolo in direzione di quella contraria. Se in precedenza, infatti, aveva messo in guardia dal prestare fiducia a un affetto qualsiasi, poiché poteva trattarsi soltanto del «nipote » di antichi giudizi caduti in oblio e probabilmente errati, ora si appella agli antichissimi fondamenti del sentimento da cui originano tutti i giudizi, che vengono in tal modo degradati a «nipoti» privi di autonomia e alle dipendenze del sentimento stesso. Trova ancora la giustificazione di entrambe le posizioni nella concezione positivistica del mondo, ma ciò che in questa convive pacificamente fianco a fianco - la relatività del pensiero e quella della vita affettiva - si scinde per lui in due opposti inconciliabili: da un lato, nell’intellettualismo portato all’estremo, [160] al quale si era finora consacrato e attraverso cui intendeva subordinare tutta la vita al pensiero e tutto il sentimento all’intelletto; dall’altro, in una esaltazione del sentimento parimenti spinta all’eccesso, che si vendica per essere stata a lungo repressa e che nel suo entusiasmo vitale trova soddisfazione soltanto in un fanatico: « Fiat vita, pereat veritas! ».E dunque: «La falsità di un giudizio non è ancora, per noi, un’obiezione contro di esso [...]. La questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita [...]; rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita» (Al di là del bene e del male, 4). «Nonostante

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il valore che può essere attribuito al vero, al verace [...], c’è la possibilità che debba ascriversi all’apparenza, alla volontà d’illusione [...] un valore superiore e più fondamentale per ogni vita. Sarebbe inoltre persino possibile che quanto costituisce il valore di quelle buone e venerate cose consista proprio nel fatto che esse sono capziosamente imparentate, annodate, agganciate a quelle cattive, apparentemente antitetiche, e forse anzi sono a queste essenzialmente simili» (Al di là del bene e del male, 2). « [...] Fondamentalmente, fin da tempo immemorabile noi siamo abituati alla menzogna. Oppure, per esprimerci più virtuosamente e più ipocritamente, insomma in maniera più gradevole: si è molto più artisti di quanto non si immagini» (ivi, 192). E quel che nella menzogna conserva la vita è ciò che pone l’artista al di sopra dello scienziato e della sua ricerca della verità. «[...] L’arte, in cui appunto la menzogna si santifica e la volontà d’illusione ha dalla sua la tranquilla coscienza » (Genealogia della morale, III, 25) e questo è anche il motivo per cui, [161] all’improvviso, i metafisici, un tempo così denigrati, sembrano ora più nobili e degni di stima dei «filosofastri della realtà», con la loro sobrietà e il loro «aspetto cencioso» (Al di là del bene e del male, 10).Questa rinnovata glorificazione dell’artisticità e della metafisica ci fa capire in che misura Nietzsche si sia spinto in direzione di un tipo di uomo della conoscenza nuovo e opposto, e quanto si sia già allontanato dai «filosofastri della realtà» del positivismo. Infatti, ciò che questi considerano come un’inevitabile aggiunta al pensiero che conosce, e cercano quindi di ridurre al minimo nel compimento dell’atto conoscitivo - vale a dire la dipendenza del pensiero dalla vita istintuale dell’uomo -, è proprio ciò che, a detta di Nietzsche, andrebbe massimamente accresciuto. Il riconoscimento della relatività del pensiero, dei confini angusti assegnati alla conoscenza della verità, gli serve soltanto per proclamare una nuova illimitatezza del conoscere che deve restituire a quest’ultimo il suo carattere assoluto.Poiché Nietzsche aveva bisogno di ideali assoluti per poterli adorare e per potervisi dedicare con tutto se stesso, non appena il suo ideale di verità si contrasse sino ad assumere dimensioni eccessivamente modeste, egli cercò aiuto nell’ideale opposto, nella smodatezza della vita affettiva più esasperata.Se in precedenza aveva preso le mosse dal tentativo di liberare l’impulso alla verità da un’ultima illusione, concependolo come qualcosa di relativo, ora egli si schiude una nuova via d’accesso a nuove illusioni trasferendo l’ambito della conoscenza in quello dei moti del sentimento e delle ispirazioni della volontà. Tutti gli argini che ponevano un freno e un limite sono così abbattuti e la vita affettiva può straripare senza ritegno.O non vi è certezza o vi è sempre certezza: [162] ciò dipende più o meno dalla stessa cosa; quando il pensiero ha perduto ogni autonomo diritto alla conoscenza, allora esso prende a vagare, come un giocattolo o uno strumento di istinti nascosti che lo governano, fin nelle lontananze più remote, fin nelle profondità più fonde. Se Nietzsche, in origine, era passato

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dai misteriosi bagliori del giardino incantato della metafisica al sobrio mondo intellettuale della ricerca empirica, adesso si smarrisce nel labirinto di una vegetazione selvaggia, buia e impenetrabile che circonda questo mondo dell’intelletto. E proprio il fatto che in essa non sia ancora tracciato alcun sentiero - che tutto sia ancora senza legge né padrone, e che il poderoso verdetto della volontà abbia spazio per qualsiasi creazione -, è proprio questo carattere di avventura pericolosa ad apparirgli come la migliore conferma di avere imboccato la retta via, quella che conduce al cuore della vita, al cuore delle sue forze primitive. « Ebbri di enigmi e lieti alla luce del crepuscolo », così chiamava infatti Zarathustra i suoi discepoli, «voi, le cui anime suoni di flauto inducono a perdersi in baratri labirintici: - giacché voi non volete con mano codarda seguir tentoni un filo; e dove siete in grado di indovinare vi è in odio il dedurre » (Così parlò Zarathustra, « La visione e l’enigma »). « Anche nel conoscere io sento solo la mia volontà che gode di generare e di divenire » (ivi, « Sulle isole Beate »); « Strumenti e giocattoli sono il senso e lo spirito» (ivi, «Dei dispregiatori del corpo»), giacché la vita dice: « E anche tu, uomo della conoscenza, non sei che un sentiero e l’orma della mia volontà: in verità, la mia volontà di potenza cammina anche sulle gambe della tua volontà di verità» (ivi, «Della vittoria su se stessi»).Nietzsche, che aveva così a lungo fatto uso di un modo di pensare freddo e sobrio per acquietare e tenere a freno una vita interiore profondamente agitata, [163] sperimenta ora su di sé quel che un tempo aveva descritto a mo’ di monito e presagio: « Se si è applicato lo spirito ad acquistare il dominio sulla smoderatezza delle passioni, ciò accade magari con la spiacevole conseguenza che si trasferisce la smoderatezza nello spirito e che si eccede in avvenire nel pensare e nel voler conoscere» (Umano, troppo umano, II, 275). 2 Nell’impeto di un tale bisogno di eccedere, [164] egli crea per sé un nuovo motto: «Nulla è vero, tutto è permesso!» (Genealogia della morale, III, 24) ed esalta il valore dell’illusione, della finzione volontaria, di quel che non è logico e «non è vero» in quanto forze che in fondo sostengono la vita e accrescono la volontà. Nietzsche si delizia dell’idea che siamo noi stessi, come creatori, a introdurci dentro all’immagine del mondo che ci siamo costruiti intorno, con tutta la particolarità del nostro animo - e che il nostro conoscere non sia in ultimo altro che una «umanizzazione delle cose» - fino al punto in cui il mondo si dilegua in un’immagine di sogno che ciascun individuo può ideare in base al proprio arbitrio. E si chiede: «Per quale ragione mai il mondo, che in qualche maniera ci concerne, - non potrebbe essere una finzione? » (Al di là del bene e del male, 34), [165] con il pensiero recondito: e perché dunque non potrebbe essere ricreato con un atto di forza?A ciò si riferisce il breve e interessante quarto capitolo del Crepuscolo degli idoli, il cui intento risulta tuttavia pienamente comprensibile soltanto se viene messo in relazione con le altre annotazioni nietzscheane riguardo al medesimo tema che si trovano sparse negli scritti del nostro autore. Il suo titolo recita «Come il “mondo vero” finì per diventare favola. Storia di un

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errore» e contiene un abbozzo del processo evolutivo della filosofia dall’antichità fino a oggi.La filosofia antica concepiva già, seppure in modo ingenuo, l’uomo della conoscenza e la sua immagine del mondo, la persona e la verità, come identici; essa culminava nella trascrizione della tesi: «Io, Platone, sono la verità». «Il mondo vero », in antitesi a quello falso, apparente, in cui vivono gli uomini che non sono saggi, è «attingibile dal saggio, [...]- egli vive in esso, lui stesso è questo mondo ». Con il cristianesimo l’idea del «mondo vero» si separa progressivamente dalla personalità; disumanizzandosi e facendosi più sottile, s’invola sopra agli uomini come un annuncio dell’avvenire, come una promessa. Infine, attraverso una serie di sistemi metafisici, l’idea impallidisce e, con Kant, diventa una semplice ombra, « inattingibile, indimostrabile, impromettibile » fino a che, con il commiato definitivo da ogni metafisica, non dilegua interamente nel nulla: « Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo ». Salgono le quotazioni del mondo fino ad allora ingiuriato in quanto non vero e apparente, dal momento che è l'unico mondo che rimane: «Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano indiavolato di tutti gli spiriti liberi». Ma prendendo in esame ¡’origine della favola del «mondo vero», abbiamo al contempo esaminato il modo in cui è sorta l’immagine del mondo della [166] nostra conoscenza in generale. Adesso che la fede in un mistico «vero» mondo dietro a quello apparente, nato dall’illusione e dall’errore, ha smesso di consolarci, che cosa ci rimane? « Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente», che era possibile soltanto come antitesi di quello. L’uomo è nuovamente risospinto a se stesso come a colui che crea da sé tutte le cose. La vecchia concezione: « Io, Platone, sono il mondo» è divenuta nuovamente possibile e si pone quale ultima saggezza al principio di ogni filosofia; non più, tuttavia, nell’identificazione ingenua e ancora integra di persona e verità, di soggetto e oggetto, bensì come azione creatrice, lucidamente consapevole e voluta, di chi ha riconosciuto se stesso come il titolare del mondo. « Io, Nietzsche-Zarathustra, sono il mondo; esso è perché io sono; esso è come io voglio ». Un simile risultato viene soltanto accennato nelle misteriose parole finali: « Mezzogiorno; momento dell’ombra più corta; fine del lunghissimo errore; apogeo dell’umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA».Si può già osservare chiaramente come i nuovi pensieri di Nietzsche, quelli che compiono il balzo nella mistica, si mescolino e si congiungano con elementi che egli ricava ancora dalla moderna teoria della conoscenza. È questo il punto in cui nasce la nuova dottrina nietzscheana e non si ha più a che fare con una mera esagerazione sentimentale di alcune idee e di alcune intuizioni universalmente riconosciute. Dalla limitatezza e dalla relatività di ogni conoscenza umana, così come dalla priorità della vita istintuale rispetto alla conoscenza stessa, prende forma in modo improvviso il nuovo tipo di filosofo: una figura di grandezza superiore al naturale, la cui volontà possente decide del vero e del falso [167] e nelle cui mani la conoscenza

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intellettuale è un semplice giocattolo. Si potrebbe affermare che tutto quel che costringe lo spirito a una rigorosa moderazione - e ciò che lo condiziona e lo influenza da ogni lato - sia visto incarnarsi da Nietzsche, nel segno di ima sfrenata onnipotenza, in una singolarità superumana. In essa tutti gli istinti e le energie dell’umanità devono essere immaginati in una forma talmente libera e accresciuta da far sì che la quintessenza della vita, il concentrato di energia dell’intera realtà, diventino per così dire in lei una persona, la quale è anche in grado di lasciare il proprio segno sulle norme della conoscenza. Ciò non avviene però con un atto contemplativo, ma con un atto creativo, un’azione e un comando che vengono impartiti al mondo. « [...] I veri filosofi sono coloro che comandano e legiferano: essi affermano “così deve essere!”, determinano in primo luogo il “dove” e l’“a che scopo” degli uomini [...], protendono verso l’avvenire la loro mano creatrice Il loro “conoscere” è creare, il loro creare è una legislazione, la loro volontà di verità è - volontà di potenza » (Al di là del bene e del male, 211). La loro filosofia « crea sempre il mondo a sua immagine, non può fare altrimenti; la filosofia è questo stesso istinto tirannico, la più spirituale volontà di potenza, di “creazione del mondo”, di una causa prima» (ivi, 9). Gli «educatori cesarei e i violentatori della cultura» (ivi, 207): è con loro che la filosofia dell’avvenire di Nietzsche si confronta - con la loro interpretazione e con la loro descrizione -, la loro figura, anzi, ne costituisce l’intero contenuto. Nella sua teoria della conoscenza viene soltanto preparato loro il terreno, nella sua etica e nella sua estetica essi crescono [168] sempre più in direzione di una mistica religiosa in cui Dio, uomo e mondo si fondono in un unico immenso essere superiore.Si può facilmente osservare in quale misura, con questa figura del filosofo-creatore, Nietzsche si riavvicini alle sue concezioni metafisiche precedenti, ma come tenti anche, allo stesso tempo, di modificarle sulla scorta delle sue posizioni scientifiche più mature. Non accoglie più, infatti, le verità « ideali » della metafisica con le loro interpretazioni edificanti e consolatorie dell’enigma del mondo, ma, introducendo la scepsi nell’ambito della conoscenza e ponendosi nella prospettiva del « tutto è falso », si crea lo spazio per rimpiazzare quelle verità ideali perdute e quei motivi di consolazione.Con un gesto di forza, con un atto della volontà, si pone dentro alle cose il significato che queste, in se stesse, non possiedono; da scopritore della verità, quale è stato considerato finora, il filosofo diventa in certa misura un inventore della verità, un « ricco quant’altri mai di volontà» (Al di là del bene e del male, 212), che esprime sì falsità e illusioni, ma che sa tuttavia rendere vere con la sua volontà creatrice, che sa cioè trasformare in realtà convincenti. «Chi non sa porre la propria volontà nelle cose, se non altro ci mette dentro un senso» (Crepuscolo degli idoli, «Sentenze e frecce», 18). Egli se la prende dunque con i metafisici, ma come loro si sente in diritto di reinterpretare e di ricreare le cose sulla base di moti dell’animo che vanno al di là della semplice forza dell’intelletto.

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In questa superiorità, intesa in senso personale, della vita degli affetti su quella dell’intelletto, in base alla quale [169] il contenuto di verità di una conoscenza viene ritenuto in ultima istanza trascurabile rispetto al suo contenuto di volontà e di sentimento, si riflette senza riserve l’indole spirituale di Nietzsche, la sua natura e il suo desiderio più profondo. Dopo essersi a lungo costretto al servizio di una rigorosa conoscenza del vero, giunge ora questa reazione e un’ebbrezza che lo trascina in una vertigine mistica. Egli dona allora la propria anima a quel filosofo-creatore, dalla grandezza sovrumana, in cui si affollano pienezza e sovrabbondanza di vita e che brama per realizzarsi in modo creativo nei pensieri; è l’uomo «tropicale» [Al di là del bene e del male, 197] a cui si attagliano le parole che abbiamo già utilizzato, nella prima parte di questo libro, per descrivere la profonda inquietudine della vita interiore di Nietzsche: «L’anima dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare [...]; che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: - la più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso » (Cosi parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove»).Ma questa reazione violenta e spontanea nei confronti del periodo intellettuale precedente si spinge ancora più in là, e il rispecchiamento inconsapevole nelle teorie arriva a coinvolgere anche i sentimenti più personali di Nietzsche. In queste dottrine incontriamo infatti anche quel tratto sinistro della sua vita spirituale che faceva sì che egli trovasse il proprio appagamento e la propria soddisfazione soltanto nel sacrificio e nella violenza che esercitava su di sé. Come in precedenza si era sottomesso alle costrizioni di un rigido intellettualismo, così ora, al contrario, costringe l’intelletto e l’impulso verso un sapere puramente intellettuale a sottomettersi alla poderosa volontà delle passioni. Se prima aveva fatto violenza all’uomo dell’anima, [170] ora fa violenza all’uomo della conoscenza che è in lui: e non si arresta fino a quando il trionfo della volontà non si muta in un dileggio dell’intelletto; alla fine la conoscenza più alta trae origine, in modo sospetto, dalla rinuncia a se stessa da parte di ogni conoscenza logica, - e per quanto riguarda il pensatore - «è la sua crudeltà ad attirarlo e a incalzarvelo tal sacrificio dell’intelletto] segretamente, è quel pericoloso brivido di una crudeltà rivolta contro se stesso» - egli deve esercitare il proprio potere « come artista e come trasfiguratore della crudeltà» (Al di là del bene e del male, 229). Lo spirito umano si getta così a capofitto in ciò che lo annienta poiché solo in tal modo accede alla rivelazione più alta, - si getta a capofitto in ciò che è sconfinato, smisurato, in ciò che si abbatte su di lui, perché solo in tal modo raggiunge la sua meta.In tutta l’ultima filosofia nietzscheana, nell’etica come nell’estetica, ritroveremo il pensiero fondamentale che la innerva: che il declino in virtù di un eccesso è la condizione di una somma e nuova creazione; anche la teoria della conoscenza di Nietzsche sfocia così in una sorta di mistica personale e terrifica, in cui i concetti di illusione e di verità sono indissolubilmente

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concatenati e in cui il « superumano » si abbatte come un lampo che colpisce e uccide lo spirito, come una follia con cui il suo senso della verità deve essere vaccinato: «Perché io vorrei che essi avessero una demenza che li facesse perire [...]! Davvero, io vorrei che la loro demenza si chiamasse verità [...]» [Così parlò Zarathustra, «Del pallido delinquente»]. «E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? E anche la cecità del cieco e il suo cercare e brancolare deve testimoniare la possanza del sole in cui egli guardò - lo sapevate? » (Così parlò Zarathustra, «Dei saggi illustri »).[171] Quest’ultimo mistero, così come la figura del filosofo-creatore, risulta gradualmente comprensibile nell’etica e nell’estetica di Nietzsche, allorché esso, muovendo dalle astratte linee di fondo, acquista tratti sempre più concreti fino a mostrarsi ai nostri occhi, nell’unicità della sua figura, come una trasfigurazione mistica della natura stessa di Nietzsche.Il fatto che soltanto l’etica sia in grado di fornire una spiegazione corretta e una giustificazione della teoria della conoscenza risulta già chiaro se si considera l’uomo della conoscenza come il titolare dell’autentica volontà di vita, come colui che agisce e crea. Per la filosofia di Nietzsche vale dunque in sommo grado ciò che egli aveva affermato riguardo ai sistemi filosofici in generale: «Le intenzioni morali [...] hanno costituito [...] il vero e proprio nocciolo vitale, da cui si è sviluppata ogni volta l’intera pianta » (Al di là del bene e del male, 6). Questo stretto legame del filosofo con la vita in quanto tale, e con le sue finalità più umane e personali, è ciò che lo deve separare nel modo più risoluto da coloro che guardano alla vita con ostilità e pessimismo. Egli deve essere l’apologeta nato della vita e la sua filosofia eo ipso deve esserne un’apoteosi, poiché questa, a se stessa, non può che dire sempre di « sì ». E, tuttavia, è stato quasi sempre il contrario: « In ogni tempo i saggissimi hanno giudicato la vita allo stesso modo: essa non vale niente... Sempre e ovunque si è udito dalla loro bocca lo stesso accento - un accento pieno di dubbi, di melanconie, di stanchezza della vita, un accento pieno di opposizione alla vita» (Crepuscolo degli idoli, «Il problema di Socrate», I).Sebbene questa fiacca volontà di vita [172] fosse una conseguenza dell’affinamento e della sublimazione della natura animale di questi saggi, del tratto contemplativo e intellettuale della loro indole, essa era comunque in certa misura, secondo la precedente concezione nietzscheana, il segno di nobiltà che li distingueva dagli uomini spiritualmente rozzi, dalla plebe, e che legittimava la loro funzione di guide. Ora, invece, la concezione è mutata e l’accento non viene più posto sulla spiritualizzazione della vita, ma sul suo infiacchimento. Gli uomini spirituali risultano ora malati e spossati, i tipi della decadenza di ogni epoca. Il filosofo tanto amato e ammirato da Nietzsche, colui che sostenne presso i greci la dottrina del dominio della ragione sugli istinti naturali, Socrate, si muta ancora una volta nella figura pericolosa e denigrata del tentatore, quel che egli era stato per Nietzsche nel suo periodo schopenhaueriano. Socrate il brutto, il malformato tra i greci nobili e ben

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riusciti, fa la sua comparsa in mezzo a loro come il primo grande décadent che corrompe e castra l’originario istinto ellenico per la vita assoggettandolo alla sua dottrina della ragione (cfr. Crepuscolo degli idoli, «H problema di Socrate»). In ciò egli è l’archetipo di tutti i pensatori che vogliono dominare la vita con il pensiero ma che, esattamente come loro, non riesce a dimostrare nulla contro di essa, ma qualcosa contro il pensiero. Infatti, sebbene tutti i filosofi abbiano fino a oggi dato il loro contributo per disprezzare la vita, per rammollire gli istinti che la sostengono, in ciò non si palesa una verità su questa vita così disprezzata, ma soltanto la contraddizione con se stessi in cui si trovano i filosofi, un sintomo tipico [173] di una condizione malata. Ciò insegna soltanto che gli uomini dall’intelletto superiore hanno voltato le spalle a quella fonte di vita che nutre anche il loro intelletto; che sono decrepiti e stanchi, ultimi frutti di culture al tramonto; che non posseggono più in sé quella forza che vince, sana e modella, che trionfa sui danni e le manchevolezze dell’esistenza e la conduce a uno sviluppo più alto. È soltanto a loro che è rivolta la domanda sospettosa: « Forse non erano più, tutti quanti, saldi nelle gambe? Forse erano stagionati? Tentennanti? Décadents? Forse la saggezza era apparsa sulla terra a somiglianza di un corvo, che un tenue odore di carogna manda in estasi?...» (Crepuscolo degli idoli, «Il problema di Socrate», 1).L’interrogativo, tuttavia, non si rivolge soltanto a loro, poiché essi rappresentano solo il punto più elevato in cui culmina l'intero sviluppo dell’umanità. Sottrattosi alla unitarietà sorda e ottusa della sua consapevolezza animale, e seguitando ad affinare le proprie facoltà spirituali, l’uomo è entrato in conflitto con la base naturale in cui affonda le radici la sua forza. E' così diventato un essere incompleto, un ibrido che non può evidentemente ricavare da se stesso la spiegazione e la giustificazione della propria esistenza, - l’incarnazione del passaggio verso qualcosa che non è stato ancora scoperto, che non è stato ancora creato e, proprio perché è un tale passaggio, l’uomo è il più malato degli animali, « l’animale non ancora stabilmente determinato » (Al di là del bene e del male, 62). Il tratto della decadenza inerisce dunque all’umanità nel suo insieme e non soltanto a sue singole forme o a suoi singoli aspetti.Già nelle fasi iniziali di ogni civiltà possiamo dunque rinvenire le prime tracce di decadenza, del declino della vita intatta, laddove l’animale selvaggio uomo, [174] l’« animale da rapina umano », inizia a sentirsi limitato nella sua libertà senza freno dalle prime forme di costrizione sociale. «Quei terribili bastioni con cui l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti di libertà [...] fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si rivolgessero contro l’uomo stesso». «Tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno, si rivolgono all’interno - questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua “anima”. L’intero mondo interiore, originariamente sottile come fosse teso tra due epidermidi, [...] ha acquistato profondità, latitudine, altezza

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a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno». «L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in un’opprimente angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si svillaneggiava, quest’animale che si vuole “ammansire” e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di piaghe, [...]. Con lui fu però introdotta la più grande e la più sinistra delle malattie, di cui fino a oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé: conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, [...] di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino allora riposava la sua forza, il suo . piacere e la sua terribilità» (Genealogia della morale, 11, 16).Se la malattia è dunque in certa misura la normale condizione dell’uomo, la sua natura specificamente umana, e se i concetti di malattia e di evoluzione possono essere intesi in modo pressoché identico, allora, anche alla fine [175] del lungo processo di evoluzione culturale noi dovremmo ritrovare, quale suo risultato, proprio la decadenza: a mutare è solo il suo aspetto esteriore. Sono le epoche di abitudini lunghe e pacifiche quelle in cui essa emerge nella sua forma nuova, quelle in cui il legame rigido, la disciplina severa e la sottomissione dei singoli individui non paiono più necessari, poiché gli strumenti per godersi fino in fondo la vita sono copiosamente a portata di mano. La rigida uniformità nel cui segno tutti sono stati cresciuti, con un’educazione vecchia di secoli, comincia a venire meno e a lasciare spazio al gioco delle individualità. « La variazione, sia come tralignante deviazione (in qualcosa di superiore, di più raffinato e raro), sia come degenerazione e mostruosità, è comparsa improvvisamente in scena nella sua massima pienezza e magnificenza, il singolo osa essere singolo e campeggiare da solo ». « Soltanto fini nuovi, soltanto mezzi nuovi, non più formule comuni, fraintendimento e dispregio alleati tra loro, decadenza, corruzione e le bramosie estreme strette in un nodo spaventevole, il genio della razza traboccante da tutte le cornucopie del bene e del male, una funesta contemporaneità di primavera e autunno » (Al di là del bene e del male, 262).Se nella forma originaria di decadenza che è stata precedentemente descritta le passioni dell’uomo si rivolgono contro di lui, minacciandolo e lacerandolo, poiché egli non riesce a scaricarsi verso l’esterno e risulta dunque indifeso, ora, per il motivo opposto, esse si trovano in una sorta di guerra civile tra loro, essendo venute meno le situazioni esterne da cui l’uomo avrebbe dovuto proteggersi, non essendoci più nulla che gli consenta di indirizzare verso l’esterno le energie destinate alla guerra. Nella pace tranquilla della vita ordinata, all’uomo, che nel frattempo [176] si è fortemente «interiorizzato », non resta altro campo di battaglia per i propri impulsi selvaggi al di fuori di se stesso. Appena questi iniziano ad agitarsi, egli prende di nuovo a soffrire di se stesso « grazie agli egoismi rivolti selvaggiamente gli uni contro gli altri » che la sua natura, complicatasi oltremodo, comprende in sé, e per mezzo dei quali viene a poco a poco

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smarrendo di nuovo tutta la compattezza della sua personalità. In questo stadio l’uomo rappresenta l’anello finale di un’unica catena evolutiva di enorme lunghezza, che incorpora in sé ogni singolo anello, poiché è la summa di tutta quell’«umanità» morale e sociale, progressivamente acquisita insieme a tutti i ricordi, legati all’istinto e ancora troppo vivi, della sua passata animalità.Ma se queste due forme di decadenza scaturiscono necessariamente dalla natura umana e costituiscono delle inaggirabili fasi di passaggio nella sua evoluzione verso qualcosa di superiore, vi è poi anche un terzo tipo di decadenza che minaccia di rendere incurabile la condizione patologica appena descritta e di impedire la possibilità di una nuova guarigione. Si tratta della falsa interpretazione del mondo, dell’errata concezione della vita che matura in quel dolore e in quella malattia: è l’invito a una forma di ascesi di qualsiasi sorta, al distacco dalla vita e dalle sue sofferenze, al lasciarsi andare all’infiacchimento, che compare quale conseguenza dell'eterna «guerra che si è». Un ideale ascetico di questo tipo non viene predicato soltanto da ogni religione e da ogni morale, ma anche da ogni intellettualismo che sostiene il pensiero a spese della vita e che contrappone l’ideale della «verità» a quello del massimo accrescimento possibile della vita stessa. L’autentico rimedio per questa [177] corruzione dilagante sarebbe proprio costituito dall’abbandonarsi per intero alla vita, affinché una forma nuova e superiore di salute possa nascere dalla caotica ricchezza di elementi opposti in conflitto tra loro.« Si è fecondi soltanto a prezzo d’essere ricchi di contrasti» (Crepuscolo degli idoli, «Morale come contronatura», 3), posto che vi sia ancora forza sufficiente per reggerli, per sopportarli. Quel che può sembrare dissoluzione e decadenza, la cosiddetta corruzione, è « solo un epiteto offensivo per i tempi autunnali », - per i tempi cioè delle foglie cadenti, ma anche dei frutti maturi. Nella misura in cui decadenza e progresso possono significare la stessa cosa, il progresso verso una conclusione necessaria « non giova a nulla: si deve andare avanti, voglio dire un passo dopo l’altro più in là nella décadence [...]. Si può intralciare questo sviluppo e, intralciandolo, arginare, concentrare, rendere più veemente e più improvvisa la degenerazione stessa: di più non si può » (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 43). Una simile conclusione, un tale tragico intreccio di avanzamento e regresso, si spiega in base al fatto che l’uomo non trova in sé il proprio compimento, ma aspira a qualcosa che si trova al di là di se stesso, a qualcosa di superiore a quel che egli è. «Col fatto di un’anima animale rivolta contro se stessa, [...] si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo, profondo, [...] colmo di contraddizioni e colmo di avvenire», che da ciò poteva nascere la speranza di una possibile, nuova specie superiore di umanità. E come se con ciò «qualcosa si annunciasse, qualcosa si preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una via, un episodio, un ponte, una grande promessa...» (Genealogia della morale, I, 16). «L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, - un [178] cavo al di

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sopra di un abisso. [...] La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto » (Così parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»). Nei tempi del tramonto incipiente e della nuova nascita che si annuncia, i fenomeni di decadenza possono essere risparmiati all’umanità tanto poco quanto possono esserlo « a una donna incinta i disgusti e le stranezze della gravidanza [...] delle quali ci si deve dimenticare per rallegrarsi del bambino».L’idea di un carattere « troppo umano » comune agli istinti, che Nietzsche aveva sottolineato con grande enfasi nel suo periodo precedente, non viene dunque abbandonata, ma se possibile viene sottolineata con forza ancora maggiore e assunta quale punto di partenza di una nuova teoria dell’uomo. Da fredda idea dell’intelletto essa si è elevata a passione dell’anima e, in quanto tale, ha acquisito un’importanza così enorme da sconvolgere tutte le energie psichiche e intellettuali di Nietzsche, fino a che nell’ira, nella stizza e nel raccapriccio non gli crescono « ali e [... ] energie presaghe di sorgenti » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove») con cui si solleva al di sopra di esse. Dall ’enfasi che egli pone su questa sua vecchia idea, dalle estreme conseguenze che ne ricava, sgorga la potentissima brama di nuove teorie, del pensiero di un sacrificio del troppo umano a vantaggio del superumano.Come nella parte gnoseologica della nuova dottrina nietzscheana si riflette la dipendenza dell’elemento logico da quello psichico, della vita del pensiero da quella del sentimento, così, nella figura umana di una pienezza dolente che mira [179] a una rinascita, c’imbattiamo nell’illustrazione della natura di Nietzsche: il sacrificio di impulsi in lotta per mettere al mondo una suprema forza creatrice. La sua dottrina della decadenza è il frutto del sentimento profondo, avvertito di continuo, della propria malattia, della propria sofferenza. Anche per essa vale quel che vale per ogni dottrina della sua ultima filosofia: i dolorosi andamenti della psiche, che finora erano stati cause e fenomeni concomitanti dei vari processi gnoseologici, ne divengono ormai il contenuto conoscitivo vero e proprio.L’idea di un’umanità ricchissima che s’immola in sacrificio è quella a partire da cui Nietzsche, volgendo lo sguardo all’indietro, comprende tutto il corso dell’evoluzione umana. Solo per questo fine fu necessario quel lungo e penoso ammansimento dell’originaria animalità selvaggia dell’uomo, benché esso finisca per farne un decadente e questi in conclusione sia diventato già troppo adulto per essere addomesticato. Il senso di questo processo era infatti quello di arricchire l’uomo di tutta la pienezza della sua interiorità, per renderlo poi padrone di questa ricchezza e di se stesso. E ciò poteva avvenire soltanto attraverso una lunga e dura coercizione in cui la sua volontà, come quella di un individuo ancora minorenne, veniva fatta accedere alla maggiore età a suon di percosse e punizioni. L’uomo imparò così ad avere una volontà più durevole e tenace dell’animale smemorato, dominato dall’istante e in balia dell’impulso del

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momento. Imparò a rispondere della sua volontà - diventò «l’animale cui sia consentito fare delle promesse». Tutta l’educazione dell’umanità è in fondo una sorta di mnemotecnica: la soluzione del problema di come si possa incorporare una memoria in una volontà imprevedibile. «Poter farsi mallevadori di se stessi e con [180] orgoglio, dunque poter dire di sì anche a se stessi - questo [...] è [...] un frutto tardivo: - quanto a lungo questo frutto dovette pendere aspro e acerbo dall’albero! » (Genealogia della morale, II, 3). «Mettiamoci invece al termine dell’immenso processo, là dove l’albero finalmente fa maturare i suoi frutti, dove la società e la sua eticità di costumi porta infine alla luce lo scopo per il quale essa fu unicamente il mezzo: troveremo il più maturo frutto, [...] l'individuo sovrano, l’individuo eguale soltanto a se stesso, [...] insomma l’uomo dalla propria, indipendente, durevole volontà, al quale è consentito promettere» (ivi, 11, 2). A questa consapevolezza dell’individuo divenuto libero e padrone corrisponde un nuovo tipo di coscienza morale, secondo cui l’uomo si è fatto ormai troppo adulto per le concezioni morali e per gli ideali della tradizione - i suoi educatori severi e ormai superflui -, e la vecchia consapevolezza morale ha così perduto le sue radici e la sua giustificazione.La dottrina della volontà di Nietzsche presenta una fusione delle sue concezioni metafisiche precedenti con un determinismo di tipo scientifico. Come allievo di Schopenhauer, Nietzsche distingue, non diversamente dal maestro, tra la misteriosa volontà «in sé», che costituisce il fondamento della metafisica schopenhaueriana, e la volontà così come essa si presenta alla nostra percezione umana. Essa viene ritenuta libera, poiché i fondamenti ultimi del suo essere e della sua essenza si trovano al di là del nostro comune mondo d’esperienza, al di là del principio di causalità che vige in esso; viene invece ritenuta non libera in quanto le sue singole manifestazioni possono essere da noi percepite soltanto all’interno dell’indistruttibile trama del generale nesso di relazioni causali. Dopo aver osservato per vari anni un determinismo coerente, [181] ancora adesso Nietzsche si attiene all’idea che la «volontà» si renda degna del suo nome solo sotto la tutela degli istinti che la determinano. Ma quel che egli nega, da determinista, riguardo alla misteriosa origine e provenienza della volontà, tenta poi di fissarlo come scopo o fine dell’evoluzione della volontà stessa. Se infatti, in seguito al lungo processo di ammansimento da lui descritto, è venuta progressivamente a crearsi attraverso costrizioni e influssi esterni una volontà matura, consapevole, superiore all’impulso del momento e in grado di padroneggiare la vita, questa risulta «libera» in un senso a cui i deterministi non riescono a rendere giustizia: i suoi atti non possono più infatti essere fatti derivare da ima determinata epoca o da un determinato ambiente; essa risulta ora determinata da null’altro che da se stessa, cioè dalla sua forza enormemente accresciuta che esplode senza riguardi - essa è consapevolezza di una potenza allo stato puro, libera dal tempo.Questo suo carattere non è più di natura metafisica, giacché essa è divenuta quel che è, è il risultato di una sequenza evolutiva, e la raggiunta libertà del

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volere è figlia della necessità e del più rigido condizionamento della volontà. Ma attorno a questa libertà vi è nondimeno qualcosa di mistico, poiché si volge ora come una potenza incondizionata, che rimodella e ricrea, proprio contro le condizioni naturali da cui è sorta. Nel suo periodo positivistico Nietzsche aveva imparato a considerare il mondo della realtà, nel suo sviluppo accessibile e comprensibile a noi soltanto, come ciò che vi è di più apprezzabile; egli si era rivolto contro i metafisici con le parole: [182] «Ogni cosa finita, perfetta, viene ammirata; ogni cosa in divenire, sottovalutata» (Umano, troppo umano, I, 162) - semplicemente perché non si possono più indagare e passare al vaglio le cause che hanno originato la prima. Ora egli approda alla medesima ammirazione per ciò che è finito e in apparenza perfetto; e tutto ciò che è in divenire gli sembra apprezzabile soltanto nella misura in cui si muove in quella direzione. Continua ad ammettere che tutte le cose sono condizionate, ma soltanto perché, muovendo da questa considerazione, gli si dovrà prima o poi rivelare un significato mistico che trascende ogni condizionatezza e ogni esperienza. Una condizionatezza che dipende dalla forza poderosa della volontà divenuta libera, poiché è lei a crearla dentro alle cose; al posto del volere « libero » o « non libero » dei deterministi, Nietzsche vuole perciò vedere impiegata l’espressione « forte e debole volere» (Al di là del bene e del male, 21) e tutta quanta la psicologia deve essere concepita come « morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza» (ivi, 23).Colui che è dotato della volontà più potente è dunque in ogni epoca l’individuo in sommo grado « inattuale », colui nel quale è divenuto genio quel che per lungo tempo si è preparato nell’umanità. Nel genio fluisce in modo libero ciò che l’umanità ha appreso in una condizione di illibertà e servitù. I geni sono come « materie esplosive in cui è accumulata una forza enorme; il loro presupposto, storicamente e filosoficamente, è sempre lo stesso: che si sia lungamente raccolto, accumulato, risparmiato e conservato in vista di loro [...]. L’epoca in cui appaiono è accidentale; se diventano quasi sempre signori di quest’ultima, ciò dipende dal fatto che sono più forti, sono più antichi, [183] e che per più lungo tempo si sono andate raccogliendo molte cose in vista di loro. [...] Relativamente parlando, l’epoca è sempre molto più giovane, più gracile, più lontana dalla maggior età, più insicura, più infantile». «Il grande uomo è una fine; [...]. Il genio - nell’opera e nell’azione - è necessariamente un dissipatore: lo spendersi è la sua grandezza... L’istinto dell’autoconservazione è, per così dire, sospeso; la strapotente pressione delle forze erompenti gli inibisce ogni salvaguardia e ogni cautela in questo senso» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 44).Nel genio viene dunque alla luce, in misura straordinaria e almeno in una determinata direzione, ciò che dovrebbe consentire all’uomo di progredire dalla sua specie verso una specie superiore, una dissipazione di se stesso a favore di una nuova creazione, una ricchezza prodiga nei cui doni si è accumulato l’intero passato e in cui esso è diventato quanto mai fecondo,

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fecondo dell’avvenire. Si pensi adesso a un genio che, a differenza di altri, non sia tale solo in questo o in quel campo, ma in rapporto all’intera coscienza dell’umanità, sicché in lui scorre, viva e attiva, la materia che ha sempre vissuto e agito nel genere umano: un simile genio potrebbe essere l’immagine dell’uomo da cui nascerà il superuomo. Raccoglierebbe e controllerebbe in sé l’intero passato, anzi, conterrebbe «l’intera linea uomo, fino a sé»; il cammino e la meta dell’avvenire dell’umanità dovrebbero quindi rivelarsi in lui all’improvviso. Grazie alla poderosa volontà di colui che annuncia questa rivelazione, l’evoluzione dell’uomo riceverebbe per la prima volta una direzione, uno scopo e un avvenire, ogni cosa un significato proprio e definitivo: in una parola, per la prima volta [184] il filosofo assurgerebbe al ruolo di creatore, così come Nietzsche lo immagina: il più dotato di volontà di potenza, il genio dell’umanità che comprende in sé la vita, in cui si rivela quel che Nietzsche afferma in generale del pensare: « In realtà molto meno uno scoprire che un rinnovato conoscere, un rinnovato ricordare, un procedere a ritroso e un rimpatriare in una lontana, primordiale economia complessiva dell’anima, da cui quei concetti sono germogliati una volta: - in questo senso filosofare è una specie d’atavismo di primissimo rango» (Al di là del bene e del male, 20).Prima di ogni altra cosa, una specie d’atavismo: è questo il carattere sorprendentemente reazionario di tutta l’ultima filosofia di Nietzsche, ciò che la distingue nella maniera più netta da quella dei suoi periodi precedenti. H suo tentativo è infatti quello di sostituire alla venerazione metafisica di determinati oggetti e di determinati pensieri quella della loro età e della loro origine remota. Nietzsche non fa propri il « rammemorare » e il « riconoscere » nel senso inteso da Platone, soltanto perché ritiene di poterli concepire in modo altrettanto significativo e superumano in virtù del lasso di tempo straordinariamente lungo da cui il pensiero esiste. Vale quindi per lui il principio che di tutti gli enti di specie elevata, sia solo il più antico a determinare il futuro,3 che il valore e la nobiltà delle cose [185] siano legati esclusivamente alla loro età: soltanto alla fine, infatti, esse rivelano i loro tesori, si mostrano nella loro potenza, nella loro libertà e nella loro autonoma forza. « Chi le possiede (le cose buone) è diverso da chi le acquista. Ogni bene è eredità: quel che non è ereditato, è incompiuto, è cominciamento...» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 47); nobile è «ciò che non si lascia improvvisare ». Nulla è perciò più plebeo, meno nobile, di ciò che è in divenire e di colui che porta mutamento e novità: l’uomo e lo spirito moderno, quello determinato in tutto e per tutto dal suo tempo e che perciò è in tutto e per tutto uno spirito da schiavo. Spirito signorile può diventarlo solo dopo aver incorporato secoli e millenni, ed essere così diventato anche lui un «inattuale», una «genialità senza tempo».« La democrazia è stata in ogni tempo la forma di declino della forza organizzatrice: [...] affinché ci siano delle istituzioni, deve esistere una specie di volontà, d’istinto, d’imperativo, [186] antiliberale fino alla malvagità: volontà di tradizione, di autorità, di responsabilità sui secoli futuri, di

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solidarietà espressa da catene di generazioni, in avanti e in indietro, in infinitum » (Crepuscolo degli idoli, « Scorribande di un inattuale», 39). E' interessante osservare attraverso un confronto dei rispettivi passi nelle opere precedenti di Nietzsche quale mutamento nel modo di concepire la teoria possa aver prodotto in lui un semplice capovolgersi del sentimento, e di come le antitesi si acuiscano rapidamente in modo inconciliabile.4 Ora egli fustiga il «livellamento plebeo» [187] di tutti gli uomini e la mite condizione di pace in cui non possono più nascere crude forze barbariche che apporterebbero la forza sana di epoche antiche in un presente infiacchito e debilitato. Barbari sono « gli uomini più interi (la qual cosa, a ogni grado, significa anche lo stesso che “bestia più intera”) » (Al di là del bene e del male, 257). Questi uomini e queste bestie più intere risultano malvagi e pericolosi in una condizione sociale pacifica, vengono bollati come criminali e trattati come tali - anzi, grazie ai loro impulsi naturali più forti, essi sono i criminali nati e quelli che infrangono l'ordinamento sociale esistente. «Il tipo criminale: è il tipo dell’uomo forte posto in condizioni sfavorevoli [...]. Gli mancano le vaste foreste, ima certa natura e forma d’esistenza più libera e più perigliosa, in cui ha forza di diritto tutto quanto è arma di difesa e d’offesa nell’istinto dell’uomo forte. Le sue virtù sono messe al bando dalla società» (Crepuscolo degli idoli, « Scorribande di un inattuale», 45).L’ideale di libertà secondo cui a ciascuno spetta una parte di questa, e che quindi concede libertà di azione anche ai più deboli e ai più miserabili, si contrappone dunque esattamente a quello di quest’uomo: il suo modo di vivere fino in fondo, senza riguardi, richiede sempre che si faccia violenza agli altri, la sua forza si esprime spontaneamente e necessariamente nel travolgere qualunque forma di debolezza gli stia intorno. Ma la causa di questa prorompente forza degli istinti che alberga in lui risiede nel fatto che egli, per così dire, proviene da un più antico stadio di civiltà, [188] rappresenta ima parte più antica di umanità: in una parola, che egli, al pari del genio e di chi è dotato di una volontà poderosa, possiede in sommo grado doti ataviche. Per ignobile che possa ancora essere la natura della forza istintuale che alberga inlui fin dall’antichità, essa risulta già nobile poiché rappresenta una crepa in una compattezza accumulata da tempo, un potente materiale esplosivo con cui il passato feconda l’avvenire. Là dove il criminale è assai forte, dove è quasi un genio del suo genere e un « uomo del libero volere », là egli riesce talora a indirizzare il corso dei tempi secondo il suo peculiare atavismo e a piegare sotto il suo volere tirannico l’epoca che gli oppone resistenza.Un esempio in materia è Napoleone, che Nietzsche interpreta in modo analogo a Taine. Anche a lui sembra quanto mai significativo il fatto che Napoleone sia un discendente dei geni-tiranni dell’epoca rinascimentale il quale, trapiantato in Corsica, nella natura selvaggia e primitiva degli usi locali, poté conservare intatto dentro di sé il retaggio dei suoi precursori, per poi soggiogare con la loro violenza l’Europa moderna, che gli offriva, per scaricare le sue forze, un teatro del tutto diverso da quello che l’Italia di un

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tempo aveva offerto ai suoi avi. L’ammirazione di Nietzsche per il grande corso appartiene al suo ultimo periodo intellettuale; in precedenza anche il Rinascimento italiano era stato concepito in maniera sostanzialmente diversa.5

[189] Nella salute primordiale della forza violenta dei suoi istinti e nel suo egoismo senza riguardi, Napoleone diventa ora per Nietzsche l'immagine ideale della natura signorile, come deve essere e come ancora oggi servirebbe per sradicare tutte quelle delicatezze morali e quei sentimenti effeminati che hanno potuto prosperare grazie alla natura da schiavi degli uomini moderni. E giungiamo così alla distinzione tanto discussa e tante volte sopravvalutata tra morale dei signori e morale degli schiavi. Anche in questo caso, Nietzsche prese inizialmente le mosse da stimoli che gli provenivano dal positivismo. Come già ricordato, fu l’opera di Rèe allora in preparazione, La nascita della coscienza, che [190] offrì l’occasione per discutere a fondo con l’amico tutto il materiale di cui questi aveva bisogno per i suoi scopi - in particolare anche il nesso etimologico e storico tra i concetti « nobile-forte-buono» e «umile-debole-cattivo» nella morale più antica o, per così dire, nello stadio premorale della civiltà. Il modo in cui i due amici condussero queste discussioni e questi studi in comune è indicativo dell’atteggiamento che Nietzsche aveva ora assunto nei confronti delle concezioni positivistiche: prestò ancora pazientemente ascolto alle riflessioni di Rèe, ne trasse qua e là degli stimoli o del materiale per il proprio pensiero, ma prese a rivolgersi in modo ormai ostile verso il compagno di un tempo.Nel libro di Rèe lo spostamento storico del giudizio a favore di tutti i sentimenti benevoli ed egualitari veniva inteso come un trapasso naturale e progressivo in direzione di forme sociali maggiormente sviluppate: la glorificazione iniziale della forza predatoria e dell’egoismo cede il campo all’introduzione di costumi e leggi più miti, finché, nella morale cristiana, la compassione e l’amore per il prossimo non vengono sanzionati come il sommo precetto morale. Nella sua valutazione personale del fenomeno morale, Rèe era dunque ben lungi dallo schierarsi al fianco degli utilitaristi inglesi, a cui pur si avvicinava moltissimo nelle sue concezioni scientifiche. Per Nietzsche, al contrario, sulla scorta della sua nuova concezione del fenomeno morale, la differenza storicamente data tra le due distinte valutazioni di quel che si definisce «buono» culmina in un’antitesi inconciliabile, in un conflitto tra [191] morale dei signori e morale degli schiavi che si protrae irrisolto fino ai giorni nostri.Lo straordinario significato che aveva acquisito ai suoi occhi qualsiasi forma di potenza della volontà e di forza dell’istinto lo portò a scorgervi l’unica possibile fonte di ogni morale sana; nella sanzione dei sentimenti benevoli, egli ravvisava invece un micidiale malanno di cui l’umanità aveva sofferto fino ad allora. L’idea sostenuta in precedenza di ricondurre ogni valutazione morale all’utilità, alla consuetudine e all’oblio degli originari motivi di interesse, gli sembrò ormai errata. Un’origine di questo tipo poteva ai massimo toccare in sorte alla morale degli schiavi; per l’altra morale si

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doveva invece trovare un’origine più nobile: è infatti nobile definire una cosa buona o cattiva senza curarsi della sua utilità, ed è questo il modo in cui procede la natura signorile: percepisce se stessa come « buona » in tutti i moti del suo animo e guarda con superiorità - con disprezzo involontario e semiconsapevole - come qualcosa di « cattivo » tutto quel che non corrisponde ai suoi istinti, tutto quel che è debole, dipendente, pavido. La morale degli schiavi, di questi disprezzati, di questi «cattivi», nasce in modo del tutto diverso: non spontaneamente da se stessa, ma sul terreno del ressentiment, quasi come un atto di vendetta: chiama «malvagio», detestabile, quel che appartiene ai ceti dominanti e solo muovendo da ciò escogita, come qualcosa di derivato, il proprio concetto di «buono» per l’insieme di tutte le qualità opposte, cioè per ciò che è debole, sottomesso, sofferente.Da un lato vi è dunque l’« innocenza della coscienza propria di un animale da preda», il «mostro giubilante», forte, che compie anche le azioni peggiori con una «tracotanza e un intimo equilibrio» [192] come se si trattasse di una «zuffa studentesca » (Genealogia della morale, I,11); dall’altro il sottomesso, uso all’odio, la cui anima impotente è assetata di vendetta, mentre sembra predicare la morale della compassione e del commovente amore per il prossimo. Quest’ultimo tipo umano si è trasformato in un’immagine ideale compiuta nel cristianesimo, che Nietzsche intende senz’altro come un mostruoso atto di vendetta del giudaismo nei confronti del dispotico mondo dell’antichità. L’autentica raffinatezza di questo piano di vendetta risiede nel fatto che gli ebrei misero in croce il fondatore del cristianesimo e ripudiarono la sua religione affinché gli altri popoli « abboccassero a quest’amo » senza esitare.6

Non è tuttavia necessario seguire Nietzsche in tutte le sue spiegazioni e nella sua interpretazione della storia talvolta arrischiata, perché il vero significato di questa concezione per la sua filosofia si trova in luoghi diversi da quelli in cui lo si cerca d’abitudine. Spinto dal bisogno di generalizzare il più possibile e di trovare un fondamento scientifico, Nietzsche ha tentato [193] di ricavare dalla storia del genere umano e di introdurre in essa qualcosa la cui importanza risiedeva per lui in una recondita problematica psicologica. Il fatto che si confonda il corso dei pensieri nietzscheani, insistendo oltre il dovuto sull’aspetto errato della questione - quello della scientificità - è perciò degno di riprovazione. Anche per queste ipotesi di Nietzsche infatti, e in modo quanto mai particolare per esse, vale il principio in base a cui non è lecito appropriarsene per via teoretica per poi ricavarne il nucleo originale. La questione fondamentale di Nietzsche non riguardava la storia dell’anima umana, ma il modo in cui la storia della sua propria anima poteva essere intesa come quella dell’umanità intera. In nettissimo contrasto con lo scrupolo filologico con cui nel suo primo periodo, e per l’essenziale anche nel periodo successivo, aveva interpretato la storia e la filosofia, la precisione della ricerca scientifica non svolgeva adesso più alcun ruolo accanto alle sue idee e alle sue intuizioni geniali - e non poteva peraltro più

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svolgerne alcuno, dal momento che qualsiasi lavoro scientifico gli risultava ormai impossibile.Per tutti i lavori che ancora avrebbe voluto vergare, valgono dunque le parole tratte da La gaia scienza, secondo cui noi restiamo « sempre in nostra compagnia » anche quando presumiamo di estrarre dalle cose qualcosa di estraneo: « Tutto ciò che è della mia specie nella natura e nella storia, mi parla, mi loda, mi spinge innanzi, mi consola: il resto non lo intendo o lo dimentico subito» (166). «Limiti del nostro udito. Si odono solo le domande alle quali si è in condizione di trovare una risposta» (ivi, 196). «Per quanto grande sia l’avidità della mia conoscenza, non potrò estrarre dalle cose null’altro che già non mi appartenga - mentre ciò che appartiene ad altri resta nelle cose» (ivi, 242).[194] Trattando in modo così arbitrario il materiale delle sue ipotesi filosofiche, egli si allontanò alquanto dall’osservazione spassionata e dalla fondazione scientifica, divenne più soggettivo nelle sue conclusioni e nelle sue deduzioni di quanto non fosse stato negli anni in cui si limitava ancora consapevolmente alla propria esperienza vissuta. Quel che assume significato nella sfera intima diventò quel che decide e impone le sue leggi sul mondo esterno, e Nietzsche stesso divenne il «grande despota», il «mostro accorto che, esercitando la sua clemenza e inclemenza, costringe e fa violenza a tutto il passato: fino a farlo diventare il suo ponte, e presagio e araldo e canto del gallo » (Così parlò Zarathustra, « Di antiche tavole e nuove»).Nell’ambito della problematica psicologica, a Nietzsche fin dall’inizio interessa meno stabilire in modo storicamente esatto l’antitesi tra morale dei signori e morale degli schiavi di quanto non gli importi constatare il dato di fatto che l’uomo, quale è stato fino a ora, reca in se stesso entrambi i poli dell’antitesi, che egli è il risultato dolente di una contraddittorietà degli istinti, questo duplice modo di valutare fatto persona. Se ci rammentiamo della descrizione nietzscheana della decadenza, in essa ritroviamo allora l’uomo in quanto natura signorile, nella sua forza primordiale indomita e nella sua indocilità, asservito e reso però schiavo ubbidiente dalla costrizione sociale, dal fatto stesso della nascita della civiltà. Ogni civiltà, in quanto tale, si basa per Nietzsche sul fatto di fare dell’uomo un essere malato, uno schiavo, ed egli nota espressamente che se questo processo non fosse avvenuto, se l’anima umana non si fosse rivolta con violenza contro se stessa, allora sarebbe rimasta « piatta » e « sottile ». La primordiale natura da signore dell’essere umano non è infatti diversa da [195] quella di uno splendido animale che diviene capace di evolversi soltanto attraverso le ferite che vengono inferte alla sua forza; nel dolore che esse producono egli deve imparare a dilaniarsi, a vendicarsi di sé, a sfogare la propria impotenza rivolgendo verso l’interno le proprie passioni: tutto ciò esclusivamente sul terreno del ressentiment degli schiavi. «L’essenziale [...] è, a quanto sembra, per dirla ancora una volta, che si ubbidisca a lungo e in una sola direzione:

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ne risulta [...] a lungo andare sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere sulla terra » (Al di là del bene e del male, 188).Questa situazione di decadenza non è per Nietzsche soltanto qualcosa che deve essere superato, ma addirittura il presupposto necessario dell’uomo dalle passioni durevoli, dagli affetti stabili e sicuro di sé che da essa crescerà. Ma si noti bene: questo uomo compiuto, con la sua natura signorile profonda e individuale, non deve in nessun modo vivere per il suo ingenuo egoismo, non deve eliminare i pregiudizi e e sue catene di schiavo per diventare il fine della propria esistenza, ma deve diventare il capostipite di una specie umana superiore e immolarsi in sacrificio per la nascita di essa poiché, come abbiamo visto, l’apice dell’evoluzione coincide per Nietzsche con il tramonto dell’umanità, giacché questa è solo il passaggio verso qualcosa di più elevato, un ponte, un mezzo. Quanto più grande perciò è un uomo, tanto più è genio e vetta in ogni senso, tanto più è anche una fine, una dissipazione di se stesso, un defluire delle ultime forze - «pronto a distruggere nella vittoria! » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove»). Deve soltanto diventare «qualche cosa di perfetto, di compiutamente riuscito, di beato, di possente, di trionfante », per essere pronto « al nuovo, al più difficile ancora, al più lontano ancora, come archi cui ogni angustia dà sempre [196] soltanto una tensione ancor più forte » (Genealogia della morale, 1,12), un arco la cui freccia mira al superuomo.L’uomo diventa così il campo di battaglia di istinti in contrasto e in guerra tra loro, dalla cui dolorosa sostanza soltanto risulta ogni sviluppo; in lui si palesa ancora una volta quell’intreccio di volontà di dominio e di obbligo all’ubbidienza, di sopraffazione dell’uno sull’altra, da cui un tempo nacque ogni civiltà e da cui ora deve nascere una civiltà superiore quale ultima e suprema creazione. Non è qualcuno che desidera la pace o che gode di se stesso, ma un lottatore e uno che vuol tramontare. Così, grazie alla sua personalità dall’individualità perfetta e dallo spirito libero, si ripete in lui proprio ciò che un tempo agì sull’umanità, dall’esterno e mediante la servitù, come uno strumento pedagogico imposto; in lui noi ritroviamo « questa segreta tirannide su se stessi, questa crudeltà di artisti, questo piacere di dare a se stessi, quasi greve, riluttante, sofferente materia, una forma, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no, questo sinistro e orrendamente gioioso travaglio di un’anima docilmente scissa in se stessa, che si cagiona dolore per gusto di cagionare dolore» (Genealogia della morale, II, 18). Proprio l’anima più perfetta e più ampia deve infatti esprimere in sé, nel modo più chiaro e irrevocabile, la legge fondamentale della vita, quella che recita: «Io sono il continuo, necessario superamento di me stessa » (Così parlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi»). Non si può non riconoscere in quale misura Nietzsche abbia posto la propria situazione psichica a fondamento di queste teorie, con quanta forza egli rifletta in esse la propria natura e come infine abbia tratto dal suo bisogno più profondo [197] la legge fondamentale della vita. La sua dolorosa « molteplicità di anime », la sua violenta « scissione » in

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una parte che si sacrifica e che adora e in un’altra che domina e viene divinizzata, stanno alla base del suo quadro complessivo dell’evoluzione del genere umano. Ovunque parli di schiavi e signori, bisogna tener bene a mente che egli parla di se stesso, mosso dallo struggimento di una natura dolente disarmonica per un’indole opposta alla sua, e dal desiderio di poter guardare a essa come al proprio Dio. E' il suo io quello che descrive, quando dice dello schiavo: « Il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio » (Genealogia della morale, I, 10); e nella natura signorile, nel primordiale uomo dell’azione, attivo, felice, sicuro dei propri istinti, incurante, egli descrive la figura contraria alla sua. Ma facendo dell’uno il presupposto dell’altro, facendo della natura umana in quanto tale lo scenario su cui si incontrano ogni volta questi due elementi opposti per superarsi a vicenda, egli li concepisce come stadi evolutivi all’interno dello stesso essere, i quali, dal punto di vista storico, permangono antitetici, ma nel singolo ente, dal punto di vista psicologico, risultano come una scissione essenziale all’interno dell’uomo che si evolve. La sua concezione della lotta storica tra schiavi e signori, in tutta la sua portata, non è dunque altro che una grossolana illustrazione di quel che accade in ogni uomo superiore, del crudele processo psichico attraverso cui questi deve scindersi in Dio del sacrificio e in animale del sacrificio.[198] Soltanto ora si è in grado di stabilire cosa significhi effettivamente la «trasvalutazione di tutti i valori», di tutte le concezioni morali e ideali che sono esistite finora, e quale rapporto la leghi all 'ideale ascetico in cui per Nietzsche vengono adesso a riassumersi tutti gli ideali religiosi e morali. Questa trasvalutazione comincia con una dichiarazione di guerra a ogni forma di ascesi, con una canonizzazione dell’elemento «troppo umano» nell’uomo, finora denigrato e sottomesso giacché ciò che è naturale e sensibile intralciava la via verso il soprannaturale e il soprasensibile a cui si prestava fede come a un dato di fatto inconcusso. Ma il Nietzsche filosofo dell’avvenire non è più disposto a credere a lungo al fatto che una superumanità sia qualcosa di dato: essa deve infatti venir creata attraverso l’uomo stesso, e a tal fine egli non dispone di altro materiale al di fuori dell’elementare forza vitale della natura così come essa è. Non si tratta dunque più di dissolvere nel modo più completo possibile l’al di qua in un al di là più elevato, ma di carpire - nell’al di qua - tutta la pienezza di un al di là ricco, inatteso, stupendo.7 Egli assegna perciò nuovamente il diritto di esistere agli impulsi disprezzati, temuti, [199] maltrattati, alle passioni dell’uomo «naturale» non ancora messo in riga da nessuna morale. Convinto del fatto che [200] ciò non conduca a una divisione in forze buone e cattive, ma a un rafforzamento e al massimo incremento della forza vitale in generale - sicché la vita possa realizzare da sé il suo scopo supremo -, egli è disposto a concedere che « all’uomo sono necessarie le sue cose peggiori per le migliori, — che tutto quanto è peggiore in lui è anche la sua migliore

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energia e la pietra più dura per il supremo artefice; e che l’uomo deve diventare migliore e peggiore» (Così parlò Zarathustra, «Il convalescente»).Quale portavoce della vita, l’uomo deve immedesimarsi, abbandonarsi, disperdersi nella sua virtù; ma se ribattezza il proprio sé come la propria virtù, deve allora lasciarla crescere in se stesso fino a una potenza tale da farlo esplodere come un contenitore troppo angusto: deve soltanto possederla, per essere posseduto da lei. Crescendo fino a un eccesso che sprigiona una simile forza, essa inghiotte l’uomo e la sua volontà individuale nella fiamma e nel sentimento del tutto, si trasforma per lui nel ponte sul quale egli procede verso il tramonto: «L’uomo è qualcosa che deve essere superato: e perciò devi amare le tue virtù, - giacché di esse perirai» (Così parlò Zarathustra, «Delle gioie e delle passioni»). «Io amo colui l’anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le cose sono dentro di lui: tutte le cose divengono così il suo tramonto» (ivi, «Prologo di Zarathustra»).Sebbene godimento egoistico della forza e virtù possano apparire al primo sguardo dei sinonimi, in verità essi rimangono profondamente distinti tra loro. La differenza di valore tra [201] le forze e le qualità umane, che ogni morale intende solo come una differenza qualitativa, si è certo ora interamente trasferita nell’ambito della quantità, ma la dedizione volontaria ed entusiasta a questo incremento di forza che distrugge il sé contiene nondimeno una differenza di valore nell’atteggiamento. L’infamia di un determinato comportamento viene messa in rilievo allorché si afferma che non è la cattiveria la peggiore nemica della grandezza umana, ma «perché le sue cose peggiori sono così piccole! Ah, perché le sue cose migliori sono così piccole!» (ivi, «Il convalescente»). L’eccesso è la via verso il superumano, e per questo lo anticipa il grido: « Ma dov’è il fulmine che vi lambisca con la sua lingua! Dov’è la demenza che dovrebbe esservi inoculata? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è quel fulmine e quella demenza! -» (ivi, «Prologo di Zarathustra»).Ma la via che Nietzsche sceglie per raggiungere la sua meta ideale non può essere confusa con questa meta stessa; egli considera infatti il dominio degli «istinti terribili» soltanto come un mezzo di cui ha bisogno per il supremo scopo finale. Del tutto a torto e con un fraintendimento grossolano gli è stato rimproverato il fatto che il suo «superuomo» possiede i tratti di un Cesare Borgia o di un depravato essere inumano, invece di quelli di un Gesù. Ma l’essere «inumano» non è in verità il modello, ma soltanto il piedistallo per il «superuomo»; rappresenta, per così dire, il blocco di granito grezzo necessario all’innalzamento della statua di una divinità. Ma nella forma e nella sostanza questa statua divina dell’ideale del superuomo non è soltanto diversa, bensì è anche l’opposto del piedistallo. E l’antitesi è concepita in modo così profondo e marcato come non accade nemmeno nel caso della morale ascetica. Ogni morale aspira soltanto a un [202] miglioramento e a un abbellimento di ciò che è umano, mentre Nietzsche muove dal

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presupposto che debba essere creata una nuova specie, ima specie superiore.Concepisce perciò come una rottura completa, come la lotta di elementi opposti ostili, quel che finora era stato inteso come un passaggio da qualcosa di più basso a qualcosa di più alto in cui l’immagine ideale che fungeva da meta conservava i tratti tipici di ciò che è umano: quel che era soltanto una differenza di grado tra l’uomo «naturale» e l’uomo « morale » all’interno di una comune essenza umana, diventa per Nietzsche un contrasto assoluto di essenze tra l’uomo di natura e il superuomo. Si può dunque affermare che se si considera la via morale imboccata da Nietzsche, il tratto che la connota più di ogni altro è quello antiascetico, dal momento che essa non è simile al sentiero erto e pietroso della rinuncia a se stessi, ma conduce in mezzo a una foresta tropicale di godimento spensierato di sé. Se invece si osserva con attenzione la meta morale di Nietzsche, allora essa si rivela di natura interamente ascetica, dal momento che non intende soltanto elevare l’uomo, ma oltrepassarlo completamente, non soltanto purificarlo, ma superarlo [aufheben] del tutto. Da un lato dunque Nietzsche combatte la morale corrente per via del suo fondamentale carattere ascetico, per via del suo disprezzo e della sua condanna dei bassi desideri umani, a cui assegna invece un valore alto in quanto fonti di forza per l’uomo; dall’altro, tuttavia, combatte con impeto non minore la morale dominante laddove essa non è ancora per lui sufficientemente ascetica. Si rivolta contro la sua fede ottimistica secondo cui l’uomo potrebbe essere fatto avvicinare a una meta ideale attraverso una determinata forma di purificazione: l’uomo infatti, secondo Nietzsche, non ne è capace, [203] e ogni tentativo di nobilitarlo poggia su di un mero indebolimento della forza vitale elementare. «Li avevo visti nudi una volta ambedue, il più grande e il più piccolo degli uomini: troppo simili l’uno all’altro, — anche il più grande, ancora troppo umano! » (Così parlò Zarathustra, «Il convalescente»). Il tentativo compiuto da ogni morale per rendere l’essere umano simile a un essere ideale si rivela soltanto un’imitazione fittizia a danno della vera forza; ogni trasformazione morale è perciò solo ima sorta di camuffamento estetico di una natura umana infiacchita, ma peraltro completamente immutata. « Come? Un grand’uomo? Ma io non vedo che un commediante del suo proprio ideale» (Al di là del bene e del male, 97). « Cercavo uomini grandi e trovai soltanto le scimmie del loro ideale» (Crepuscolo degli idoli, « Sentenze e frecce», 39).A questa concezione pessimistica dell’uomo corrisponde il tratto di fondo radicalmente ascetico posseduto dalla meta ideale della filosofia nietzscheana: essa può infatti essere raggiunta soltanto attraverso il tramonto dell’uomo. E questo tratto fondamentale emerge in modo tanto più estremo quanto più Nietzsche si sforza di sconfessare e di ripudiare ogni forma di ascetismo. Quanto più esclusivamente si richiede fin dall’inizio la crescita della forza egoistica, tanto più immane appare, alla fine di questa evoluzione, la richiesta di rinunciare al proprio sé perché possa crearsi spazio per il superuomo. Se prima si diceva: l’uomo è qualcosa che deve diventare

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cattivo, selvaggio e crudele, alla fine si dice: «l’uomo è qualcosa che deve essere superato » - ogni forma di crudeltà e ferocia esiste solo per rivolgersi contro l’uomo e annientarlo.I due aspetti dell’etica di Nietzsche divergono in modo tanto inconciliabile da far sì che egli li raccolga in un unico precetto, [204] nella prima e unica legge morale che deve essere incisa sulle nuove tavole di valori: «Divenite duri! » (Così parlò Zarathustra, «Di antiche tavole e nuove» e Crepuscolo degli idoli, «Parla il martello»). Nella esortazione: «Divenite duri! » si mostra chiaramente il carattere ancipite della morale di Nietzsche, con i suoi tratti di crudeltà totalmente tirannica e di rinuncia ascetica. Diventare duri vuole infatti dire, in un caso, forza di resistenza contro tutti i moti dell’animo teneri e benevoli, impietrirsi in un godimento egoistico, insomma: durezza contro gli altri, buona volontà per l'esercizio di un potere dispotico; nell’altro caso, invece, significa durezza verso se stessi, vuol dire: la durezza vi rende nobili così come nobilita la pietra che l’artista trasforma in una grande opera d’arte. Tutto vi è concesso tranne una cosa: non potete cedere, non potete sbriciolarvi durante il suo lavoro altrimenti tutta la vostra umanità, per quanto in alto possa risultare agli occhi della vecchia morale, è buona solo per l’immondezzaio, è da spazzare via, è rifiuto e materiale guasto.In questa prospettiva la cosa più infame sembra la spaurita tenerezza del sentimento, la tentennante esitazione di fronte a ciò che è terribile e decisivo. Infatti, così canta Zarathustra, il creatore dell’avvenire: « La mia ardente volontà creatrice mi spinge sempre di nuovo verso l’uomo; così il martello viene spinto verso la pietra. Ah, uomini, nella pietra è addormentata un’immagine, l’immagine delle mie immagini! Ah, che essa debba dormire nella pietra più dura e più informe! E ora il mio martello infuria crudelmente contro la sua prigione. Dalla pietra un polverio di frammenti: che mi importa? » (Così parlò Zarathustra, « Sulle isole Beate»).[205] Siamo così giunti di fronte all’enigma e al mistero delle dottrine di Nietzsche, di fronte alla questione: come è in generale possibile la nascita dell’essere superumano da quello inumano se entrambi devono essere concepiti come due opposti inconciliabili. La risposta a questo interrogativo ricorda involontariamente una vecchia ricetta per la salute morale che recita più o meno così: «Per liberarsi da un difetto, gli si ceda e lo si esageri finché esso non prenda a spaventarci con la sua esagerazione e il suo eccesso». La ricetta per la salute morale che Nietzsche prescrisse all’umanità, giacché per se stesso non conosceva nulla di più efficace, presenta una certa somiglianza con essa. In effetti, attraverso lo scatenamento di tutti gli impulsi più selvaggi, egli voleva fare approdare l’uomo a ima situazione in cui il godimento egoistico, per eccesso ed esagerazione, si mutasse in un dolore per se stessi. Dal tormento di questo dolore avrebbe dovuto nascere un anelito di illimitata potenza per l’opposto di se stessi, l’anelito di quel che è forte, eccessivo, violento, per ciò che è tenero, mediocre e mite; l’anelito della bruttezza e delle brame oscure per la bellezza e la purezza luminosa, l’anelito dell’uomo straziato, posseduto dai

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suoi impulsi selvaggi, per il suo Dio. Nietzsche riteneva possibile che da un tale stato d’animo potesse effettivamente erompere il suo opposto attraverso lo strapotere di una passione. H magnanimo gli pare così « un uomo immensamente assetato di vendetta, al quale si mostra un vicino soddisfacimento cui egli già nell'immaginazione dà fondo bevendoselo a pieni sorsi, interamente, fino all’ultima goccia, a tal punto che a questa precipitosa gozzoviglia [206] segue un’enorme immediata nausea: egli ormai s’innalza “al di sopra di sé” - come si dice - e perdona il suo nemico, anzi lo benedice e gli rende onore. Con questa violenza esercitata su di sé, con questa derisione del suo ancora così potente impulso di vendetta, non fa altro che arrendersi al nuovo impulso» (La gaia scienza, 49).Ma la condizione fondamentale per potersi fare una rappresentazione attraverso il proprio sé dell’essere apparentemente superumano è che quello mantenga la forza selvaggia della sua straziante smodatezza, che non si infiacchisca, non si freni, non si mitighi o si « purifichi », per privare gli opposti della loro dolorosa tensione. Quanto più in alto si vuole giungere - fino ai fiori delicati di ciò che è bello e divino -tanto più a fondo si devono affondare le radici della propria forza nel più oscuro regno ctonio, nel proprio elemento inumano, disumano. Il superumano prodotto dall’uomo diventa così la rappresentazione di una mera parvenza divina, di una immagine istantanea per così dire, non quella della sua natura vera e propria: ma esso è realizzabile soltanto in questo modo. Dal momento che nessuna evoluzione graduale, nessuna transizione avvicina tra loro gli opposti, dal momento che essi piuttosto si condizionano e si producono proprio in virtù della loro opposizione, tra loro resterà in eterno un abisso insormontabile: da un lato la realtà degli impulsi umani spaventosamente accresciuta, caoticamente agitata; dall’altro una semplice immagine illusoria, un tenue riflesso, quasi una maschera divina dietro a cui non vi è alcuna realtà autonoma.Contro questa teoria di Nietzsche si può avanzare la stessa obiezione che egli muove alla morale corrente, di [207] accontentarsi cioè di rendere l’uomo simile a un’immagine ideale che essa gli pone davanti agli occhi: l’obiezione di avere di mira soltanto un camuffamento estetico e non una metamorfosi radicale, di abbassare così l’uomo a un semplice « commediante del suo proprio ideale ». Si tratta esattamente dello stesso aspetto che ci aveva stupito allorché esaminammo la posizione di Nietzsche nei riguardi del fenomeno ascetico: quel che egli sembra combattere fin nei suoi fondamenti, lo assume poi a fondamento delle sue teorie, ma soltanto nelle sue conseguenze e nel suo significato più estremi. Ciò che egli respinge nel modo più risoluto lungo il suo cammino, alla fine lo utilizza per annetterlo alla sua meta finale, al suo scopo. Si può anzi essere certi del fatto che dove Nietzsche si accanisce e disprezza qualche cosa con un astio tutto particolare, là vi è qualcosa che in un modo o nell’altro si nasconde nel profondo, nel cuore della sua filosofia o della sua vita. E questo vale sia per le persone, sia per le teorie.

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È lo stesso Nietzsche, peraltro, ad ammettere che l’oggetto con cui ingaggia la sua lotta ha posseduto un qualche valore come momento dello sviluppo verso la concezione da lui proposta, Nel caso in questione, ad esempio, egli ammette che l’uomo ha acquisito solo gradualmente la capacità di farsi una rappresentazione del superuomo, nell’ambito della sua evoluzione all’interno della morale dominante, dell’arte e della religione. Soltanto facendogli credere alla possibilità di nobilitare la sua natura, queste gli hanno insegnato a «divenire a tal punto arte, superficie, giuoco di colori, [...] che la sua vista non è più insopportabile» (Al di là del bene e del male, 59); gli hanno «insegnato ad apprezzare l’eroe che si cela in ognuno di tutti questi uomini quotidiani, [208] nonché l’arte di poter fissare in noi stessi, di lontano e quasi fossimo semplificati e trasfigurati, degli eroi - l’arte di “comparire sulla ribalta” in faccia a noi medesimi. Soltanto in tal modo c’è dato tirar di lungo davanti ad alcuni ignobili dettagli che sono in noi! » (La gaia scienza, 78). La differenza tra l’uomo così quale è stato finora e quello a cui Nietzsche aspira consisterebbe dunque nel fatto che quest’ultimo non si abbandona alla fede che il suo essere si sia trasformato dal momento in cui ha sviluppato in sé tratti morali, artistici e religiosi; egli rimane consapevole del fatto che, nel momento in cui conferisce visibilità all’ideale, sta creando qualcosa come farebbero un poeta o un attore. Ma questa idea può venirgli soltanto se ha raggiunto il livello di forza previsto da Nietzsche, se è « divenuto abbastanza forte, abbastanza duro, abbastanza artista» (Al di là del bene e del male, 59]; altrimenti non sarebbe in grado di reggere la verità che la sua natura è immutabile, che il suo ideale superumano è soltanto un’immagine contemplata, che la sua massima opera morale è solo un’opera d’arte. Bisogna dunque intendersi quando Nietzsche afferma: « Si potrebbe annoverare gli homines religiosi tra gli artisti, come il loro ordine più elevato » (ibidem).E' infatti dal principio artistico che sgorgano le differenze di valore etiche e religiose dotate di maggior vitalità; e l’« al di là del bene e del male » nietzscheano, come anche il suo « al di là del vero e del falso », si arresta di fronte all’« al di là del bello e del brutto » senza riuscire ad avervi accesso.Il superuomo è possibile e concepibile soltanto come opera d’arte dell’uomo. Volendosene fare un’immagine, non ve ne è forse ima migliore di quella impiegata da Nietzsche nella Nascita della tragedia dallo spirito della musica, [209] dove egli parla del rapporto tra il dionisiaco e l’apollineo nella creazione artistica. In quel passo paragona le visioni apollinee, nate dalla forza vitale orgiastica del dionisiaco, a quel noto fenomeno ottico in cui, tenendo fisso lo sguardo sul sole, davanti ai nostri occhi abbagliati si producono scure macchie colorate, quasi come un rimedio; capovolgendo questo fenomeno, Nietzsche narra di come gettando lo sguardo nell’oscurità dolorosa dell’eccesso scatenato, delle forze primordiali che si divorano l’un l’altra, in virtù di un simile effetto curativo si forma di fronte a noi l’immagine tenue e scintillante del superuomo. E come nella tragedia greca, a cui Nietzsche applica il suo paragone, le luminose immagini apollinee, cioè le

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figure eroiche della scena ellenica, erano in fondo soltanto maschere dell’unico dio Dioniso, così anche questa immagine del superuomo prodotta nello slancio creativo è soltanto l’incarnazione di una parvenza divina, un simbolo in senso artistico. Dietro a essa, in profondità abissali e in « tenebre purpuree », sta l’essere dionisiaco, la forza elementare della vita di cui questa ha sempre bisogno per rigenerarsi.Osserviamo dunque come nella filosofia di Nietzsche l’etica sconfini impercettibilmente nell’estetica - in una sorta di estetica religiosa - e come la dottrina del bene sia resa possibile dalla divinità del bello. La linea sottile lungo cui l’apparenza deve unirsi all’essere per dare forma all’ideale, fa del mondo del bello e della sua fantastica illusione un « autentico grembo materno di eventi ideali e immaginari » che ricevono l’impulso più profondo proprio dal fatto che essi restano eternamente irrealizzabili, [210] che il desiderio non può conferire loro alcuna verità o realtà essenziale.Si tratta della stessa condizione descritta da Nietzsche quando afferma che l’artista trae dalle « sue incompiutezze [...], piuttosto che dall’abbondanza della sua forza [...], un’immensa avidità di questa visione, e da questa avidità egli attinge l’altrettanto immensa eloquenza del suo desiderio e della sua fame divorante» (La gaia scienza, 79). Si deve dunque pensare alla nascita dell’illusione superumana, al mistero dell’improvvisa rinuncia e negazione di sé [Selbstaufhebung], a questa fondamentale immagine ascetica da cui procede l’etica nietzscheana, come a un fenomeno estetico, come a uno sprofondare così intenso nei tormenti dell’eccesso da far sì che da esso scaturisca il desiderio dell’opposto come una visione già contemplata e vissuta.«E da nessun altro come da te, o possente, io voglio appunto la bellezza», si dice dell’uomo forte, dotato di affetti strapotenti, « ma proprio per l’eroe la bellezza è di tutte le cose la più ardua. Irraggiungibile è la bellezza per ogni volontà violenta. [...] Questo infatti è il segreto dell’anima: solo quando l’eroe l’ha lasciata, le si avvicina, in sogno, - il super-eroe» (il superuomo) (Così parlò Zarathustra, «Dei sublimi»). In sogni beati essa balbetta: «Un’ombra venne [...] a me - la più silenziosa e lieve di tutte le cose è venuta una volta da me! La bellezza del superuomo venne a me come un’ombra» (ivi, «Sulle isole Beate»). Infatti «ogni cosa divina si muove su piedi delicati! » - «Infatti, che cosa sarebbe bello, se prima non fosse venuta a coscienza la contraddizione, se il brutto non avesse prima detto a se stesso: io sono brutto?». Nella bruttezza di questo eccesso caotico, [211] che rappresenta per l’uomo la meta dello scatenamento delle sue forze più selvagge, egli giunge infine a emettere un verdetto di condanna contro se stesso come contro colui che è brutto per natura. «È un odio che qui prorompe: [...]. Il suo odio scaturisce dal più profondo istinto della specie; in quest’odio c’è orrore, prudenza, profondità, lontananza di sguardo - è il più profondo odio che esista. E, a cagion sua, profonda è l’arte... » (Crepuscolo degli idoli, « Scorribande di un inattuale», 20). E l’arte è profonda perché attraverso quest’odio insegna all’uomo lo sconfinato struggimento per il bello

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e rende così possibile la nascita della bella parvenza dalla pienezza scatenata dell’essere reale; è profonda perché risveglia un enorme impulso verso l’idealizzazione e, attraverso la visione della bellezza, stimola la volontà umana a «procreare », sicché essa si congiunge al suo proprio opposto nell’entusiasmo della passione. La forza sfrenata viene dunque portata all’eccesso supremo soltanto perché trabocchi in un’ebbrezza entusiasta che è la condizione per la produzione creativa del bello. « L’essenziale nell’ebbrezza è il senso dell’aumento di forza e della pienezza. Di questo sentimento si fanno partecipi le cose, le si costringono a prendere da noi, le si violentano - questo processo si chiama idealizzare» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 8). «In questo stato di ebbrezza si arricchisce tutto con la propria pienezza: ciò che si vede, ciò che si vuole, lo si vede turgido, compresso, vigoroso, sovraccarico di forza. L’uomo in questo stato trasforma le cose, sino a che esse rispecchiano la sua potenza [...]. Questo dover trasformare in ciò che è perfetto è - arte» (ivi, 9).Se l’etica di Nietzsche assume un carattere in prevalenza estetizzante - giacché la metamorfosi nella perfezione risulta soltanto una bella parvenza -, [212] la sua nascita dall’impulso a divinizzare gli uomini e le cose, a risolverli nell’elemento divino al fine di sopportarli, fa sì che essa si approssimi molto alla sfera della simbologia religiosa. Intorno a questo processo psichico, Nietzsche non ha soltanto sviluppato una teoria e fornito indicazioni in diversi suoi aforismi, ma anche compiuto il tentativo di creare da sé la fondamentale opera prima in cui viene portato a compimento per la prima volta quell’alto atto creativo dell’uomo, la produzione del superuomo. Quest’opera è il suo poema Così parlò Zarathustra.La figura di Zarathustra, come una trasfigurazione di Nietzsche, come un rispecchiamento e una metamorfosi della pienezza della sua natura in una luminosa immagine divina, deve rappresentare una perfetta analogia con la nascita da lui sognata del superuomo dall’uomo. Zarathustra è, per così dire, il «super-Nietzsche». Per questa ragione l’opera possiede un ingannevole doppio carattere: da un lato essa è un poema in un senso puramente estetico e come tale può essere intesa e valutata; dall’altro vuole essere un poema solo in un senso puramente mistico, nel senso di un atto di creazione religiosa in cui l’esigenza più alta dell’etica nietzscheana trova per la prima volta la sua realizzazione. Si spiega così il fatto che, tra i libri di Nietzsche, lo Zarathustra sia quello che viene più facilmente frainteso, anche perché si ritiene che esso contenga una volgarizzazione di quel che gli altri scritti offrono in forma rigorosamente filosofica. Ma in verità, tra le sue opere, questa è quella concepita in modo meno popolare; se mai infatti [213] vi fu in Nietzsche una filosofia «esoterica» che non avrebbe mai dovuto risultare pienamente accessibile a nessuno, allora essa si trova in queste pagine, e a suo confronto tutto quel che di altro egli ha scritto appartiene alla parte più essoterica della sua dottrina.A una comprensione più profonda dello Zarathustra si giunge dunque meno seguendo la filosofia di Nietzsche che la sua psicologia, seguendo le tracce

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dei moti nascosti del suo animo che determinano le idee etiche e religiose che sono alla base della sua mistica singolare. In tal modo si vede allora come le teorie nietzscheane scaturiscano tutte dal bisogno di una redenzione di se stesso [Selbsterlösung], dall’anelito di fornire alla propria interiorità dolente e inquieta quel sostegno che il credente trova nel suo Dio. Questo desiderio e questa aspirazione violenti ottengono infine, a forza, il loro soddisfacimento: si crea il Dio, o comunque una divina entità superiore in cui viene proiettato e trasfigurato il rovescio della propria immagine.L’immagine duplice che Nietzsche fornì di se stesso, e in cui egli si contemplava come in un « secondo io », è incarnata nel suo Zarathustra, cammina con lui, per così dire, sulle sue gambe. In alcuni luoghi del poema traspare in modo bizzarro la segreta ammissione che Zarathustra non possegga una propria verità essenziale, ma che sia soltanto una creazione poetica, che sia lui stesso un poeta e un inventore: «Ma che ti disse una volta Zarathustra? Che i poeti mentono troppo? - Ma anche Zarathustra è un poeta» (Così parlò Zarathustra, «Dei poeti»). Eppure è già implicito nella concezione nietzscheana dell’ideale supremo che l’apparenza abbia il diritto di manifestarsi come essere e come essenza, anzi, che ogni verità suprema consista in un effetto apparente, nell’effetto sugli altri. Nella sua metamorfosi mistica l’uomo [214] cerca di diventare in tutto e per tutto un’illusione che seduce, che evoca struggimento e che ammaestra, a cui non si possa contrapporre nulla di superiore. Per lui vale il detto: « Chi è fondamentalmente un maestro prende sul serio ogni cosa soltanto in relazione ai suoi scolari - perfino se stesso» (Al di là del bene e del male, 63).In questo modo viene consapevolmente fornita ima giustificazione della «santa illusione», e non a caso Nietzsche afferma varie volte che il problema di cui egli si è occupato più a lungo e in maniera più approfondita è quello della pia fraus. Ma il grande « inattuale », chi dispone liberamente delle virtù di tutte le civiltà, deve lasciarsi alle spalle anche l’onestà, una virtù relativamente tarda del moderno uomo della verità, e deve farlo in vista dei suoi fini che non tollerano una coscienza indebolita. Ciò si trova espresso in modo significativo già in La gaia scienza: «In chi è ora intransigente è la stessa sua onestà a far conoscere spesso rimorsi di coscienza: l’intransigenza infatti è la virtù di un’epoca diversa da quella dell’onestà» (139). Ma a Zarathustra, il gobbo saggio che gli presta ascolto e che legge nei suoi pensieri, dice: «Ma perché Zarathustra parla a noi in modo diverso che ai suoi discepoli? » (Così parlò Zarathustra, «Della redenzione»). E Zarathustra stesso grida loro: «In verità, io vi consiglio: andate via da me e guardatevi da Zarathustra! Ancora meglio: vergognatevi di lui! Forse vi ha ingannato. [...] Voi mi venerate; ma che avverrà, se un giorno la vostra venerazione crollerà? Badate che una statua non vi schiacci» (ivi, «Della virtù che dona»).Ma quanto più ogni forma di realtà e di verità si dileguarono, quanto più l’ideale venne consapevolmente concepito come apparenza, tanto più grande divenne il desiderio nietzscheano di accordargli una verità per via

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religiosa, [215] di farne una divinizzazione mistica di se stesso. A questo punto possiamo osservare come il suo pensiero descriva un singolare cerchio intorno a se stesso: per sottrarsi all’annientamento ascetico di ogni morale egli risolve il fenomeno morale in un fenomeno estetico in cui la natura fondamentale dell’uomo permane immutata accanto alla sua luminosa figura estetica; per conferire a questa figura luminosa un significato positivo egli la innalza nella sfera del mistico, del religioso, ma è poi costretto, per dare rilievo a questa chiara antitesi, a dipingere con le tinte più fosche e dolenti la reale natura dell’uomo. Affinché l’essere superiore che redime risulti credibile, si deve inasprire al massimo il contrasto, lo si deve differenziare il più possibile dall’essere umano naturale. Ogni passaggio che possa fungere da mediazione distruggerebbe l’illusione e rinvierebbe l’uomo a se stesso; l’essere superiore diventerebbe allora un semplice sviluppo ulteriore di se stesso. Da un lato - quello umano - l’ombra deve dunque essere infittita nella stessa misura in cui dall’altro - quello superumano - la luce deve risaltare più chiara, dando a credere di essere di un genere del tutto diverso. Così nacque la dottrina secondo cui l’essere inumano è necessario per la creazione del superuomo, e soltanto dall’eccesso delle brame più selvagge emerge il desiderio del proprio opposto.A questa forma di creazione divina può essere mossa la stessa obiezione che Nietzsche ha avanzato contro la creazione divina ascetico-cristiana:_ in essa la volontà umana ha inteso «erigere un ideale [...], per acquistare una tangibile certezza della propria assoluta indegnità di fronte a lui». [216] E dunque: « Tutto ciò è di uno smisurato interesse, ma anche di una tristezza nera, fosca, sfibrante [...]. Qui c’è malattia, non v’è dubbio, la più tremenda malattia che sia infuriata sino a oggi nell’uomo - e chi ancora riesce a udire [...] come in questa notte di martirio e di assurdità ha echeggiato il grido amore, il grido del più struggente rapimento, della redenzione nell’amore, si volge altrove, colto da un raccapriccio incoercibile... Nell’uomo v’è tanto di terribile!...» (Genealogia della morale, 11, 22).Questa tendenza verso l’elemento ascetico e mistico, che proprio nella lotta contro di essi si palesa con forza come il tratto segreto della filosofia di Nietzsche, mostra nel modo più evidente come egli torni a volgersi in direzione della sua prima concezione filosofica del mondo, quella di Schopenhauer e di Wagner. E come pur ribellandosi per questioni di principio a ogni forma di mistica e di ascesi finora esistita, egli si abbandoni tuttavia in misura non minore all’influsso della scienza sperimentale e della teoria positivistica: anche in questo caso vengono alla luce in modo inconfondibile le due linee fondamentali della sua ultima filosofia. Nel suo sistema il significato mistico e ascetico della dimensione estetica non è inferiore che in quello di Schopenhauer; in entrambi esso coincide con la più profonda esperienza etica e religiosa, e non a caso Nietzsche, per spiegarlo in modo più esauriente, si richiama a pensieri e immagini della Nascita della tragedia.In Schopenhauer la contemplazione estetica viene concepita come uno sguardo mistico sullo sfondo metafìsico delle cose, [217] sull’essenza della

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«cosa in sé», il che presuppone che la vita dell’anima si sia acquietata e che, in certa misura, ogni elemento terreno sia stato tolto di mezzo. In Nietzsche - in cui lo sfondo metafisico viene meno, e in cui si tratta di crearne un sostituto muovendo dall’esuberanza delle forze vitali terrene - il presupposto psichico è esattamente il contrario: il bello deve eccitare fin nel profondo la volontà di vita, deve scatenare tutte le forze, «renderle incandescenti e stimolarle a generare »: non si tratta infatti della rivelazione metafisica di qualcosa che esiste in eterno, bensì della creazione mistica di qualcosa che non è presente; il « mistico », in Nietzsche, è dunque qualcosa di simile a una forza vitale accresciuta in modo enorme e quindi superumano. Ma proprio come in Schopenhauer l’elemento ultraterreno è il risultato dell’annullamento ascetico di quello terreno, così in Nietzsche l’esuberanza mistica della vita è possibile solo quale conseguenza del declino, dovuto a un eccesso, di tutto quel che esiste ed è umano. Ed è questo il principale punto di contatto delle due concezioni: entrambe approdano alla beatitudine della loro mistica attraverso l’elemento tragico. La nascita della tragedia dallo spirito della musica8 si è mutata in una nascita della tragedia dallo spirito della vita. La vita, come «il continuo, necessario superamento di se stessa», esige sempre il declino quale condizione fondamentale di sempre più alte creazioni. Quel che appare tragico nella prospettiva di chi è destinato al declino, viene invece colto come la beatitudine dell’inesauribile pienezza della vita dal punto di vista dell’esistenza stessa o di chi vi si [218] identifica, di chi vince su di sé, accrescendo la vita in se stesso fino alla smodatezza. Questa nuova concezione dell’elemento tragico si mostra in modo peculiare nel Crepuscolo degli idoli, dove Nietzsche discute ancora una volta il vecchio problema della Nascita della tragedia, cioè il significato dei misteri dionisiaci e il sentimento tragico dei greci.Originariamente, a suo avviso, l’orgiasmo dionisiaco era il mezzo per scaricare le passioni grazie al quale veniva creata la quiete dell’anima necessaria per contemplare le figure apollinee; ora esso è l’atto creativo della vita stessa che richiede la furia e la sofferenza per formare da essi la luce e il divino.9 Originariamente il dionisiaco testimoniava della natura profondamente pessimistica - in senso schopenhaueriano - dei greci, dal momento che nell’orgiasmo l’aspetto più intimo della vita si rivelava come oscurità, dolore e caos; ora esso gli appare come il più assetato di vita degli istinti ellenici, che poteva trovare il proprio soddisfacimento soltanto nell’eccesso, e la felicità della vita anche nel dolore, nella morte e nel caos: «Nei misteri dionisiaci [...] si esprime il fatto fondamentale dell’istinto ellenico - la sua “volontà di vivere”. Che cosa si garantivano i greci con questi misteri? La vita eterna, [219] l’eterno ritorno della vita; l’avvenire promesso e consacrato nel passato; il trionfante sì alla vita oltre la morte e la tramutazione [...]. Nella dottrina dei misteri il dolore è santificato: le “sofferenze della partoriente” santificano il dolore in generale -[...]. Affinché esista il piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi se

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stessa eternamente, deve esistere eternamente anche il “tormento della partoriente”... Tutto questo significa la parola Dioniso...» (Crepuscolo degli idoli, «Quel che devo agli antichi», 4).«Che ogni bellezza stimola alla generazione» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 22), è quel che di religioso vi è nell’arte, giacché essa insegna a creare ciò che è perfetto. L’arte più alta, cioè più religiosa, è l’arte tragica: in essa, infatti, l’artista genera il bello da ciò che è spaventoso: « Che cosa partecipa di sé l’artista tragico? Non è appunto una condizione impavida dinanzi allo spaventoso e al problematico, quella che egli manifesta? [...] Il coraggio e la libertà del sentimento di fronte a un possente nemico, di fronte a una superiore avversità, di fronte a un problema che desta raccapriccio - questa condizione vittoriosa è quella che l’artista tragico elegge e glorifica. Dinanzi alla tragedia quel che v’è di guerriero nella nostra anima celebra i suoi saturnali; chi è adusato al dolore, l’uomo eroico esalta con la tragedia la sua esistenza - a lui solo il poeta tragico offre il beveraggio di questa dolcissima crudeltà» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 24).«La psicologia dell’orgiasmo concepito come uno straripante senso di vita e di forza, all’interno del quale persino il dolore agisce come uno stimolante, mi dette la chiave per la concezione del sentimento tragico. [...]!! dire sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più gravi, la volontà di vivere [220] che, nel sacrificio dei suoi tipi più elevati, si allieta della propria inesauribilità - questo io chiamai dionisiaco, questo io divinai come il ponte verso la psicologia del poeta tragico. Non per affrancarsi dal terrore e dalla compassione, [...] bensì per essere noi stéssi, al di là del terrore e della compassione, l’eterno piacere del divenire - quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento... » (Crepuscolo degli idoli, «Quel che devo agli antichi», 5).Questa concezione dell’elemento tragico e del sentimento della vita determinato da esso fece sì che Nietzsche, proprio facendo ritorno alla filosofia schopenhaueriana del pessimismo e dell’ascesi, creasse la sua dottrina più gioiosa - la dottrina dell’eterno ritorno di tutte le cose. Per quanto il sistema nietzscheano esigesse, sia dal punto di vista filosofico sia da quello psicologico, un fondamentale tratto ascetico, esso esigeva altrettanto il suo contrario, l’apoteosi della vita, poiché in mancanza di una fede metafisica non vi era null’altro che potesse essere glorificato e divinizzato al di fuori della vita stessa, dolente e ricolma di dolore.La dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno non è mai stata messa in rilievo e apprezzata a sufficienza, sebbene in certa misura costituisca sia le fondamenta sia il coronamento dell’edificio concettuale di Nietzsche, e sia stata l’idea da cui egli ha preso le mosse nella sua concezione della filosofia dell’avvenire, così come quella con cui la concluse. Se viene presa in esame solo adesso, ciò dipende dal fatto che essa risulta comprensibile soltanto in un quadro globale e perché, di fatto, la logica, l’etica e l’estetica nietzscheane possono essere considerate come pietre per costruire la

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dottrina dell’eterno ritorno. In La gaia scienza, nel penultimo aforisma intitolato « Il peso più grande», Nietzsche aveva già espresso [221] come una congettura il pensiero di un possibile ritorno di tutte le cose nell’eterno ciclo dell’essere: « Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione - e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: “Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina”? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: “Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?” graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? » (La gaia scienza, 341).Il pensiero fondamentale viene qui alla luce in modo chiar o- in modo più chiaro e palese di quanto mai lo sarebbe stato in seguito, giacché Nietzsche non sopportava il fatto di mantenere un silenzio totale su quel che riempiva e agitava la sua mente. Ma parlare di questa nuova conoscenza lo inquietava al punto da inserire il suo pensiero del ritorno [222] come un’idea innocua tra le altre, senza dare affatto nell’occhio, sicché chi lo legge non coglie il nesso con la solenne considerazione finale: Incipit tragoedia - « così segretamente che nessuno vi badi, che nessuno badi a noi» (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione»). Esso sta dunque in mezzo agli altri pensieri - avvolto da un velo più fitto di quello degli altri - e lo spirito di Nietzsche, così ricco e felice di segreti, ha trovato di che divertirsi, malgrado la profonda inquietudine, con un raffinato scherzo di carnevale: nascondere al meglio qualcosa lasciandolo scoperto e senza veli.Già a quel tempo, di fatto, egli rimuginava quel pensiero come una fatalità inevitabile che voleva «fargli subire una metamorfosi e stritolarlo »; cercava affannosamente il coraggio di confessarlo a se stesso e agli uomini, in tutta la sua portata, come una verità irrefutabile. Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante. La quintessenza della dottrina del ritorno, la sfavillante

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apoteosi della vita che Nietzsche enunciò più tardi, costituisce un’antitesi così profonda al suo tormentato modo di sentire la vita stessa, da darci l’impressione di una maschera sinistra.Diventare l’annunciatore di una dottrina che risulta sopportabile solo nella misura in cui l’amore per la vita prende il sopravvento, che può avere un effetto esaltante solo laddove il pensiero umano [223] s’innalza fino alla divinizzazione della vita, doveva in verità rappresentare una contraddizione tremenda per il suo più intimo modo di sentire - una contraddizione che in ultimo lo ha stritolato. Tutto quel che Nietzsche ha pensato, sentito e vissuto dalla nascita del pensiero del ritorno in poi, origina da questo dissidio del suo animo, oscilla tra il « maledire digrignando i denti il demone dell’eternità della vita » e l’attesa di quell’« attimo immenso » che dà la forza di dire: « Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina! ».Quanto più in alto egli si spingeva, come filosofo, esaltando in modo totale la magnificazione della vita, tanto più profondamente soffriva, come uomo, della sua stessa dottrina. Questa lotta nel suo animo, la vera fonte di tutta la sua ultima filosofia, che i suoi libri e le sue parole lasciano immaginare soltanto in parte, riecheggia forse nel modo più toccante nella musica dell ’Inno alla vita che egli compose nell’estate del 1882, mentre si trovava con me in Turingia, nei pressi di Dornburg. Lavorando a questa musica fu interrotto da un attacco della sua malattia e ancora una volta il « dio » si mutò per lui in « demone », l’entusiasmo per la vita in tormento. «A letto. Attacco violento. Disprezzo la vita. F.N.». Così recitava uno dei biglietti10 che mi inviò quando era incatenato al suo letto. E lo stesso stato d’animo trova espressione in una lettera11 che mi scrisse poco dopo avere ultimato quella composizione: «Mia cara Lou, tutto quello che mi dice mi fa molto bene. Del resto, ho bisogno di qualcosa che mi faccia bene! [224] Il mio critico d’arte veneziano ha scritto una lettera sulla mia musica per la Sua poesia; la accludo - Lei avrà modo di pensarci. Continua a volermici la più grande risolutezza per accettare la vita. Ho molto davanti a me, su di me, dietro di me [...]. Avanti, [...] e in alto! ».A quell’epoca, come già detto, l’idea del ritorno non era ancora diventata una convinzione per Nietzsche, ma solo un timore. Aveva intenzione di darne l’annuncio nel caso fosse riuscito a fornirne una giustificazione scientifica. Ci scambiammo una serie di lettere a questo proposito e dalle affermazioni di Nietzsche emergeva sempre l’opinione erronea che fosse possibile acquisire un saldo fondamento scientifico basandosi su studi di fisica e sulla dottrina degli atomi. Fu allora che decise di studiare per dieci anni esclusivamente scienze naturali, all’università di Vienna o di Parigi. Soltanto dopo anni di silenzio assoluto, nel caso avesse riportato il temuto successo, avrebbe voluto fare la sua comparsa tra gli uomini come il maestro dell’eterno ritorno.È risaputo che le cose andarono in modo del tutto diverso. Motivi di natura interna ed esterna impedirono il lavoro che Nietzsche aveva progettato e lo spinsero di nuovo verso il Sud, nella solitudine. Ma il decennio di silenzio

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diventò il decennio più eloquente e fecondo di tutta la sua vita. Uno studio superficiale bastò a mostrargli che la fondazione scientifica della dottrina del ritorno sulla base della teoria atomistica non era realizzabile; il suo timore - che si potesse fornire una dimostrazione inconfutabile [225] dell’esattezza del pensiero fatale - non pareva trovare conferma e Nietzsche sembrò liberato dal compito di doverne dare l’annuncio, da questo destino atteso con orrore. Ma a questo punto accadde qualcosa di particolare: lungi dal sentirsi liberato da ciò che era riuscito a scoprire, adottò addirittura un comportamento opposto; nel momento in cui la paventata fatalità parve allontanarsi da lui, se ne fece risolutamente carico e portò la sua dottrina tra gli uomini; nel momento in cui la sua allarmata congettura risultò indimostrabile e insostenibile, come per magia essa acquistò per lui la solidità di una convinzione inconfutabile. Quella che doveva diventare una verità dimostrata scientificamente assunse il carattere di una rivelazione mistica, e da allora in poi Nietzsche assegnò alla sua filosofia, quale fondamento definitivo, invece di una base scientifica, l’ispirazione interiore, la sua personale ispirazione.Che cosa, nonostante le resistenze opposte dalla paura da un lato, e la mancanza di una dimostrazione dall’altro, esercitò su di lui un’influenza tale da fargli mutare avviso? Soltanto la soluzione di questo enigma ci consente di gettare uno sguardo sulla vita spirituale recondita di Nietzsche, sulle cause che originarono le sue teorie. Una nuova e più profonda significatività delle cose, un nuovo mettersi in cerca e porre domande intorno ai problemi ultimi e sommi: tutto ciò che Nietzsche come metafisico aveva avuto modo di conoscere e di cui come essere empirico avvertiva dolorosamente la mancanza, fu questo a spingerlo dentro alla mistica della sua dottrina dell’eterno ritorno. Per quanto essa potesse risultare collegata a nuovi tormenti dell’animo, per quanto potesse addirittura stritolarlo, egli preferì farsi carico del dolore della vita piuttosto che seguitare a privarla del suo aspetto divino e spirituale. [226] Al di là di questo, riusciva a venire a capo di tutti i suoi dolori: non li sopportava soltanto, ma era anche in grado di stimolare e incitare il suo spirito verso di loro poiché gli insegnavano a indagare e a cercare in modo incessante un senso, il più profondo senso recondito della vita. « Se si possiede il nostro perché della vita, si va d’accordo quasi con ogni domanda sul come» (Crepuscolo degli idoli, «Sentenze e frecce»). Ma il suo perché, lo struggimento di fondo della sua vita, non si accontentava di una risposta qualsiasi e non tollerava alcuna limitazione.Il filosofo che era in lui non bramava dunque nemmeno di venire salvato dal tormento di una dottrina che suscitava i suoi timori, bensì soltanto di divenire fecondo al suo interno, sapiente e indovino - e lo bramava con ardore tale che, anche venute meno le prove scientifiche, quell’intimo motivo seguitava a possedere forza sufficiente a fare di una vacillante supposizione una convinzione entusiasta.

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Anche il profilo teoretico del pensiero dell’eterno ritorno non viene davvero mai tracciato in modo netto; rimane tenue e vago, completamente defilato rispetto alle conclusioni pratiche, alle conseguenze etiche e religiose che Nietzsche apparentemente ne fa derivare, mentre in realtà esse ne costituiscono la premessa interna.In una delle sue prime opere, nella seconda delle Considerazioni inattuali (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), Nietzsche cita una volta, di passaggio, la filosofia del ritorno dei pitagorici come un mezzo adeguato per assegnare un significato imperituro a «ogni fatto nella sua particolarità e unicità esattamente formate» [II], [227] aggiungendo però che una dottrina del genere potrebbe aspirare a un autentico spazio nel nostro pensiero solo quando l’astronomia tornasse nuovamente a farsi astrologia. Le difficoltà teoretiche di riportare modernamente in vita questa idea antica non gli sono certo parse minori negli ultimi anni di quanto non gli parvero al tempo della sua fede nella metafisica di Schopenhauer. Ma proprio questa metafisica gli forniva allora una possente spiegazione delle cose della vita, rendendo superfluo ogni lambiccamento mistico. L’essere eterno, dietro all’enorme processo di mutamento del mondo fenomenico, che si oggettiva in ognuna delle sue forme e che in certa misura traluce quale suo senso supremo attraverso ciascuna di esse, non faceva sorgere il desiderio di assegnare a questo stesso processo un significato che andasse al di là dell’effimero, per mezzo di un’eterna ripetizione nel ciclo dell’essere.Soltanto successivamente, allorché Nietzsche rinunciò a una spiegazione metafisica del mondo e prese istintivamente a desiderarne un surrogato, quel pensiero tornò a imporsi. All’apparenza esso non attenuò affatto il pessimismo della concezione positivistica della vita, ma anzi lo accentuò ulteriormente; in virtù delle sue innumerevoli e recondite possibilità future, l’insensatezza di un divenire che procede in linea retta all’infinito parve infatti meno avvilente di una costante ripetizione di ciò che è in se stesso insensato. Ma è proprio da qui che nacque in modo caratteristico la nuova filosofia della redenzione [Erlösungsphilosophie] di Nietzsche. Proprio attraverso una messa in risalto di quel che di avvilente e sconfortante si trova in un modo sobrio e freddo di considerare la vita, proprio dalla dura costrizione a dovere ritornare ogni volta a una vita di questo genere, lo spirito umano dovrebbe risultare spronato al suo atto supremo: [228] come sferzato dal tedio e dal raccapriccio, con volontà possente esso dovrebbe dare un senso alla vita insensata, uno scopo alla contingenza del divenire, creando in questo modo da sé quei valori della vita che in effetti non sussistono.Si può così dunque affermare che Nietzsche, invece di allontanarsi dal pessimismo dello « spirito libero » e fare ritorno a una metafisica consolatoria, abbia intensificato al massimo questo pessimismo - ma che lo abbia fatto soltanto per utilizzare l’estremo disgusto e il dolore di fronte alla vita come un trampolino da cui tuffarsi nelle profondità della sua mistica.

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Il pensiero dell’eterno ritorno sembra in effetti particolarmente adatto a svolgere una simile funzione poiché si riferisce alla vita reale di ogni singolo essere umano, rivolgendosi non soltanto al pensiero che filosofeggia, ma ancor più alla volontà che crea. Porsi con il pensiero di fronte alla vita nel suo insieme come a una totalità insensata e casuale, è qualcosa di diverso dal doverla ripetere sempre di nuovo nella propria singola esistenza, in modo insensato, senza mai poterle sfuggire; la riflessione puramente astratta prende con ciò a rivolgersi alla persona, e la teoria filosofica viene fatta entrare a forza nella carne viva e sensibile come un pungolo doloroso che deve incitare alla creazione a ogni costo di una nuova speranza, di un nuovo senso, di un nuovo scopo della vita.In relazione a questo ottimismo, l’ultima filosofia di Nietzsche rappresenta l’esatto contrario della sua prima visione filosofica del mondo: la metafisica schopenhaueriana con la sua magnificazione dell’ideale buddistico dell’ascesi, dell’annientamento della volontà e del rifiuto della vita. [229] L’antica dottrina indiana di un’eterna rinascita nella trasmigrazione delle anime, come maledizione che si abbatte su chi non sia giunto sino alla negazione di se stesso, viene addirittura rovesciata da Nietzsche. Non la liberazione dalla costrizione del ritorno, ma la felice conversione a essa è infatti per lui la meta della suprema aspirazione morale; non nirvana, ma samsara è il nome dell’ideale supremo. Questa correzione dell’elemento pessimistico in uno ottimistico è la vera differenza tra il primo pensiero di Nietzsche e quello della maturità, e rappresenta nell’evoluzione di questo solitario dolente un’eroica vittoria del superamento di sé. Dal punto di vista filosofico essa è stata tuttavia preparata dal periodo positivistico intermedio in cui egli considerava sì l’esistenza in modo pessimistico, ma imparava al tempo stesso a limitarsi alla realtà della vita e a rifiutarne tutti i significati metafisici secondari. Il suo ottimismo, inteso come dottrina filosofica della vita, deriva infatti dall’accentuazione e dall’eternizzazione del fatto stesso della vita come principio supremo; ponendo sulla vita un accento così marcato da raggiungere la dimensione mistica, Nietzsche riesce a divinizzarla.Inesorabilmente presi al laccio dal ciclo della vita, legati a esso per l’eternità, noi dobbiamo imparare a dire di «sì» a tutte le sue manifestazioni per poterle sopportare; soltanto attraverso la forza e la gioia di un simile « sì» ci riconciliamo con la vita identificandoci con essa. Allora prendiamo a sentirci come una parte creativa del suo essere, anzi come questo essere stesso nella sua forza e nella sua pienezza insaziabili e traboccanti. Lamore senza riserve per la vita, basato sulla forza vitale, è quindi l’unica sacra legge morale del nuovo legislatore; l’esaltazione della vita scatenata fino all’ebbrezza [230] prende il posto dell’innalzamento religioso, anzi di un culto della divinità.A proposito di questo rovesciamento del pessimismo in ottimismo e del nuovo ideale del dire di sì al mondo, Nietzsche si esprime in questi termini in Al di là del bene e del male: « Chi come me, si è sforzato a lungo, in una

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specie di enigmatica bramosia, di pensare sino in fondo il pessimismo e di liberarlo dalla ristrettezza e dall’ingenuità, metà cristiana e metà tedesca, con cui esso si è recentemente presentato a questo secolo, vale a dire nella forma della filosofia schopenhaueriana: chi realmente [...] ha scrutato una volta ben addentro e a fondo in questo modo di pensare che è quello, tra tutti i modi possibili, più annientante riguardo al mondo - [...] costui ha forse, senza propriamente volerlo, aperto proprio con ciò gli occhi sull’ideale opposto: l’ideale dell’uomo più tracotante, più pieno di vita e più affermatore del mondo, il quale non soltanto ha imparato a rassegnarsi e a sopportare ciò che è stato e che è, ma vuole riavere, per tutta l'eternità, tutto questo, così come esso è stato ed è, gridando insaziabilmente: da capo non soltanto a se stesso, ma all’intero dramma e spettacolo, e non soltanto a uno spettacolo, ma fondamentalmente a colui che proprio di questo spettacolo ha bisogno - e lo rende necessario: poiché egli ha sempre di nuovo bisogno di se stesso - e si rende necessario — Come? e non sarebbe questo - circulas vitiosus deus? » (Al di là del bene e del male, 56).Queste parole non mostrano soltanto come per Nietzsche l’ottimismo sia in tutto e per tutto risultato dall’inasprimento e dall’esagerazione del pessimismo, ma anche in quale misura la sua nuova filosofia possegga un carattere di innalzamento religioso.Da un lato l’uomo si sente dunque misticamente aperto al mondo e alla vita intera, sicché [231] tanto la sua morte quanto la tragedia della sua vita smettono di esistere per lui; dall’altro egli personalizza e spiritualizza la totalità della vita, in sé contingente e priva di senso, elevandola così alla divinità. Mondo, Dio e Io si fondono in un unico concetto dal quale ora, come da un qualunque tipo di metafisica, di etica o di religione, il singolo individuo può far derivare una norma dell’azione e una venerazione suprema. A fare da sfondo a questo modo di vedere le cose, vi è tuttavia il pensiero che il mondo sia una finzione dell’uomo che lo crea e che nella sua divinità, vale a dire nella sua unità essenziale con la pienezza della vita, lo sa dipendente da sé e dalla propria volontà creatrice e valutante. Si chiarisce in tal modo la misteriosa affermazione contenuta nell'aforisma 150 di Al di là del bene e del male: « Intorno all’eroe tutto diventa tragedia » (vale a dire: è proprio nel momento di sua massima evoluzione che l’uomo è colui che tramonta e si immola in sacrificio); « intorno al semidio tutto diventa dramma satiresco » (vale a dire: nella sua piena dedizione alla totalità della vita l’uomo ride con superiorità del proprio destino); «e intorno a Dio tutto diventa -che cosa? “mondo”, forse? » (vale a dire: grazie alla sua completa identificazione con la vita, l’uomo non viene soltanto accolto - conciliato - nella totalità della vita stessa, ma anche questa viene tratta assolutamente in lui, sicché egli diventa il Dio che rimette a sé il mondo ed estrinseca incessantemente il proprio essere nella creazione di quello).E qui ci imbattiamo ancora ima volta nel pensiero fondamentale della filosofia di Nietzsche, quello che ha permesso la nascita della dottrina dell’eterno ritorno così come di tutte le altre: la colossale divinizzazione del

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filosofo-creatore. [232] In esso si trovano l’inizio e la fine della filosofia nietzscheana, e si può affermare che anche gli dementi più astratti del suo sistema rappresentino un tentativo di abbozzare i tratti possenti di questa figura superumana. Abbiamo avuto modo di vedere come, tanto nella logica quanto nell’etica, il filosofo-creatore venisse elevato a quintessenza della totalità della vita, come il super-genio che porta in sé ogni altra cosa. Abbiamo inoltre visto come nell’estetica di Nietzsche il suo significato venisse innalzato sino alle vette dell’elemento mistico-religioso, in modo tale da distinguersi da ciò che è meramente umano e da comprendere in sé, in quanto essere divino, l’essere dell’uomo. Ma è soltanto sulla base della dottrina dell’eterno ritorno che tutto si riunisce in un’unica gigantesca figura; solo il fatto che il corso del mondo non sia infinito, ma torni costantemente a ripetersi all’interno dei suoi limiti, offre infatti la possibilità di costruire un essere superiore in cui l’intero corso del mondo si svolge e si conclude. Solo grazie a un essere di questa sorta il corso del mondo acquisisce definitivamente un senso, una meta e un verso in direzione della creazione liberatrice del superuomo: soltanto così quest’ultima diventa qualcosa di più di un’ipotesi, diventa un fatto. In questo modo vediamo anche come Nietzsche non porti avanti la più fondamentale e al tempo stesso la più mistica delle sue dottrine, per così dire, a proprio nome, ma a nome del suo Zarathustra; non sono il pensatore e l’uomo che la devono sostenere, ma colui a cui è stato conferito il potere di tramutarla in una redenzione che riempie di gioia.12 E se mai una volta, nei suoi aforismi, Nietzsche sfiora [233] il pensiero del ritorno, allora si fa muto con un gesto di sgomento e timore reverenziale: [234] «- Ma che cosa sto dicendo ora? Basta! Basta! A questo punto una cosa sola a me si conviene, il silenzio: altrimenti mi arrogherei ciò che unicamente a chi è più giovane è consentito, a un “venturo”, a uno più forte di quanto sia io - ciò che unicamente è consentito a Zarathustra, a Zarathustra il senza Dio... » (Genealogia della morale, II, 25).Anche l’importanza della figura di Zarathustra per l’animo di Nietzsche si palesa interamente nel momento in cui questa fa la sua comparsa per affermare la dottrina dell’eterno ritorno; egli la credeva contenuta in se stesso come un essere mistico, separata però dalla sua forma di esistenza naturale e umana in quanto Nietzsche. Nel suo aspetto esteriore contingente, legato al tempo, condizionato dalle circostanze e dalle peripezie della sua vita transitoria, Nietzsche si considerava infatti un «decadente» come gli altri, meritevole di perire e quindi a ciò destinato. [235] D’altro canto, però, si riteneva il medium, necessariamente predisposto alla malattia, attraverso cui l’eternità di tutti i tempi diventa consapevole di se stessa e del proprio senso, il genio dell’umanità fattosi carne in cui il passato scioglie per il presente l’enigma di ogni futuro. Credeva così di impersonificare ciò che aveva descritto come il significato più alto della decadenza umana: si sentiva malato dei dolori del parto che spettano a un essere superumano, a qualcuno che deve tramontare e spezzarsi in favore di una nuova e suprema creazione che avrebbe redento il

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mondo: « Per essere il figlio di nuovo generato, colui che crea non può non volere essere anche la partoriente e non volere i dolori della partoriente» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»).Zarathustra è quindi il fanciullo e al contempo il Dio di Nietzsche, l’atto o la creazione artistica di un singolo individuo così come l’unione di questo singolo con tutta l’evoluzione dell’uomo, con il senso stesso dell’umanità. Zarathustra è «creatura e creatore», «il più forte, il più venturo», colui che sovrasta le dolenti sembianze umane di Nietzsche -è il «super-Nietzsche». Dalla sua bocca, perciò, non parla soltanto l’esperienza e l’intelligenza di un singolo uomo, ma la coscienza stessa dell’umanità fin dalle sue origini più remote; di qui le sue parole: « Io non sono di quelli a cui si possa chiedere il loro perché. Forse che l’esperienza della mia vita risale a ieri? E' un pezzo che ho vissuto i motivi delle mie opinioni. Non dovrei essere un tino colmo di memoria, se volessi avere con me anche i miei motivi? » (Così parlò Zarathustra, «Dei poeti»).Nasce così un affascinante gioco intellettuale in cui Nietzsche e il suo Zarathustra sembrano trascorrere senza tregua l’uno nell’altro [236] e poi separarsi di nuovo. Ciò risulta pienamente chiaro a chi è a conoscenza di quanti siano i dettagli assolutamente personali in cui Nietzsche ha introdotto di soppiatto se stesso nel suo Zarathustra, e fino a quale estasi visionaria s’innalzasse per lui tutto questo mistero. Su questa base si spiega anche l’inaudita consapevolezza con cui egli parla di questo suo libro e che gli fece una volta proclamare queste parole: « Un libro così profondo, così estraneo, che averne comprese, vale a dire vissute, sei frasi, eleva a un rango superiore tra i mortali».13

Se il poema di Zarathustra era per Nietzsche l’opera attraverso cui da un essere umano era nato un essere superumano, allora egli può ben avere pensato che il suo capolavoro rimasto inedito e portato a compimento solo per la prima parte, La volontà di potenza, fosse stato in certo qual modo creato dalla figura di Zarathustra, creato cioè da un essere eterno e libero, al quale solo può riuscire una « trasvalutazione di tutti i valori », poiché si trova al di fuori di ogni tempo e di ogni sorta di influsso, come colui che è indipendente per antonomasia, che comprende e abbraccia in sé ogni cosa. In questo modo soltanto deve essere intesa l’affermazione di Nietzsche: «Ho dato all’umanità il libro più profondo che essa possegga, il mio Zarathustra: e tra breve le darò il libro più indipendente» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 51). Nel caso del primo libro l’essere superumano è sorto dagli abissi dell’umanità di Nietzsche, nel caso del secondo aleggia già libero, creando al di sopra di essa.Quanto la figura di Zarathustra è concepita in modo mistico e misterioso anche per quel che riguarda il suo significato mondano, tanto rigorosa è invece la logica con cui essa aderisce con le sue forme alle argomentazioni di Nietzsche sulla natura del genio, della libertà del volere e del carattere atavico come ciò che determina l’avvenire. [237] L’esame di queste teorie ha mostrato come esse abbiano tutte di mira la possibile creazione di un essere

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superiore; ed è interessante osservare come già in precedenza si fossero destati in Nietzsche pensieri affini che successivamente, dopo avere attraversato il suo primo periodo filosofico ed essersi fatti largo all’interno della sua concezione positivistica del mondo, sono infine tornati a nuova vita nella sua ultima fase.Già secondo Schopenhauer il genio dell’etica e dell’estetica coglie il senso e il fondamento essenziale del mondo intero e dell’umanità: ogni genio che riesce in questo possiede lo stesso valore. Senso e fondamento essenziale significano però in questa prospettiva il tralucere dell’essere eterno, la cosa in sé metafisica completamente staccata dalla storia reale dell’evoluzione del mondo e degli uomini. Nietzsche, al contrario, che prescinde da queste concezioni metafisiche, ha bisogno che il genio si manifesti in un essere superiore unico e isolato, che esclude una gran quantità di suoi simili e che comprende in sé le manifestazioni effettive del mondo e dell’umanità. A proposito del pensiero di Schopenhauer - e variandolo in senso positivistico - Nietzsche dichiara: « Se la genialità, secondo l’osservazione di Schopenhauer, consiste nel ricordare in modo organico e vivo ciò che si è vissuto, allora nello sforzo di conoscere l’intera evoluzione storica [...] potrebbe essere da individuare uno sforzo verso la genialità dell’umanità nel suo complesso. Il completo ripensamento della storia sarebbe autocoscienza cosmica» (Umano, troppo umano, 11, 185). A ciò vanno anche affiancate alcune affermazioni di La gaia scienza. Innanzi tutto l’aforisma «Historia abscondita»; «Ogni uomo grande è dotato di una [238] forza agente a ritroso: in virtù sua tutta la storia è rimessa sulla bilancia e mille segreti del passato strisciano fuori dai loro nascondigli per insinuarsi nel suo sole» (La gaia scienza, 34). Quindi: « Chi sa sentire la storia degli uomini nella sua totalità come la sua propria storia, prova, generalizzando enormemente, tutto quell’angoscioso struggimento dell’infermo che pensa alla salute, del vegliardo che rammemora i sogni giovanili, dell’amante che è strappato all’amata, del martire che assiste al tramonto del proprio ideale, dell’eroe, la sera della battaglia che non ha deciso nulla, e che tuttavia gli ha recato ferite e la perdita dell’amico; ma portare questo cumulo immenso d’afflizioni d’ogni specie, poterlo portare, ed essere pur sempre ancora l’eroe che, allo spuntar di un secondo giorno di battaglia, saluta l’aurora e la sua felicità, essendo l’uomo che ha un orizzonte di millenni davanti e dietro di sé, l’erede di ogni tratto aristocratico di tutto lo spirito passato, erede gravato di obblighi; essendo il più nobile di tutti i nobili dell’antichità, e al contempo il capostipite di una nobiltà nuova, di cui nessun tempo vide e sognò l’eguale: prendere tutto questo sulla propria anima, il più antico come il più nuovo, le perdite, le speranze, le conquiste, le vittorie dell’umanità, possedere infine tutto ciò in una sola anima e tutto insieme stringerlo in un unico sentimento - questo dovrebbe avere come risultato una felicità, che finora l’uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e d’amore, di lacrime e di riso, una felicità, che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole,

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soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d’oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe allora - umanità! » (La gaia scienza, 337).[239] Ma la genialità umana, secondo Nietzsche, viene cagionata in misura sempre minore dalla conoscenza o dall’avere acquisito una sensibilità per ciò che è storicamente avvenuto; la pienezza degli eventi si trova già nell’uomo e può essere rievocata e riportata alla coscienza attraverso una più profonda immersione in se stessi. Già in Umano, troppo umano Nietzsche menziona quella proprietà delle passioni di ridestare in noi cose assopite che appartengono a vicende passate: «Tutti gli stati d’animo più forti portano con sé una risonanza di sentimenti e disposizioni affini: essi sommuovono per così dire la memoria» (I, 14). Ma ciò non vale soltanto per il passato individuale con le sue passioni, ma anche per pensieri e sensazioni andate perdute nel corso dell’evoluzione dell’umanità; l’individuo ne è infatti un prodotto e ne contiene in sé i differenti gradi in modo duraturo. A ciò si riferisce l’aforisma «La coscienza dell’apparenza», contenuto in La gaia scienza: «In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo ed ironico mi sentivo posto con la mia conoscenza dinanzi all’esistenza tutta! Ho scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il tempo dei primordi e l’intero passato di ogni essere sensibile, continua dentro di me a meditare, a poetare, ad amare, ad odiare, a trarre le sue conclusioni, - mi sono destato di colpo in mezzo a questo sogno, ma solo per rendermi cosciente che appunto sto sognando e che devo continuare a sognare se non voglio perire: allo stesso modo in cui il sonnambulo deve continuare a sognare, per non piombare a terra. Che cos’è ora, per me, “apparenza”! In verità, non l’opposto di una qualche sostanza: che cos’altro posso asserire di una qualche sostanza, se non appunto i [240] soli predicati della sua apparenza? In verità, non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una x sconosciuta, e pur anche togliere! Apparenza è per me ciò stesso che realizza e vive, che va tanto lontano nella sua autoderisione da farmi sentire che qui tutto è apparenza e fuoco fatuo e danza di spiriti e niente di più; che tra tutti questi sognatori anch’io, l’“uomo della conoscenza”, danzo la mia danza; che l’uomo della conoscenza è un mezzo per tirare in lungo la danza terrena ed in questo senso fa parte dei soprintendenti alle feste dell’esistenza; e che la sublime consequenzialità e concomitanza di tutte le conoscenze è, forse, e sarà il mezzo più alto per mantenere l’universalità delle loro chimere di sogno e la generale comprensione reciproca di questi sognatori e con ciò appunto la durata del sogno» (La gaia scienza, 54).Qui Nietzsche ha già operato quella svolta che rappresenta il passaggio alla sua mistica. In questa nuova prospettiva il mondo è diventato per lui una finzione dell’uomo della conoscenza il quale, se si desta come da un sogno di sonnambulo e diventa consapevole della finzione, può ben sentirsi il signore e il creatore che decide imperiosamente il senso di questa apparenza e di questo sogno. Trasformato dall’immagine mistica che il ridestarsi dal sogno

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della vita sia come un’azione creatrice che redime il mondo, lo stesso pensiero ritorna in seguito in veste magnificamente poetica nel canto dell’«antica pesante campana dal cupo rimbombo» che, a mezzanotte in punto, annuncia con dodici rintocchi il nuovo giorno di chi si è ridestato:

Uno!Uomo! Sii attento!

Due!Che dice la mezzanotte profonda?

[241] Tre!«Io dormivo, dormivo -,

Quattro!Da un sogno profondo mi sono risvegliata: -

Cinque!Profondo è il mondo,

Sei!E più profondo che nei pensieri del giorno.

Sette!Profondo è il suo dolore -,

Otto!Piacere - più profondo ancora di sofferenza:

Nove!Dice il dolore: perisci!

Dieci!Ma ogni piacere vuole eternità -,

Undici!Vuole profonda, profonda eternità! ».

Dodici!

                                           (Così parlò Zarathustra, «La seconda canzone di danza»).L’elaborazione finale di queste idee presenta nuovamente forti reminiscenze del periodo schopenhaueriano di Nietzsche e della filosofia indiana, ma sempre con la tipica variazione in base alla quale la meta finale, così come la via per raggiungerla, devono essere ricercate nell 'incremento della vita

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invece che nell’esaurimento della vita stessa. Ma che questi due modi di avvertire il problema dell’esistenza risultino tuttavia vicini tra loro, dipende non da ultimo dal fatto che, secondo le interpretazioni più recenti, anche la filosofia indiana - questa espressione estrema di una filosofia che annienta il mondo - [242] non aspira propriamente alla liberazione dalla vita, ma soltanto alla redenzione dal dover-morire-sempre-di-nuovo che segue dalla trasmigrazione delle anime. Essa in fondo non è se non una forma di paura della morte che nelle altre religioni ha trovato espressione nel motivo della fede nell’immortalità; una paura che può essere placata altrettanto bene se si viene sollevati all’eternità della vita attraverso ima piena identificazione del singolo con la forza e la pienezza della vita stessa nel suo insieme, così come se vengono meno e si dileguano tutti gli istinti vitali a cui sono indissolubilmente legati morte, estinzione, trapasso.14

Ma il fascino che possedevano per Nietzsche un’interpretazione mistica della condizione onirica e una concezione della coscienza cosmica come coscienza onirica, [243] aveva anche una motivazione personale. Per lui, infatti, si trattava di qualcosa di più di una semplice metafora o di un’analogia, giacché era convinto del fatto che, specialmente nelle situazioni di ebbrezza e di sogno, potesse essere ridestata al presente la gran quantità di passato racchiusa nell’uomo. I sogni ebbero sempre un ruolo importante nella sua vita e nel suo pensiero, e negli ultimi anni di attività ricavò sovente da essi, come decifrando un enigma, il contenuto delle sue dottrine. In questo modo utilizza ad esempio il sogno narrato in Così parlò Zarathustra («L’indovino»), un sogno che egli aveva fatto a Lipsia nell’autunno del 1882 e che non si stancava mai di rimuginare e di interpretare. Un’interpretazione acuta o che si sposava felicemente al sentimento del sognatore era quindi in grado di farlo contento e addirittura di redimerlo.Si spiega dunque così il fatto che avesse cominciato a interessarsi presto a questo tema, pur rifiutando quelle interpretazioni azzardate che avrebbe in seguito prediletto. Di ciò egli ha parlato in diversi passi di Umano, troppo umano, come ad esempio nell’aforisma «Sogno e civiltà» (I, 12) e in quello «Logica del sogno» (1, 13). In queste pagine ritiene ancora che l’intrico e il disordine delle rappresentazioni nel sogno, la mancanza di chiarezza, di logica e di una corretta successione delle cause che contraddistinguono la nostra maniera di dedurre e di valutare mentre dormiamo, rammentino la condizione dell’umanità primitiva che, così come ancora ai giorni nostri i selvaggi, ha agito anche nello stato di veglia come noi oggi nel sogno. In Aurora, al contrario, egli non fa più menzione di una simile analogia, ma addirittura della possibile riproduzione nel sogno di un pezzo di passato. E in La gaia scienza il sogno s’innalza qua e là [244] a rappresentazione positiva della vita e del passato del mondo nel singolo individuo.A questo punto bastava un passo per giungere a un terzo pensiero che riassumesse in sé i due che lo precedevano, quello secondo cui nel sogno viene riprodotto il passato e quello che vuole che il mondo intero e

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l’evoluzione della vita siano filosoficamente da paragonare a una finzione onirica. Dalla unione di questi due pensieri risultò che il sogno era, in determinate occasioni, il tornare a vivere di tutta la vita che fu - e la vita, a sua volta, nella sua natura più recondita, un sogno il cui senso e significato spetta a noi, che siamo desti, determinare. La stessa cosa vale per tutte le situazioni affini a quella onirica, per tutte quelle situazioni che possono condurre sufficientemente in profondità nel caos, nell’oscurità e nell’imperscrutabilità del fondo della vita, - e non solo dell’umanità finora esistita, ma ancora più a fondo fino a ciò da cui essa è originata. E poiché a tal fine la quiete del sogno non è sufficiente, vi è bisogno di vivere un’esperienza più reale e tremenda, quale il caos di passioni sconvolte e di orge dionisiache; persino la follia, come uno sprofondare di nuovo nell’intrico dei sentimenti e delle immagini, pare a Nietzsche l’ultima via per raggiungere profondità primordiali di strati trascorsi di umanità che giacciono in noi.Nietzsche aveva cominciato presto a lambiccarsi il cervello sull’importanza della follia come possibile fonte di conoscenza e sul significato che poteva essere riposto nel fatto che gli antichi vedessero in essa un segno di elezione. A tal riguardo, in La gaia scienza egli dichiara: « Solo chi spaventa - dirige», e in Aurora si trovano queste parole degne di nota che riportano alla mente la sua successiva idea di un genio dell’avvenire [245] che incarna in sé tutto il passato dell’umanità: « Nelle esplosioni della passione e nei vaneggiamenti del sogno e della follia, l’uomo riscopre la sua preistoria e quella dell’umanità [...]; la sua memoria affonda, allora, abbastanza lontano nel passato, mentre la sua condizione di civilizzato si evolve a partire dall’oblio di quelle esperienze originarie, dunque dall’indebolirsi di quella memoria. Chi, come un immemore di altissima schiatta, è restato sempre molto lontano da tutto questo, non comprende gli uomini » (Aurora, 312).A quel tempo, tuttavia, anche Nietzsche desiderava essere un « immemore », giacché cercava ancora la grandezza umana nell’«uomo della conoscenza privo di passioni» e in quel che è « nato dalla ragione ». A quel tempo riteneva ancora un equivoco crudele dei tempi passati il fatto che a essi la follia fosse così sovente parsa inseparabile dalle grandi conoscenze: «Se [...] nonostante tutto questo irruppero sempre, ancora una volta, pensieri, valutazioni, istinti nuovi ed irregolari, ciò avvenne con un accompagnamento che mette i brividi: quasi ovunque è la follia che ha aperto la strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile consuetudine e di una superstizione. Comprendete voi perché dovette essere la follia? Qualcosa nella voce e nei gesti, così raccapricciante e imprevedibile [...]? Qualcosa che portava il segno di un’assoluta irresponsabilità [...], qualcosa che parve in tal modo caratterizzare il folle come maschera e stetoscopio di una divinità? [...] Facciamo ancora un passo avanti: a tutti quegli uomini superiori che erano irresistibilmente attratti ad infrangere il giogo di una qualche eticità e a dare nuove leggi non restò nient’altro, se essi non erano realmente folli, che diventare pazzi o [246] farsi passare per tali [...]

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». «“Come si può fare i pazzi, se non lo si è [...]?”. Di questo terribile ordine di idee erano preda quasi tutti gli uomini importanti della civiltà più antica [...]. Chi osa gettare uno sguardo nello squallore delle più amare e più inutili tribolazioni interiori, nelle quali probabilmente sono andati languendo gli uomini più fecondi di tutti i tempi? Chi osa ascoltare quei sospiri degli uomini solitari e sconvolti? “Ahimè, datemi dunque la follia, voi celesti! Follia, perché possa finalmente credere in me stesso! Datemi deliri e spasimi, luci e tenebre improvvise, terrorizzatemi con gelo ed arsura, quali nessun mortale ha ancora mai provato, con frastuoni e girovaganti fantasmi, lasciatemi urlare e guaire e strisciare come una bestia: purché possa trovar la fede in me stesso! Il dubbio mi divora, io ho assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tormenta un uomo vivo; se io non sono più che la legge, sono il più reietto di tutti gli uomini (Aurora, 14).Come in Aurora vengono spesso chiariti o confutati pensieri che hanno già preso ad agire in segreto su Nietzsche, così anche questa descrizione mostra in quale misura gli stati di ebbrezza gli sarebbero successivamente sembrati la prova di una condizione eletta. Egli muoveva dallo sconforto e dall’orrore per tutto ciò che esiste, da una caricatura della realtà che era nata in lui da una caricatura del positivismo, e voleva creare al loro posto qualcosa di nuovo e di magnifico. Ma dal momento che questa creazione poggiava esclusivamente su Nietzsche, essa stava e cadeva insieme alla sua fiducia - in sé non aveva alcuna sussistenza. I dubbi che lo angustiavano dovevano perciò essere migliaia, [247] non appena si perdeva d’animo anche solo per un momento; implacabile purtuttavia il desiderio, in questa umanità vacillante e dubbiosa, di distinguere se stesso da un essere sicuro di sé da un’eternità, di distinguere Nietzsche da Zarathustra: se al primo potevano toccare in sorte anche le cose più tremende nel tramonto che il tempo gli assegnava, per il secondo ciò era un segno di elezione e di innalzamento; se il primo poteva dover sprofondare in una condizione di terribile caos sino a divenire una bestia, per il secondo ciò era soltanto l’espressione di una capacità di tenere tutto in sé, anche quel che è infimo e profondissimo. E' questo il senso in cui, nel Crepuscolo degli idoli («Sentenze e frecce», 3), si afferma che il filosofo di rango più alto è una sorta di unione di bestia e di dio, e un pensiero simile si trova anche nell’affermazione sull’uomo della conoscenza come filosofo-creatore: «Ogni uomo della conoscenza desidererebbe volentieri sentirsi l’imbestialimento di un dio» (Al di là del bene e del male, 101). Ebbene sì, questa infima maschera potrebbe essere la forma più adeguata con cui ciò che è più alto si presenta agli uomini, giacché in essa non si umilierebbe e riuscirebbe a nascondere in modo efficace il proprio splendore: «Non dovrebbe essere soprattutto l’antitesi il giusto travestimento con cui incede il pudore di un dio? » (Al di là del bene e del male, 40).Qui ci imbattiamo nell’ultimo tentativo di nascondersi da parte di Nietzsche - per un’ultima volta il suo desiderio di una maschera. All’apparenza essa dovrebbe nascondere il Dio sotto una veste troppo umana, mentre in realtà

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essa poggia sul commovente bisogno di interpretare in modo diverso il destino terribile che minacciava lo spirito umano di Nietzsche, di farne un destino divino al fine di sopportarlo, Nell’aforisma «Ecco una libera prospettiva» Nietzsche accenna al fatto che [248] può significare grandezza d’animo «non aver paura di quanto vi è di più indegno [...] Una donna che ama sacrifica il suo onore: un uomo della conoscenza che “ama”, sacrifica forse la sua umanità; un dio, che amava, divenne ebreo...» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 46).Vediamo così il sacrificio e la violenza su di sé, il voluto tormento della discordia, non soltanto elevati fino alle sommità dello spirito, ma tratti dentro a quel che vi è di più personale. L’intero corso dei pensieri di Nietzsche culmina sempre più in un atto di autodistruzione tramite il quale, agendo e soffrendo di persona, ha luogo la redenzione. Se era possibile seguire distintamente il modo in cui la vita interiore di Nietzsche si esprimeva in forme filosofiche nella sua dottrina dell’avvenire, siamo ora invece giunti al punto in cui la sua filosofia torna a mutarsi nella più personale delle sue esperienze, in ossequio alla frase: «Io ribevo in me stesso le fiamme che da me erompono » (Così parlò Zarathustra, « Il canto della notte»). E se i tratti di fondo del suo pensiero erano soltanto linee che, invece che in un sistema astratto, andavano a congiungersi nei colossali contorni di una figura divina, in un’autoapoteosi mistica, la felicità di chi ha fatto di se stesso un dio si rovescia ora nella tragedia di una vita semplicemente umana. L’atto con cui Zarathustra redime il mondo è al contempo quello del tramonto di Nietzsche; il diritto divino con cui Zarathustra interpreta la vita e compie una trasvalutazione di tutti i valori viene acquisito soltanto al prezzo di penetrare in quel fondo primordiale della vita che nell’esistenza umana di Nietzsche si configura come l’oscuro abisso della follia. «Ma chi è della mia specie,» dice Zarathustra «non sfugge a una tale ora: l’ora che gli dice: “Soltanto adesso ti incammini per il tuo sentiero della grandezza! [249] Vetta e abisso - è ora saldato in unità!”» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»). L’orrore di Zarathustra dinanzi a questo imperscrutabile affondare, di fronte a questo « pensiero abissale », è al contempo l’orrore di Nietzsche di fronte al suo personale destino; senza più possibilità di distinzione, entrambi si fondono in quel poema che altro non è se non la descrizione trasfigurata della vita di Nietzsche, del supernietzscheanesimo.«Così tutto mi gridava con segni: “è tempo! Ma io - non sentivo: finché il mio abisso sussultò e il mio pensiero mi morse. Ah, pensiero abissale, che sei il mio pensiero! Quando troverò la forza di sentirti scavare, senza più tremare? Il cuore mi batte fino in gola, quando ti sento scavare! E anche il tuo silenzio vuol strangolarmi, tu che taci dall’abisso! Mai ho tentato fino ad oggi di evocarti in alto: è già molto che io ti abbia - portato con me! » (Così parlò Zarathustra, «Della beatitudine non voluta»).Bisogna tenere a mente queste parole toccanti quando si legge la descrizione dell’«ora senza voce», in cui è la vita stessa che ordina a Zarathustra di vivere e annunciare i suoi pensieri - la vita sorridente e

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contenta di sé, che ride del dolore del singolo poiché nella sua pienezza è beatitudine: « Fino alla punta dei piedi egli è spaventato, perché sente mancargli il terreno sotto i piedi e il sogno incomincia. Questo vi dico come una similitudine. Ieri, nell’ora senza voce, sentii mancarmi il terreno sotto i piedi: il sogno incominciò. La sfera avanzava, l’orologio della mia vita riprendeva respiro mai avevo udito un tale silenzio attorno a me: tanto che il mio cuore ne fu atterrito. Allora sentii parlarmi senza voce: “Lo sai Zarathustra?”. E io urlai atterrito da questo sussurro, esangue si fece [250] il mio viso [...]. Ecco che sentii risate intorno a me. Ahi, come queste risate mi dilaniavano le viscere e spaccavano il cuore! [...] E di nuovo risate che si dileguavano: e tutto divenne silenzioso intorno a me, in un silenzio duplice. Ma io giacevo a terra, le membra madide di sudore» (Così parlò Zarathustra, «L’ora senza voce»).A ciò si lega il capitolo intitolato «Il convalescente»: «Un mattino [...] Zarathustra saltò dal suo giaciglio come un folle, gridando con voce terribile e comportandosi come se nel giaciglio fosse qualcun altro,15 che non voleva alzarsi [...]. Ma Zarathustra disse queste parole: “Vieni su, pensiero abissale, dalla mia profondità! Io sono il tuo gallo nel grigiore dell’alba, insetto dormiglione: su! su! La mia voce dovrà pure svegliarti col suo canto del gallo! Togli i chiavistelli ai tuoi orecchi: ascolta! Perché io ti voglio ascoltare! Su! Su! Qui sono tuoni abbastanza, perché anche i sepolcri16

imparino ad ascoltare! E stropiccia via dai tuoi occhi il sonno e ogni ottusità e cecità! Ascoltami anche con gli occhi: la mia voce è una medicina anche per ciechi nati. E quando sarai sveglio, mi rimarrai sveglio in eterno. Non è alla mia maniera, svegliare dal loro sonno le bisnonne, perché poi dica loro di - continuare a dormire!17 [251] Tu ti agiti, ti stiri, rantoli? Su! Su! Non rantolare - parlare, invece, tu devi a me! È Zarathustra che ti chiama, il senzadio! Io, Zarathustra, l’avvocato della vita, l’avvocato del dolore, l’avvocato del circolo — io chiamo te, il più abissale dei miei pensieri! Salute a me! Tu vieni - io ti odo! Il mio baratro parla, la mia estrema profondità io l’ho rovesciata alla luce! Salute a me! Avanti! Qua la mano — ah! lascia! ah, ah! — Schifo, schifo, schifo - - - guai a me! ».L’immagine della follia si trova alla fine della filosofia di Nietzsche come un’illustrazione abbagliante e tremenda delle argomentazioni gnoseologiche da cui egli aveva preso le mosse nella sua filosofia dell’avvenire. Il suo punto di partenza era infatti rappresentato dalla dissoluzione di ogni elemento intellettuale attraverso il predominio della dimensione caotica e istintuale che ne costituisce la base e il senso; ma le conseguenze della gnoseologia nietzscheana si spingono fino alla scomparsa dell’uomo della conoscenza quale condizione affinché si possa comprendere la suprema rivelazione della vita, fino alla « demenza che dovrebbe essere inoculata » in ogni forma di conoscenza intellettuale. Nelle parole di Zarathustra si confondono così in modo toccante il presentimento del destino personale che lo attende e la concezione mistica della vita spirituale e del suo significato in generale: « Spirito è la vita che taglia nella propria carne: nel suo patire essa accresce il

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suo sapere - lo sapevate? E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? E anche la cecità del cieco e il suo cercare e brancolare deve testimoniare la possanza del sole in cui egli guardò - lo sapevate? » (Così parlò Zarathustra, «Dei saggi illustri»).[252] La follia doveva dunque testimoniare ancora della potenza della verità della vita, il cui splendore acceca lo spirito umano. Nessun intelletto conduce infatti nelle profondità della pienezza vitale - né ci si può arrampicate fino a essa grado per grado, pensiero per pensiero: «E se ormai ti sono venute a mancare tutte le scale, bisogna che tu sappia salire sul tuo capo: come potresti altrimenti salire in alto? [...] Tu però, Zarathustra, hai voluto vedere il fondo e il sottofondo di tutte le cose: e già questo ti obbliga salire al di sopra di te stesso - sempre più in alto, finché anche le tue stelle si trovino al di sotto di te!» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»).Con ciò sembra che si sia giunti alla fine e che tutta l’evoluzione si sia necessariamente conclusa: lo slancio appassionato e insaziabile che muoveva e spingeva verso l’alto questo spirito lo ha infine consumato e inghiottito di nuovo. Per noi, che lo osserviamo dall’esterno, lo avvolge da ora in poi la completa oscurità della notte; egli fa il suo ingresso in un mondo di esperienze esclusivamente individuali dinanzi al quale anche i pensieri che lo accompagnavano devono arrestarsi: su tutto prende a regnare per noi un silenzio che ci tocca nel profondo. Ma non si tratta soltanto del fatto che non possiamo più seguire il suo spirito nell’ultima metamorfosi che egli realizza con il sacrificio di sé; noi non dobbiamo più seguirlo: proprio in ciò risiede per lui la conferma della sua verità che è diventata un tutt’uno con i segreti e i misteri della sua vita interiore. Si è ritirato nella sua ultima solitudine chiudendosi la porta alle spalle. Su di essa risplendono le parole: « Ora è diventato tuo estremo rifugio ciò che in passato si chiamò il tuo pericolo estremo! [...] Ora bisogna che [253] il tuo coraggio migliore consista nel non esserci alle tue spalle più alcun altro sentiero! [...] Qui nessuno deve venirti dietro di nascosto! Il tuo piede stesso ha cancellato dietro di te il sentiero, sul quale sta scritto: impossibilità» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»).E quale unica prova che anche dietro a quella porta vi sia un mondo di metamorfosi spirituali a noi inaccessibile, dall’interno si ode smorzarsi un lamento: «Ahimè, ahimè sono obbligato a salire su per il più duro dei sentieri! Ahimè, ho dato inizio alla più solitaria delle peregrinazioni! [...] Or ora è cominciata l’ultima mia solitudine. Ah, il mare nero e mesto sotto di me! Ah, la gravida irrequietezza della notte! Ah, destino e mare! A voi ora devo discendere, in basso\ [...] - più a fondo nel dolore di quanto non sia mai disceso, fin dentro il suo flutto più nero! Così vuole il mio destino: orsù! Io sono pronto! Donde vengono le montagne più alte? chiedevo in passato. E allora imparai che esse vengono dal mare. Questa testimonianza sta scritta nelle loro rocce e nelle pareti delle loro cime. Dall’abisso più fondo, la vetta più alta deve giungere alla sua altezza» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»).

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Profondità e altezza, abisso della follia e vetta del senso della verità sono ora saldati tra loro: « Il monte dalla cima più alta [...] mi attende: per questo debbo, prima ancora, discendere più in basso di quanto non sia mai disceso» (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»). La suprema divinizzazione di sé festeggia la sua completa vittoria mistica solo nell’annientamento più profondo, nella resa e nel tramonto dell’uomo della conoscenza. Dei due animali simbolici che sono intorno a Zarathustra, il serpente della conoscenza e dell’intelligenza e l’aquila dell’ambizioso orgoglio regale, soltanto quest’ultimo gli resta fedele: «Fossi più intelligente! Più intelligente in ogni fibra, come [254] il mio serpente! Ma ciò che chiedo è impossibile: perciò prego il mio orgoglio di seguire sempre la mia intelligenza! E se un giorno la mia intelligenza mi abbandonerà [...] possa almeno il mio orgoglio volar via con la mia follia! - Così cominciò il tramonto di Zarathustra» (Così parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»).Lo spirito di Nietzsche si dilegua così per noi in un mistero di tramonto e di elevazione, in un’oscurità solcata dal volo delle aquile.In tutto questo c’è qualcosa che tocca e commuove, come in un bimbo stanco che fa ritorno alla patria della sua fede perduta dove non ha bisogno di alcun discernimento per prendere parte alle benedizioni e alle rivelazioni più alte. Dopo avere percorso ogni circolo ed esaurito ogni possibilità senza trovare contento, lo spirito ne entra infine in possesso attraverso il sacrificio supremo, il sacrificio di se stesso. Rammentiamoci allora di quelle parole di Nietzsche citate nella seconda parte di questo mio libro: « Quando tutto sarà stato percorso fino in fondo, dove si andrà allora? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede cattolica? A ogni modo il circolo potrebbe essere più probabile della stasi ».Tornando a ripetersi, Nietzsche descrive effettivamente un cerchio. Ed è interessante notare come, nella misura in cui si approssima al punto da cui era originariamente partito - e l’intelletto in quanto tale gli pare insignificante dinanzi a un mistico essere superiore che esige la fede -, la sua filosofia assuma tratti sempre più assoluti e reazionari, contrapponendo al suo individualismo di un tempo la restaurazione di una tradizione valida in assoluto e facendo sfociare la sua divinizzazione in un assolutismo religioso. [255] L’aspetto interessante in questo decorso, nonostante le sue premesse patologiche, è che esso possiede qualcosa di addirittura tipico dal punto di vista psicologico: allorché l’istinto religioso - costretto dal libero pensiero a sfogarsi in modo rigorosamente individuale - riesce infine a creare, come nel caso di Nietzsche, qualcosa di divino muovendo dal proprio sé, esso ottiene allora immediatamente i poteri più assoluti e più reazionari che mai siano spettati a un Dio concepito in modo oggettivo, fino a sbarazzarsi dello stesso intelletto - il cui impulso conoscitivo gli indicò in origine la direzione - impedendogli ogni possibile rimostranza. Dall’uomo deve nascere il Dio, anche se all’uomo ciò dovesse essere possibile soltanto attraverso un ritorno all’infanzia e all’immaturità. Solo in questa scissione, che egli realizza in sé a

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qualsiasi costo, l’uomo celebra la festa della propria redenzione e del ricongiungimento mistico con se stesso nella fede:Fu a mezzodì che l’uno divenne due...Certi di una congiunta vittoria celebriamo oraLa festa delle feste:È venuto l’amico Zarathustra, l’ospite degli ospiti!Ride ora il mondo, l’orrendo velario si squarcia,Sono giunte le nozze per luce e tenebra...come è detto alla fine di Al di là del bene e del male, nello splendido epodo « Da alti monti ».Il destino personale di Nietzsche si inserisce come chiave di volta in questo edificio concettuale, sicché non è lecito dubitare dell’influsso che i suoi oscuri presentimenti possono avere avuto sulla formazione della sua filosofia dell’avvenire. Con mano ferma egli ha [256] inserito a forza nel progetto generale quel che lo attendeva e lo ha posto al servizio dell’ultimo segreto della sua filosofia. Da qui, volgendosi all’indietro, ha abbracciato per la prima volta con lo sguardo tutta la sua vita e il suo pensiero nell’alternarsi delle sue trasformazioni, e ha attribuito a posteriori una coerenza dal significato mistico all’evoluzione del proprio sé, esattamente come fa il filosofo-creatore con l’intera vita dell’umanità. Divenne così il Dio presago il quale, seppure in modo un po’ violento, volge al meglio, cioè in direzione dello scopo supremo, tutte le cose passate. Rendere «il passato presago del futuro», questo è adesso il suo motto, l’esatto contrario quindi di quel che in precedenza aveva desiderato, vale a dire sbarazzarsi in fretta del passato al fine di separarlo nel modo più completo possibile da un futuro sempre nuovo.Qui trova già una motivazione il forte influsso della sua prospettiva precedente sui pensieri della filosofia dell’avvenire. Un tempo egli vedeva nella capacità di abbandonare ogni volta le proprie verità una dimostrazione di indipendenza intellettuale, e non gli sembrava dunque essenziale cercare l’appoggio altrui nell’appropriarsene. La sua indipendenza totale richiede però adesso che il proprio sé e il suo senso vengano tenuti fermi in tutti i pensieri passati e confutati; ma perché ciò sia possibile, essi devono essere stati promossi soltanto da questo sé, non da altri. Di fronte alle ultime opere di Nietzsche - quelle in cui all’apparenza egli erige con la massima indipendenza il proprio sistema - si ha così spesso la sensazione che egli stia con lo sguardo e il volto rivolti all’indietro, che si riaccosti [257] di nuovo ai luoghi andati delle sue antiche metamorfosi, sebbene se ne allontani il più possibile nell’autonomia di ipotesi raggiunte in modo del tutto individuale. La chiave di questa contraddizione sta nel fatto che egli trae dalle sue convinzioni precedenti solo ciò in cui trova espressione la sua natura individuale, il suo segreto volere, ciò che in tutte le teorie ricavate da altri pensatori era dovuto in fondo servire a questo spirito appassionato come pretesto inconsapevole, come opportunità involontaria per la sua evoluzione interiore. Giunto alla fine, egli si concentra sul carattere unitario della sua vita interiore, la scruta e la osserva in trasparenza mettendone in

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risalto la coerenza sottesa a tutte le sue trasformazioni, con la stessa enfasi con cui un tempo sottolineava soltanto la sua capacità di trasformazione. Come qualcuno che abbia in mente d’intraprendere un viaggio senza ritorno, come qualcuno che intenda accomiatarsi e che perciò raduni attorno a sé tutto quel che un tempo era suo, così vediamo ora Nietzsche raccogliere dalle varie fasi spirituali che ha attraversato ciò che gli appartenne. Egli compie una «valutazione di quel che si è raggiunto e voluto, una somma della vita» (Crepuscolo degli idoli, «Scorribande di un inattuale», 36): « Ecco che toma indietro, ecco che finalmente toma a casa - il mio me stesso, e insieme tutto quanto per lungo tempo era stato in terra straniera e disperso tra tutte le cose e le casualità » (Così parlò Zarathustra, «Il viandante»).Questo lo rende ingiusto nei confronti dei suoi compagni di un tempo e dei loro convincimenti; voleva dimenticare quanto spesso avevano determinato la direzione del suo pensiero: « Quando la casa è costruita, bisogna togliere le impalcature» (Il viandante e la sua ombra, 335). [258] È questa la «Morale per costruttori di case»: questo egli pensava, ignorando che per la sua costruzione c’erano sempre volute delle impalcature. Questa ingiustizia è dunque esattamente antitetica a quella precedente, che scaturiva dall’alternarsi appassionato dei pensieri, dall’energia con cui ogni volta distruggeva la pelle concettuale che si era tolto di dosso. Ora Nietzsche non vuole più credere al fatto che una pelle estranea abbia potuto crescere forte insieme a lui. Nei riguardi del positivismo questa ingiustizia si palesa in modo del tutto peculiare nella prefazione alla Genealogia della morale, come in singoli passi di altre opere; nei riguardi di Wagner, nel piccolo scritto II caso Wagner. Quest’ultima opera consente un confronto interessante tra il modo in cui Wagner viene combattuto nelle sue pagine e in quelle di Umano, troppo umano, tra l’astio con cui egli aveva gettato lontano da sé il wagnerismo e l’astio con cui gli si riaccosta di nuovo per ricavarne la sua proprietà spirituale senza rinunciare alla sua autonomia.Il suo desiderio di essere considerato fin dall’inizio autonomo e coerente lo spinse in ultimo fino al punto che, nella prefazione al secondo volume della seconda edizione di Umano, troppo umano (del settembre 1886), spiegò come tutti i suoi scritti precedenti fossero da «retrodatare», di come parlassero soltanto di ciò che all’epoca della loro stesura egli aveva già superato, aveva già lasciato dietro di sé; l’autore, che stava al di sopra di essi, si era dato a vedere in un travestimento volontario. La quarta considerazione inattuale, Richard Wagner a Bayreuth, doveva dunque essere stata, con là sua esaltazione di Wagner, solamente « un atto di omaggio e [259] di riconoscenza verso un brano del mio passato », e anche gli scritti positivistici, con la loro accettazione delle concezioni di Rèe, dovevano fornire soltanto la rappresentazione postuma di qualcosa di cui si è già fatto esperienza. Á questo tentativo nietzscheano di coniare nuovamente il senso delle sue opere, di coniarle per così dire con una nuova data, si possono applicare le sue stesse parole: «Forse mi si potrebbe a questo riguardo contestare molta “arte”, molta sottile arte di battere moneta falsa»

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(Umano, troppo umano, I, «Prefazione» alla seconda edizione del primo volume, primavera 1886). E uno dei molti travestimenti di questo solitario sarebbe anche quello di assegnarsi una maschera che non ha mai indossato; ma ciò può essere compreso e perdonato se con quella maschera egli avesse voluto intendere, anche in cuor suo, soltanto se stesso, vale a dire l’uomo Nietzsche in contrapposizione a Zarathustra, al mistico super-Nietzsche. Il Nietzsche umano poteva infatti non saperne nulla, nelle sue incessanti trasformazioni, del suo carattere di maschera; lo poteva soltanto il super-Nietzsche, che Nietzsche in seguito volle avere presagito e avvertito in sé fin dall’inizio. Il super-Nietzsche non sarebbe così null’altro se non un’interpretazione mistica dell’indole e del desiderio più intimi di Nietzsche, di quella recondita «volontà fondamentale» la quale, come abbiamo avuto modo di vedere, ritaglia per sé, in modo del tutto inconsapevole, le teorie altrui per poi affermarsi in esse con tutta la sua forza.Nell’autunno del 1888, dopo aver portato a termine il primo libro della Trasvalutazione di tutti i valori (La volontà di potenza), che non è ancora stato pubblicato, Nietzsche credette di aver concluso, almeno in via provvisoria, il proprio lavoro. Il Crepuscolo degli idoli, infatti, la cui prefazione [260] porta la data del 30 settembre 1888, è stato palesemente scritto in uno stato d’animo di compiutezza e di attesa della fine. Indicativo di ciò è il fatto che il primo titolo di questo scritto recitasse Ozio di uno psicologo e che nella prefazione esso venga addirittura definito « uno svago ». Si tratta tuttavia di un ozio quanto mai interessante, uno di quei libri di Nietzsche in cui egli si rivela maggiormente e spiattella i segreti della sua anima. Sotto questo rispetto esso risulta simile a Umano, troppo umano e ad Aurora, sebbene sia molto meno significativo dal punto di vista del contenuto. Se nella prima di queste due opere Nietzsche mette a nudo qualcosa della sua vita interiore attraverso il modo in cui si rassegna, con tutto il suo animo, a un mutamento repentino ma definitivo, e se nella seconda ci consente di gettare uno sguardo nel suo intimo, dal momento che passa al vaglio e combatte desideri e pensieri comparsi da poco, prima di farsi trascinare da questi nella sua nuova filosofia dell’avvenire, nel Crepuscolo degli idoli a tradirlo è uno stato d’animo completamente diverso: la passione vibrante di una realizzazione colossale, una spossatezza in cui si mescola l’attesa di ciò che verrà.18 In questa commozione [261] lo vediamo scivolare dal Crepuscolo degli idoli al crepuscolo del proprio spirito.La stessa tonalità emotiva contraddistingue anche la quarta e ultima parte dello Zarathustra, apparsa già nel 1885, ma resa accessibile a tutti soltanto dal 1891. Dalle sue pagine risuona il riso del superuomo, qua e là tuttavia già stridulo e con dissonanze sinistre. Da un punto di vista puramente personale, questi ultimi discorsi di Zarathustra sono la cosa più commovente che Nietzsche abbia mai scritto, poiché lo mostrano come chi sta tramontando e nasconde il suo tramonto dietro a una risata. Soltanto giunti a questo punto ci si fa chiara in tutta la sua grandiosità la contraddizione inconciliabile [262]

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che risiede nel fatto che Nietzsche ha introdotto la sua filosofia dell’avvenire con una Gaia scienza, definendola una buona novella, deciso a giustificare per sempre la vita in tutta la sua pienezza, la sua forza e la sua eternità - e che ha poi formulato quale suo pensiero supremo quello dell’eterno ritorno della vita. Soltanto ora riconosciamo appieno il vittorioso ottimismo che aleggia sopra le sue ultime opere, come il sorriso commovente di un fanciullo che mostra tuttavia quale rovescio il volto di un eroe che nasconde i tratti deformati dal terrore. «“Non è ogni pianto un lamento? E ogni lamento un’accusa?”. Così parli a te stessa, e perciò, anima mia, preferisci sorridere che sfogare il tuo dolore» canta Zarathustra (Così parlò Zarathustra, «Del grande anelito»), e perciò va, come «lo scarlatto principe d’ogni tracotanza» (Ditirambi di Dioniso, «Tra uccelli di rapina»). «La corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: io stesso ho posto sul mio capo questa corona, io stesso ho santificato la mia risata» (Così parlò Zarathustra, «Dell’uomo superiore»).Grande è il fatto che egli sapeva di essere al tramonto, eppure si congedò - con la bocca che sorrideva, «incoronato di rose» - discolpando, giustificando, trasfigurando la vita. Nei ditirambi dionisiaci la vita del suo spirito si spense; quel che il suono del loro giubilo doveva soverchiare era un grido di dolore. Sono l’ultima violenza su Nietzsche da parte di Zarathustra.Nietzsche ha pronunciato una volta la frase paradossale: «Ridere significa essere maligni con tranquilla coscienza» (La gaia scienza, 200). Una malignità superiore, che si allieta del proprio male, che è anzi in grado di infliggerselo, corre attraverso tutta la vita e tutta la sofferenza di Nietzsche come un’eroica autocontraddizione e [263] un’eroica risata. Ma nella possente forza d’animo con cui riuscì a porsi così in alto sopra di sé, vi era, a volerla vedere da psicologi, un’intima giustificazione del suo considerarsi come una dualità mistica: in ciò è racchiuso per noi il senso e il valore più profondo della sua opera.Dal suo sorriso giunge anche a noi un duplice suono che ci commuove: la risata di un folle e il riso del vincitore.

1 [Si tratta di una lettera scritta da Santa Margherita Ligure nel novembre 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 335; a Lou von Salomé a Berlino, Santa Margherita Ligure, probabilmente 24 novembre 1882, p. 282.]2 Si vedano al riguardo le seguenti affermazioni di Nietzsche contenute in opere del periodo precedente: «Fra le verità ricavate metodicamente e simili cose “presentite” rimane l’invalicabile abisso che quelle sono dovute all’intelletto e queste al bisogno... [...] Si ha soltanto il desiderio intimo che possa essere così - ossia che ciò che fa felici sia anche vero. Questo desiderio ci induce a prendere per buone ragioni cattive» (Umano; troppo umano, I, 131). FARSI INDURRE IN ERRORE OPPURE NO - CIÒ DETERMINAVA

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ALLORA PER LUI ADDIRITTURA LA GERARCHIA TRA GLI UOMINI: « CHE COSA È PER ME [...] FINEZZA DI SENSIBILITÀ E GENIO, SE L’UOMO [...] TOLLERA IN SÉ FIACCHI SENTIMENTI NEL CREDERE E NEL GIUDICARE, SE l’esigenza della certezza non costituisce per lui la più intima delle sue brame e la più profonda delle sue necessità - essendo questo ciò che distingue gli uomini superiori da quelli inferiori! » (La gaia scienza, 2). E in Aurora egli celebra ancora come segno che contraddistingue la vera grandezza del pensatore, in antitesi alla genialità piena di temperamento, «l’occhio puro, purificante, che non sembra germinato dal loro temperamento e carattere » (aforisma 497), ma non influenzato da essi rispecchia le cose. « Se non vi fosse stato in tutti i tempi un gran numero di uomini a sentire nel rigore della mente - nella loro “razionalità” - un motivo di orgoglio, di obbligazione morale, di virtù, uomini cui recò offesa e vergogna tutto il fantasticare e il divagare tortuoso del pensiero, [...] l’umanità sarebbe perita già da un pezzo! Sopra di essa era sospeso e continua ancora ad esserlo quel che è il suo pericolo più grande, l’erompere della follia, cioè, appunto, l’erompere del proprio capriccio nel sentire, nel vedere e nell’udire, il godimento di una dissolutezza della mente, il piacere di una negazione dell’intelletto. Non la verità e la certezza costituiscono l’antitesi del mondo del dissennati, ma l’universalità e obbligatorietà universalmente imposta di una credenza, insomma la non arbitrarietà nel giudicare. E il più grande lavoro degli uomini fino ad oggi fu quello di mettersi d’accordo gli uni con gli altri su moltissime cose e d’imporsi una legge dell’armonia [...]. E quel tempo di adagio che essa (la credenza universalmente accettata) richiede [...] già trasforma artisti e poeti in apostati - questi sono gli spiriti impazienti in cui erompe un risoluto godimento della follia, poiché la follia ha un tempo così allegro! » (La gaia scienza, 76). E viene da pensare che Nietzsche se la prenda contro quel che era stato in precedenza allorché rimprovera alle donne e agli artisti quella mancanza di scientificità dello spirito che lo rende un fanatico di tutte le ipotesi che «fanno l’impressione dell’intelligenza, del fascino, della vitalità e della forza». Analogamente i più vogliono «essere trascinati fortemente per ottenere in tal modo essi stessi un aumento di forza», soltanto pochi «hanno questo interesse oggettivo, che prescinde da vantaggi personali, anche da quello del menzionato aumento di forza. Quella classe, di gran lunga preponderante, si può essere sicuri di trovarla ovunque il pensatore si comporti e si definisca come genio, cioè se ne stia a guardare gli altri come un essere superiore, al quale spetti l’autorità. In quanto il genio di questa specie alimenta l’ardore delle convinzioni e suscita diffidenza verso il prudente e modesto senso della scienza, esso è un nemico della verità, quand’anche dovesse credersene innamorato» (Umano, troppo umano, 1, 635).3 Si veda invece in Umano, troppo umano la protesta di Nietzsche contro «l’arte come evocatrice di morti», poiché vuole influenzare il presente con rappresentazioni del passato: «Essa allaccia [...] un legame intorno a epoche diverse e ne fa ritornare gli spiriti. Per la verità è solo una vita di

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larva, come sopra delle tombe, quella che in tal modo sorge» (I, 147), eppure esercita un influsso nocivo e retrogrado. «Quelli che risuscitano i morti» e «quelli che evocano i morti» Nietzsche li considera «persone vanitose» poiché «stimano maggiormente un frammento di passato, a principiare dal momento in cui riescono ad averne una sensibilità postuma» (Aurora, 159). E' dell’idea che ci si debba opporre il più possibile al trasporto sentimentale che ci giunge progressivamente e nei modi più svariati da ogni civiltà del passato: abbandonarvisi, sarebbe come approssimarsi alla follia o all’infermità: «Il peso totale della civiltà è diventato così grande che una sovreccitazione delle forze nervose e di pensiero è oggi il pericolo generale; anzi, le classi colte dei paesi europei sono diventate completamente nevrotiche e quasi ciascuna delle loro famiglie si è avvicinata, in qualche membro, alla pazzia. [...] Ma principalmente rimane necessario diminuire la tensione del sentimento e il peso schiacciante della civiltà, [...] dobbiamo evocare lo spirito della scienza, che rende in complesso alquanto più freddi e scettici [...] » (Umano, troppo umano, I, 244). «Se questa esigenza di una superiore cultura non verrà soddisfatta, si può predire quasi con sicurezza quale sarà l’ulteriore corso dell’evoluzione umana: l’interesse per la verità verrà meno, tanto più quanto meno procurerà piacere; l’illusione, l’errore e la fantasticheria si riconquisteranno [...] il terreno su cui un tempo dominavano: la rovina delle scienze e il ripiombare nella barbarie saranno la conseguenza più immediata» (ivi, 1,251).4 Si veda ad esempio in II viandante e la sua ombra: « Le istituzioni democratiche sono istituti di quarantena contro l’antica peste delle voglie tiranniche» (289). « Impossibilità per l’avvenire che i campi della civiltà vengano di nuovo distrutti da un giorno all’altro da selvagge e insensate acque di montagna! Dighe e baluardi contro i barbari, contro le epidemie, contro l’asservimento materiale e spirituale! » (ivi, 275). E ancora in Umano, troppo umano: «Le forze più selvagge aprono la strada [...] perché più tardi dei costumi più miti stabiliscano qui la loro sede. Le terribili energie - ciò che si dice il male - sono i ciclopici architetti e pionieri dell’umanità» (1, 246), fino a che « sono i buoni, utili impulsi, le abitudini del cuore nobile diventati così sicuri e generali, che non ci sia più bisogno di [...] durezze e violenze, come dei mezzi più potenti onde unire gli individui e i popoli tra loro» (I, 245).Proprio come in seguito, per Nietzsche l’uomo violento è qualcuno che è rimasto arretrato, un uomo atavico, ma proprio per questo un residuo da estirpare, non una guida per l’avvenire. «Il carattere sgradevole, che [...] è violento e collerico contro le opinioni divergenti, mostra di appartenere a un grado precedente di civiltà, cioè di essere ima sopravvivenza; giacché la maniera in cui si comporta con gli uomini è quella giusta e adatta alle condizioni di un’età in cui vigeva il diritto del più forte: è un uomo rimasto indietro. Un altro carattere, che è ricco di simpatia per le gioie altrui, che si acquista amici dappertutto, che sente con amore tutto ciò che cresce e diviene, che [...] non rivendica affatto la prerogativa di conoscere da solo il

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vero, ed è anzi pieno di una modesta diffidenza - costui è un anticipatore, che muove incontro a una superiore civiltà degli uomini. Il carattere sgradevole proviene dai tempi in cui le rozze fondamenta dell’umana convivenza erano ancora da costruire, l’altro vive ai piani più alti di essa, il più possibile lontano dall’animale selvaggio, che infuria e urla nelle cantine, rinchiuso sotto le fondamenta della civiltà» (I, 614).5 Così egli afferma in Umano, troppo umano: «Il Rinascimento italiano racchiuse in sé tutte le forze positive a cui si deve la cultura moderna: ossia liberazione del pensiero, disprezzo dell’autorità, vittoria dell’istruzione contro l’alterigia della schiatta, entusiasmo per la scienza» (I, 237).Parimenti antitetica era la sua concezione del genio di Napoleone e del suo impulso ad agire, come mostra un passo della stessa opera: «È in ogni caso un sintomo pericoloso, il fatto che l’uomo venga colto da quel brivido di fronte a se stesso, sia che si tratti del famoso brivido cesareo, sia che si tratti del brivido del genio [...]; sicché egli comincia a vacillare e a tenersi per qualcosa di sovrumano. [...] In certi rari casi questo elemento di follia può essere stato il saldo tessuto connettivo di una tal natura, eccessiva sotto ogni rispetto: anche nella vita degli individui le fissazioni, che di per sé sono veleno, hanno spesso il valore di rimedi; tuttavia in ogni “genio” che crede alla sua divinità, il veleno finisce per rivelarsi a misura che il “genio” diventa vecchio: si ricordi ad esempio Napoleone, la cui personalità, certo proprio grazie alla sua fede in se stesso e nella sua stella e al disprezzo degli uomini da essa derivante, crebbe fino alla possente unità che lo innalza al di sopra di tutti gli uomini moderni, e in cui però da ultimo questa stessa fede si trasformò in un fatalismo quasi folle, lo privò del suo sguardo rapido e acuto e divenne la causa della sua rovina» (I,164).In Aurora, 549, egli riconduce l’egoismo senza riguardi dell’impulso ad agire di Napoleone alla sua predisposizione ad ammalarsi di epilessia invece che, come avrebbe fatto in seguito, al prorompente «eccesso di salute» di chi ha in corpo tutti gli istinti violenti di una civiltà passata.6 Di contro al successivo disprezzo nietzscheano per il carattere ebraico, si legga in Aurora l’aforisma 205, «Del popolo d’Israele»; «E dove è diretta tutta questa sovrabbondanza di grandi impressioni accumulate, [...] questa sovrabbondanza di passioni, di virtù, di decisioni, di rinunce, di lotte, di vittorie d’ogni specie - dove troverà sbocco, se non, infine, in grandi personalità ed opere dello spirito? Quando gli ebrei avranno mostrato l’opera loro in tali pietre preziose e intarsi dorati, quali i popoli europei, di più breve e meno profonda esperienza, non sono né furono capaci di produrre [...], sarà giunto allora ancora una volta quel settimo giorno in cui il vecchio Dio degli ebrei potrà rallegrarsi di se stesso, della sua creazione e del suo popolo eletto, - e tutti, tutti noi, ci rallegreremo con lui».7 Per questa situazione di libero godimento dell’individualità Nietzsche ha trovato le parole più belle nel suo poema Zarathustra, che potrebbe essere definito come il Cantico dei cantici dell’individualismo moderno. Particolarmente caratteristiche possono considerarsi le seguenti sentenze:

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« Quando siete i volenti di un’unica volontà e questa svolta culminante di ogni fatalità ha per voi il nome di necessità: lì è l’origine della vostra virtù.In verità, essa è un nuovo bene e male! In verità, un nuovo profondo fremito e la voce di una nuova sorgente! [..,]Rimanetemi fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù ! [... ] Fate che essa non voli via dalle cose terrene e vada a sbattere con le ali contro muri eterni! Ahimè, vi è stata sempre tanta virtù volata via!Riportate, come me, la virtù volata via sulla terra - sì, riportatela al corpo e alla vita: perché dia un senso alla terra, un senso umano! [...]Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancor sempre l’uomo e la terra dell’uomo» («Della virtù che dona»).«Vuoi cercare la via verso te stesso? [...]Fammi vedere che ne hai la forza e il diritto! [...]Libero, ti chiami? Voglio sentire il tuo pensiero dominante e che non sei sfuggito a un giogo. [...]Libero da che cosa? Che importa questo a Zarathustra? Ma il tuo occhio deve limpidamente annunciarmi: libero per che cosaiSei capace di dare a te stesso il tuo male e il tuo bene e affiggere su di te la tua volontà come una legge? » (« Del cammino del creatore »).« Sia il vostro Sé nell’azione, come la madre è nel figlio: questo sia per me la vostra parola sulla virtù» («Dei virtuosi»).«È il vostro più caro Sé, la vostra virtù» («Dei virtuosi»).« Si ama fino in fondo solo il proprio figlio, l’opera propria; e dove è un grande amore per se stessi, là è il segno della gravidanza: così trovai » (« Della beatitudine non voluta»).«Fratello, se hai una virtù, ed è la tua virtù, allora non l’hai in comune con alcuno. [...] Così di’ e balbetta: “[...] Nonio voglio [il mio bene] come la legge di un dio, non lo voglio come un canone e una stretta necessità degli uomini: [...]Ma questo uccello ha costruito presso di me il suo nido: perciò lo amo e lo stringo al petto, - e ora esso cova presso di me le sue uova d’oro”. [...] Una volta avevi delle passioni e le chiamavi cattive. Ma adesso non hai altro che le tue virtù: esse sono cresciute dalle tue passioni.Nel cuore di queste passioni ha posto la tua meta più alta: così sono diventate le tue virtù e le tue gioie.Sia che tu fossi della schiatta dei collerici o dei lussuriosi o dei fanatici di una fede o dei vendicativi:Alla fine tutte le tue passioni sono diventate virtù e tutti i tuoi diavoli angeli» («Delle gioie e delle passioni»).8 «Musica» intesa, secondo Schopenhauer, come la rappresentazione sonora della cosa in sé.9 Un pensiero affine risuona in La gaia scienza, allorché Nietzsche coglie l’effetto dei culti orgiastici nel fatto che gli uomini venivano placati e liberati dalle loro passioni «spingendo innanzi tutto al colmo il delirio e il

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disfrenamento dei loro affetti, rendendo quindi furibondo il delirante, ebbro di vendetta chi la febbre di essa consumava: tutti i culti orgiastici vogliono sgravare [...] la ferocia di una divinità e portarla all’orgia perché dopo essa si senta più libera e più quieta e lasci l’uomo in pace» (La gaia scienza, 84).10 [Si tratta di un biglietto dell’agosto 1882, ora in F. Nietzsche, Brief-Wechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 290 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg, 25 agosto 1882, p. 245.]11 [Si tratta di una lettera del settembre 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo I, lettera n. 298 a Lou von Salomé a Stibbe, Naumburg, 8 settembre 1882, pp. 251-252.]12 In riferimento a queste considerazioni si legga la rappresentazione dell’eterno ritorno nelle pagine intitolate «La visione e l’enigma» in Cosi parlò Zarathustra:«“Guarda questa porta carraia! [...]: essa ha due volti. Due sentieri convergono qui: nessuno li ha mai percorsi fino alla fine.Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti - è un’altra eternità.Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: ‘attimo’.Ma, chi ne percorresse uno dei due - sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu [...] che questi sentieri si contraddicano in eterno? [...].[...] Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta?E se tutto è già esistito: che pensi [...] di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia - esserci già stata?E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque - -anche se stesso?Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori - deve camminare ancora una volta!E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbigliami a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta?- e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno? ”. -Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi». A questo punto segue il racconto di un cane che ulula e chiede aiuto per un uomo. All’uomo, un giovane pastore, era strisciato in gola un serpente e si era abbarbicato mordendo.«La mia mano tiro con forza il serpente, tirava e tirava - invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi!

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Staccagli il capo! Mordi!” così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio • odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. -[...] - Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente e balzò in piedi. -Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva ! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, — e ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa ».Il serpente dell’eterno ritorno che ruota in circolo è quello da cui Zarathustra libera l’uomo, staccandogli il capo con un morso: superando l’insensatezza e l’orrore e facendo dell’uomo un signore - un trasformato, un circonfuso di luce, un superuomo:«Sciogliete dunque l’enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini!Giacché era una visione e una previsione: - che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? ».Cfr. anche: «[...] - e come la bestiaccia mi è strisciata dentro le fauci per strozzarmi! Ma io ne ho morso il capo e l’ho sputato lontano da me» (Così parlò Zarathustra, «Il convalescente»).13 [Si tratta di un’affermazione che ricorre testualmente in un frammento postumo: F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, cit., vol. viii, tomo 3, trad. it. di S. Giametta, frammento 19/1, ;, p. 334; nonché, con interpolazioni, in Ecce homo, «Perché scrivo libri così buoni», I, dove Nietzsche dichiara: «Quando una volta il dottor Heinrich von Stein si lamentò onestamente di non capire una parola del mio Zarathustra, gli dissi che mi sembrava naturale: aver capito sei frasi di quel libro, cioè averle vissute, innalza i mortali a un grado più alto di quello che gli uomini “moderni’’ potrebbero raggiungere». Entrambi i testi non potevano essere noti ad Andreas-Salomé: è probabile, perciò, che la fonte diretta sia lo stesso von Stein, il quale era stato un frequentatore del salotto berlinese di Lou e Rèe.]14 Il caso volle che forse uno degli ultimi lavori scientifici di cui Nietzsche si è intensamente occupato fosse quello sulla filosofia indiana di uno schopenhaueriano di stretta osservanza, e che ciò lo riportasse ancora una volta vicino all’ambito concettuale della sua precedente concezione del mondo. Si tratta dell’eccellente libro di Paul Deussen, II sistema del Vedanta secondo il Brahma-Sùtra del Bädaräyana e il Commento del Çankara sui medesimi (Brockhaus, Lipsia 1883) in cui l’autore presenta e interpreta il tema in modo certo obiettivo, ma lo giudica al contempo dal proprio punto di vista. È impossibile non riconoscere l’influsso di questo libro sugli scritti composti da Nietzsche a partire dal 1883, in special modo per quel che riguarda la divinizzazione del filosofo creatore e la sua assimilazione al principio vitale più alto e onnicomprensivo, come anche per l’idea che esso raccolga in sé la successione di tutti gli eventi in una sorta di coesistenza

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psichica, in una metempsicosi spaziale invece che temporale. Se si raccolgono le affermazioni sparse di Nietzsche sui singoli stati d’animo, nel loro significato semimistico, si è a volte tentati di scriverci a fianco « Atman » e «Brahmán».15    Nietzsche-Zarathustra.16    I sepolcri del passato, di tutto quel che è stato.17 In contrapposizione alla semplice ricerca e alla conoscenza intellettuale del passato attraverso la scienza, che non è in grado di redimere nulla.18 Questo stato d’animo si rispecchia, ancora privo di veli, nei Ditirambi di Dioniso, nati nello stesso periodo (autunno 1888) e stampati alla fine della quarta parte di Così parlò Zarathustra. Particolarmente significativi sono tra gli altri i seguenti versi:« Adesso - / da solo con te, / in due col tuo proprio sapere, / in mezzo a cento specchi / falso di fronte a te, / in mezzo a cento ricordi / incerto, / di  ogni ferita stanco, / per ogni gelo freddo, / strozzato dai tuoi propri lacci, / conoscitore di te, / carnefice di te stesso !/[...] Un malato ora, / che il veleno del serpente rese infermo; / un prigioniero ora, / che trasse la sorte più dura, / che lavora nel proprio pozzo / rannicchiato, / che apre in sé una caverna, / che scava in se stesso, / maldestro, / rigido, / un cadavere - [...] In agguato, / aggomitolato, / uno che più non si regge in piedi! / Già ti aggrovigli alla tua tomba, / spirito rattrappito!... » [«Tra uccelli di rapina»].

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POSTFAZIONEDI DOMENICO M. FAZIO

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1. TAUTENBURG, SELVA TURINGIA, AGOSTO 1882Nell’appendice alla seconda edizione del suo celebre Nietzsche e l'eterno ritorno, a proposito del libro di Lou Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche nelle sue opere,1 del quale presentiamo la nuova edizione italiana,2 Karl Lowith ha scritto: « Questo studio fu pubblicato nel 1894, dunque ancor prima dell’autorappresentazione fornita da Nietzsche in Ecce homo, e perciò è tanto più sorprendente la prudenza e la maturità della caratterizzazione. Nei cinquantanni che seguirono non fu pubblicata nessuna interpretazione più centrata di questa, ma anche nessuna che al giorno d’oggi venga tenuta in minor conto».3 L’autorevole giudizio di Lowith risale al 1956. Vent'anni dopo, un altro grande studioso di Nietzsche, Mazzino Montinari, a sua volta ha affermato che il libro dedicato a Nietzsche da Lou Andreas-Salomé « ancora oggi è uno dei migliori che siano mai stati scritti su di lui, perché nato da uno scambio di idee breve ma intensissimo tra la giovane Lou e Nietzsche stesso».4 In un contributo apparso più di recente, infine, Sossio Giametta ha commentato che sull’evoluzione spirituale di Nietzsche « ragguaglia ottimamente, nel suo libro Friedrich Nietzsche in seinen Werken, la Russa che era stata sua amica e di cui egli si era innamorato ». 5

Friedrich Nietzsche e Lou Salomé si erano conosciuti a Roma alla fine di aprile del 1882 in casa dell’idealista Malwida von Meysenbug. Nietzsche, allora trentottenne, una volta professore di filologia e a quel tempo fugitivus errans, aveva da poco pubblicato Aurora e stava portando a termine ha gaia scienza. Lou Salomé era una studentessa di lettere di appena ventun anni.6

Nata a Pietroburgo il 12 febbraio 1861 da una famiglia di ebrei francesi che si erano messi al servizio degli zar, Louise von Salomé aveva compiuto i suoi studi sotto la guida di un precettore di grande valore, il pastore Hendrik Gillot. Questi aveva saputo suscitare in lei l’interesse per la cultura e l’aveva avviata non soltanto alla lettura dei classici della letteratura francese e tedesca, ma anche allo studio delle opere di alcuni dei maggiori filosofi del Sette e dell’Ottocento: Leibniz, Rousseau, Voltaire, Kant, Fichte, Kierkegaard e Schopenhauer. Dal settembre del 1880 la diciannovenne Lou, accompagnata dalla madre, la vedova del generale von Salomé, si era trasferita a Zurigo per completare i suoi studi nell’università della città sulle rive della Limmat, una delle poche in Europa che concedessero anche alle donne il diritto all’immatricolazione. Nella città svizzera ella aveva frequentato, tra le altre, le lezioni dello storico dell’arte Gottfried Kinkel, uno dei leader della rivoluzione tedesca del 1848, il quale aveva avuto modo di apprezzarne le non comuni doti intellettuali. Ed era stato proprio Kinkel a metterla in contatto con Malwida von Meysenbug quando, forse per

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l’eccessiva fatica intellettuale, la ragazza si era ammalata gravemente e le era stato consigliato un radicale cambiamento di clima.Nata nel 1816, Malwida von Meysenbug era una paladina delle lotte per l’emancipazione femminile e una fervida sostenitrice degli ideali umanitari: amica di rivoluzionari come Garibaldi e Mazzini, di scrittori come Alexander Herzen e, poi, Romain Rolland, scrittrice di un certo successo ella stessa,7

faceva parte della cerchia più intima di Richard Wagner. In quest’ambito, il 22 maggio 1872, in occasione del cinquantanovesimo compleanno del maestro e della storica cerimonia della posa della prima pietra del teatro di Bayreuth, aveva avuto modo di fare la conoscenza di Nietzsche, il professore di filologia che con la pubblicazione della Nascita della tragedia era divenuto l’intellettuale di punta del movimento wagneriano in Germania, e in breve aveva stretto con lui un saldo vincolo di amicizia. Così, quando la malattia di Nietzsche aveva fatto la sua comparsa, ella si era offerta di prendersi cura di lui e, dall’ottobre 1876 al maggio 1877, aveva vissuto a Sorrento con Nietzsche, con il suo allievo Albert Brenner e con Paul Rèe, il giovane autore delle Osservazioni psicologiche,8 in una sorta di comunità di studi e di ideali, « una specie di convento per spiriti liberi».9 Durante l’inverno sorrentino a Villa Rubinacci, Rèe si era dedicato alla stesura della sua seconda opera filosofica, L'origine dei sentimenti morali, 10 e Nietzsche aveva portato a compimento il suo distacco dalla concezione metafisica dell’arte di Schopenhauer e di Wagner e aveva elaborato i materiali del suo libro per spiriti liberi, Umano, troppo umano.11 L’anno seguente Malwida si era stabilita definitivamente a Roma, in via della Polveriera, non lontano dal Colosseo, e il suo appartamento era ben presto divenuto uno dei salotti culturali della città. Fu così che, quando la vedova del generale von Salomé e sua figlia Lou giunsero a Roma e si presentarono da lei munite di una calorosa lettera di presentazione del suo vecchio amico Kinkel, Malwida non esitò ad accoglierle nella sua cerchia. Era il febbraio 1882.In marzo giunse a Roma anche Paul Rèe. Molti anni più tardi, ma con intatta vivacità, nello sguardo retrospettivo alla sua vita, la stessa Lou ha narrato il suo arrivo inatteso: «Una sera di marzo del 1882, in casa di Malwida von Meysenbug, si erano riuniti alcuni amici quando si sentì suonare il campanello di casa. Poco dopo Trina, fedele factotum di Malwida, si precipitò nella stanza e, tutta agitata, le bisbigliò qualcosa nell’orecchio; al che Malwida in fretta e furia raccolse dalla sua scrivania un po’ di soldi che con altrettanta fretta portò fuori. Al suo ritorno nella stanza l’eccitazione le faceva svolazzare intorno alla testa lo scialle nero di seta. Accanto a lei c’era il giovane Paul Rèe, il suo amico da tempo, amato da lei come un figlio che, essendo partito precipitosamente da Montecarlo, aveva premura di restituire a un cameriere di lì i soldi per il viaggio che si era fatto prestare dopo aver perso tutto al gioco. Nonostante l’inizio un po’ insolito, ma divertente, la nostra amicizia fu presto fatta; probabilmente lo stupore iniziale può aver contribuito a farmi apparire Rèe in una luce più accentuata, facendolo risaltare rispetto agli altri. Ad ogni modo' il suo profilo tagliente, il

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suo sguardo intelligente, mi furono subito familiari nel momento in cui ad una costernazione divertita si mescolò, nell’espressione del suo volto, un’inconfondibile bontà. Già la sera stessa ebbe inizio la nostra abitudine quotidiana di finire le animate discussioni solo sulla strada di ritorno per casa mia». 12

Rimasto affascinato, e non soltanto dalle doti intellettuali della giovane russa, Rèe ne scrisse a Nietzsche, che si trovava a Genova. La lettera di Rèe non è tramandata: il suo tenore, tuttavia, si può indovinare dalla risposta di Nietzsche, che porta la data del 21 marzo 1882: «Saluti da parte mia questa Russa, se la cosa ha in qualche modo un senso: sono avido di questo genere di anime. Anzi, ne andrò a caccia assai presto - ne ho bisogno in vista di quello che intendo fare nei prossimi dieci anni. Un capitolo assolutamente diverso è il matrimonio - potrei accondiscendere al massimo a un matrimonio di due anni, e anche in tal caso solamente in considerazione di quello che ho da fare nei prossimi dieci».14 È giunta invece fino a noi la lettera che, sempre a proposito di Lou, Malwida scrisse a Nietzsche qualche giorno dopo: «Una fanciulla molto singolare (credo che Rèe Gliene abbia già scritto), [...] mi sembra giunta nel pensiero filosofico agli stessi risultati a cui è giunto Lei, cioè all’idealismo pratico, con l’eliminazione di ogni presupposto metafisico e di qualsiasi preoccupazione per la spiegazione dei problemi metafisici. Rèe ed io concordiamo nel desiderare di vederLa un giorno insieme con questo essere straordinario, ma purtroppo non mi sento di consigliarLe di venire a Roma, poiché qui le condizioni di vita non dovrebbero essere favorevoli per lei ».15

Alla fine di marzo, Nietzsche si imbarcò alla volta di Messina. Qui lo raggiunse una nuova lettera di Rèe nella quale si legge: «Roma non sarebbe adatta per Lei. Ma bisogna assolutamente che conosca la Russa».16 Così, il 23 o il 24 aprile, quando Nietzsche arrivò finalmente a Roma, era pieno di aspettative per la giovane Lou. Anche il loro primo incontro è narrato nelle memorie di Lou Andreas-Salomé: « Eravamo allegri e spensierati perché tutti volevamo bene a Malwida, e Nietzsche era spesso così animato da far dimenticare il suo carattere riservato, o meglio un po’ solenne. Ricordo questa solennità già dal nostro primo incontro, avvenuto a San Pietro dove Paul Rèe stava lavorando seduto in un confessionale particolarmente luminoso, e dove Nietzsche era stato perciò mandato. Mi salutò con queste parole: “Da quali stelle siamo caduti per incontrarci qui?’».17

Gli avvenimenti che seguirono sono assai noti: gli anticonformistici progetti di vita e di studio in comune dei tre amici, ossia la « trinità », come scherzosamente li chiamavano;18 la maldestra proposta di matrimonio rivolta a Lou da Nietzsche, per il tramite di Rèe, che della donna era innamorato e neppure tanto segretamente; il rifiuto di Lou; la partenza da Roma della comitiva composta dalla vedova del generale von Salomé, dalla piccola Lou, dal giovane Rèe e dal professor Nietzsche; la sosta sul lago d’Orta e il «mistero» del Monte Sacro, se cioè Lou, quella volta, abbia veramente baciato Nietzsche;19 la visita a Lucerna; il celeberrimo dagherrotipo del

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fotografo Jules Bonnet, che ritrae Lou assisa su un carretto nell’atto di frustare Rèe e Nietzsche; il pellegrinaggio all’«isola dei beati», la casa di Wagner a Tribschen dinanzi alla quale, stando a quanto la stessa Lou ha narrato, Nietzsche pianse al ricordo dell’amico di un tempo;20 la seconda proposta di matrimonio, anch’essa respinta.A Lucerna, dopo aver confermato i progetti della loro « trinità », gli amici si separarono: Rèe accompagnò Lou e la madre a Zurigo e proseguì verso la tenuta di famiglia a Stibbe, facendosi promettere da Lou che l’avrebbe raggiunto quanto prima; Nietzsche, fatta una breve sosta a Basilea, continuò il viaggio per Naumburg, non prima di aver a sua volta strappato a Lou la promessa che, dopo essersi recata al festival di Bayreuth per incontrare Malwida, avrebbe trascorso qualche giorno anche presso di lui.Così, dopo aver soggiornato per qualche tempo dai Rèe a Stibbe e dopo aver assistito in compagnia di Malwida e della sorella di Nietzsche alla prima rappresentazione del Parsifal, che aveva avuto luogo a Bayreuth, il 7 agosto, accompagnata da Elisabeth Nietzsche, Lou giunse finalmente a Tautenburg, nella Selva Turingia, dove Nietzsche la attendeva. Vi rimase fino al 26 agosto.Fu in quei giorni di straordinaria intimità spirituale, fatta di passeggiate solitarie nella pace dei boschi e di colloqui e discussioni interminabili, che Lou ebbe modo di conoscere la personalità e il pensiero di Nietzsche come forse nessun altro. Ed è da quei colloqui che nacque, qualche tempo dopo, il primo nucleo del profilo che ella avrebbe successivamente dedicato al filosofo di Zarathustra.Del soggiorno a Tautenburg, Lou ha tenuto un diario per Paul Rèe che in gran parte ci è tramandato. Nelle sue memorie, poi, è tornata a narrare di quella che indubbiamente dev’essere stata per lei un’esperienza intellettuale indimenticabile, ma lo ha fatto quasi con reticenza, limitandosi a ricordare di essere riuscita, allora, « a penetrare molto più profondamente nel pensiero di Nietzsche di quanto non fosse riuscita a Roma o in viaggio », e informandoci di particolari che appaiono oggi poco significativi. Dal diario per Rèe ha estrapolato, per inserirlo nelle sue memorie, soltanto il seguente brano: «Da tre settimane siamo immersi in una interminabile discussione e ora è capace di passare anche dieci ore parlando. È strano che le nostre conversazioni ci portino involontariamente di fronte a quegli abissi vorticosi dove ci si era spinti a volte da soli per guardare in basso. Abbiamo scelto di camminare sui sentieri dei camosci e se qualcuno ci avesse ascoltato avrebbe potuto credere che fossero due diavoli a parlare».21 Nel diario per Rèe, invece, Lou si sofferma lungamente a narrare di Nietzsche tratteggiandone la personalità con fine comprensione psicologica.Scrive Lou Salomé, descrivendo a Rèe l’atmosfera delle sue discussioni filosofiche con Nietzsche: « Mi ero ripromessa di annotare ogni nostro colloquio, ma è praticamente impossibile; i nostri discorsi spaziano dalle più lontane alle più vicine regioni del pensiero e non si prestano a formulazioni singole e precise. In realtà il contenuto dei nostri discorsi non è tanto in

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quello che viene espresso a parole, ma proprio in quel misterioso venirsi incontro dello spirito dell’uno e dell’altro ».22 L’osservazione dei ritratti fotografici di Rèe e di Nietzsche le fornisce, poi, l’occasione per una sorta di raffinata indagine di psicologia comparata sui due amici: «Il tuo aspetto esteriore dice di più di quello di Nietzsche: è difficile cogliere i tratti del suo carattere da uno studio del suo ritratto. Ciò che vi differenzia, innanzi tutto, è la presenza, in Nietzsche, di una aspirazione senza riserve alla conoscenza che costituisce in qualche modo la forza unificatrice di tutto il suo essere, in grado di tenere in pugno tutti i suoi impulsi e le sue qualità più diverse - una sorta di forza religiosa che rivolge l’uomo tutto intero in una direzione in cui egli si abbandona a questo dio della conoscenza che è il suo. [...] Nietzsche continua a comportarsi nei confronti della conoscenza alla quale aspira come il credente nei confronti del suo dio e il metafisico nei confronti della sua entità metaempirica: mette la sua mente e la sua forza di carattere al suo servizio. Perciò egli si sforza di vedersi e di conoscersi come egli amerebbe essere di fronte al suo dio della conoscenza. Ed è perciò che egli è lontano dall’essere sincero con se stesso come te. [...] È vero che ciò che frena Nietzsche su questo punto è nient’altro che la ricchezza di una sensibilità intensa e violenta che abbraccia con forza e potenza tutti i sentimenti religiosi e tutti i grandi sentimenti. [...] Ma, come ho detto, una tale sensibilità è una ricchezza, e una ricchezza filosofica. [...] La differenza tra di voi che ho richiamato sopra si esprime molto distintamente nei piccoli tratti. Ad esempio nella vostra concezione dello stile. Il tuo stile vuol convincere l'intelletto del lettore, e perciò possiede una chiarezza e un rigore scientifici, evitando ogni emozione. Nietzsche vuole convincere l’individuo tutto intero, egli vuole che la sua parola si immerga nell’anima e ne restituisca le profondità, non cerca di insegnare, ma di convertire. Tutte le vostre differenze di vedute risultano dalle differenze tra i vostri interessi, differenze che procedono dalla diversità delle vostre nature. Lui incomincia dove la tua opera si ferma: dalla morale pratica. [... ] Il vostro diverso modo di lavorare è anche caratteristico di questa diversità delle vostre nature. Come me, Nietzsche è posseduto dal suo lavoro [...]. Tu, invece, lo possiedi».23 Sempre nel diario per Rèe, Lou si sofferma, poi, sulle sofferenze che Nietzsche doveva sopportare a causa dei ricorrenti attacchi della sua malattia: « Questo dolore è in Nietzsche la vita stessa. [...] Ma se la parola eroismo è ancora ammissibile senza il suo significato morale, io vedrei il suo eroismo nella forza di autoconservazione - questa forza che assume volontariamente la sofferenza della vita perché ritrova sempre in essa la potenza creatrice che gli permette di fare di questa sofferenza il mezzo in vista di un fine, grazie al quale egli si sente portato al di là della sofferenza e dell’infelicità. [...] Per noi, liberi pensatori, che non abbiamo più niente di sacro al quale possiamo annettere un valore religioso e morale, nondimeno sussiste ancora una grandezza che suscita la nostra ammirazione e perfino la nostra venerazione. Avevo già intravisto questa grandezza in Nietzsche quando, sulle rive dei laghi italiani, ti dissi: il suo riso è un’azione».24 Inoltre,

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già nel diario per Rèe, Lou avanza quella che sarà poi l’idea guida del suo profilo di Nietzsche: l’interpretazione in senso religioso di tutta la sua personalità filosofica: «All’inizio dei miei rapporti con Nietzsche, quand’ero in Italia, scrissi a Malwida che egli era una natura religiosa, cosa che la lasciò assai scettica. Oggi, sottolineerei doppiamente questa formula. Il carattere fondamentalmente religioso delle nostre nature è il nostro punto in comune e può darsi che esso sia in noi così pronunciato perché noi siamo dei liberi pensatori nel senso più estremo del termine. Nel libero pensatore, il sentimento religioso non può riferirsi a un principio divino o a un cielo, nel quale possano venir adattate le forze costitutive della religione come la debolezza, la paura, la cupidigia, Nel libero pensatore il bisogno religioso creato dalle religioni - questo discendente più nobile delle forme particolari della fede -, ripiegato su se stesso può diventare una forza eroica della sua natura, un bisogno di donarsi a una nobile causa. Questo tratto eroico esiste nel carattere di Nietzsche. È l’elemento essenziale del suo io, ciò che dà, all’insieme di tutte le sue qualità e dei suoi impulsi, l’impronta dell’unitarietà. Lo vedremo un giorno apparire come il profeta di una nuova religione, una religione i cui discepoli saranno degli eroi». 25 Infine, nel diario di Tautenburg, Lou Salomé descrive il carattere di Nietzsche adoperando la metafora di una vecchia fortezza: «Vi sono, nel carattere di Nietzsche, come in una vecchia fortezza, molti sotterranei oscuri e molti trabocchetti segreti che sfuggono all’osservatore superficiale e tuttavia costituiscono la sua vera natura». E si tratta, quasi, delle stesse parole che ella adopererà, dodici anni dopo, nel suo libro sul filosofo di Zarathustra.26

Anche Nietzsche ha raccontato delle giornate di Tautenburg, in una lettera scritta dopo la partenza di Lou che contiene un importante accenno alle reazioni scandalizzate provocate in famiglia dal soggiorno in Turingia della giovane russa e ancor più dai progetti della «trinità», inconcepibili per la rigida morale del tempo: «Ma la cosa più utile di quest’estate sono state le mie conversazioni con Lou. Le nostre intelligenze e i nostri gusti sono affini nel modo più profondo - e, d’altra parte, vi sono tra noi talmente tanti punti di disaccordo che siamo l’uno per l’altro oggetti e soggetti di osservazione dei più istruttivi. Non avevo mai conosciuto nessuno capace di ricavare una tale quantità di vedute obiettive dalle proprie esperienze, nessuno in grado di trarre tanto profitto dalle cose imparate. Ieri Rèe mi ha scritto: “A Tautenburg Lou è indubbiamente cresciuta di qualche pollice” - e forse lo sono anch’io. Mi chiedo se sia mai esistita una franchezza filosofica come quella che c’è tra di noi. Lou ora è tutta immersa nei libri e nel lavoro [...]. Tautenburg ha dato a Lou una meta. Ella mi ha lasciato una poesia toccante, Preghiera alla vita. Purtroppo mia sorella è diventata nemica mortale di Lou: dal primo all’ultimo giorno fu piena di indignazione morale, e ora pretende di sapere dove va la mia filosofia. Ha scritto a mia madre di “aver visto nascere a Tautenburg la mia filosofia e di esserne sconvolta: io amo il male, mentre lei ama il bene. Se lei fosse una buona cattolica andrebbe in convento per espiare tutto il male che ne risulterà”. In breve, ho contro di me la “virtù di

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Naumburg”, c’è una vera rottura tra noi - e anche mia madre una volta si è lasciata andare a tal punto con le parole che ho fatto preparare la valigia e di primo mattino sono partito per Lipsia ». 27 La prima e la seconda parte del libro di Lou Salomé su Nietzsche erano già pronte, almeno nelle loro linee generali, quando, agli inizi di ottobre, Nietzsche, Lou e Rèe si incontrarono nuovamente a Lipsia. Il nucleo originario dell’opera, ha scritto l’autrice, consisteva in una «descrizione del carattere di Nietzsche [...] che ebbi modo ili leggere e discutere con lui nell’ottobre del 1882. Il lavoro conteneva un abbozzo della prima parte di questo libro e alcune sezioni della seconda».28 Le vicende personali dei tre amici, però, fecero sì che il libro dovesse attendere ancora dodici anni prima di poter essere portato a termine e pubblicato. Dopo sole tre settimane di vita in comune, infatti, la «trinità» fu sciolta. Lou e Rèe andarono ad abitare insieme a Berlino, dove diedero vita a un vivace cenacolo culturale frequentato da personalità del calibro di Hermann Ebbinghaus, il fondatore della psicologia sperimentale, e Ferdinand Tönnies, uno dei padri della giovane sociologia tedesca. Nietzsche, deluso e ferito, riprese la via del Sud, stabilendosi a Rapallo e immergendosi nuovamente nelle sue meditazioni solitarie dalle quali nacque il primo libro dello Zarathustra. Non si rividero mai più.29

Quando, molti anni dopo, Lou Andreas-Salomé riprese in mano i suoi appunti per un profilo dell’amico di un tempo, si era già diffuso in Germania quello che di lì a poco Ferdinand Tönnies avrebbe definito II culto di Nietzsche. 30 Nel volgere di pochissimo tempo, forse anche a causa del crollo psichico che ne aveva avvolto la figura in un alone tragico, l’autore di Cosi parlò Zarathustra era divenuto, da semisconosciuto che era, il filosofo più in voga del momento. Così, Tönnies, interrogandosi su un fenomeno di sociologia della cultura così nuovo e insolito, avrebbe scritto: « Uno scrittore di cose filosofiche che viene letto da molti è già per questo qualcosa di notevole. E che dire quando viene letto con entusiasmo, quando il lettore si proclama suo seguace, quando i suoi pensieri vengono recepiti e diffusi come una liberazione e una rivelazione, quando si crede di aver trovato in un pensatore una guida nelle peregrinazioni della vita?».31

Se si deve prestar fede alla testimonianza di Andreas-Salomé, furono proprio la nascita improvvisa del culto nietzscheano, l’esigenza di sottrarre il filosofo di Zarathustra a equivoci, fraintendimenti e strumentalizzazioni, e il desiderio di contribuire alla corretta conoscenza della sua personalità filosofica a far sì che ella decidesse di riprendere il suo vecchio progetto di un libro su Nietzsche. Infatti, ha scritto Lou Andreas-Salomé descrivendo il rapido diffondersi della moda di Nietzsche, «sebbene da alcuni anni il nome di Nietzsche venga citato più di frequente di quello di qualsiasi altro pensatore e benché siano in molti a prendere la penna sia per procacciargli adepti sia per polemizzare contro di lui, ciò nondimeno egli è rimasto pressoché uno sconosciuto per quel che riguarda i tratti di fondo della sua personalità spirituale».32

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Così, tra il 1891 e il 1893, Lou Andreas-Salomé dedicò a Nietzsche un profilo sistematico e ben otto contributi parziali, nei quali anticipò quello che, rimaneggiato e opportunamente modificato, sarebbe stato poi il contenuto della sua opera maggiore. Nel 1891 pubblicò sul supplemento domenicale della «Vossische Zeitung» un primo ritratto di Nietzsche in tre puntate, che conteneva già la caratteristica suddivisione in tre fasi della riflessione nietzscheana e anticipava specialmente quella che sarebbe stata l’ultima parte del suo libro. Tra il 1891 e il 1892 diede alle stampe sulla « Freie Bühne » cinque articoli dedicati allo studio psicologico di Nietzsche nei quali rese note per la prima volta alcune delle lettere che il filosofo aveva indirizzato a lei e a Paul Rèe e sottolineò l’importanza dell’influsso esercitato da Rèe nel periodo di passaggio dalla metafisica d’artista di Schopenhauer e di Wagner alla fase positivistica del pensiero nietzscheano. Ancora nel 1892, sul «Magazin fur Litteratur», anticipò le parti del suo libro dedicate alla dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno, illustrandola sulla base di altre lettere inedite. Infine, nel 1893, nel supplemento culturale del «Berliner Tageblatt », diede in anteprima le pagine dedicate alla dottrina morale dell’ultimo Nietzsche e alla sua polemica contro la morale ascetica. 33

Friedrich Nietzsche nelle sue opere, infine, uscì a Vienna nel 1894, presso l’editore Karl Konegen, con la significativa dedica: «A uno sconosciuto, in fedele ricordo».

2. UNA STORIA DI DOLOREBasato in gran parte su materiali allora inediti come l’epistolario con Rèe e con la stessa Lou, corredato da due fotografie di Nietzsche e suddiviso in tre capitoli dedicati rispettivamente alla personalità, alle metamorfosi e al sistema nietzscheano, il libro di Lou Andreas-Salomé Friedrich Nietzsche nelle sue opere si apre con la riproduzione di una lettera del filosofo che fa da prefazione al volume e contiene l’idea che funge da motivo conduttore di tutta l’opera. Scrive Nietzsche: «Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali dei loro autori è davvero il pensiero di una “mente sorella”: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso la storia della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: “Questo sistema è stato confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può considerarsi morta”».34 Si tratta di un’idea che Nietzsche aveva ripreso ancora nel 1886 in Al di là del bene e del male dove, adoperando una formulazione efficacissima, aveva scritto: « Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires». 35

Se l’osservazione che ogni filosofia non è altro che una sorta di inavvertita autoconfessione vale per tutti quanti i filosofi che hanno eretto sistemi con l’illusione di poter dare una spiegazione oggettiva della realtà in grado di risolvere tutti gli enigmi del mondo, a maggior ragione deve valere per un pensatore come Nietzsche, il quale non solo non coltivava affatto simili

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illusioni, ma «pensava soltanto per sé, scriveva per sé, giacché descriveva soltanto se stesso, volgeva in pensieri il proprio io».36 Questo suo personalissimo stile di pensiero fa sì che tutta quanta la sua opera filosofica, con i suoi numerosi volumi di aforismi, appaia come « un solo grande libro di memorie», 37 e, nel contempo, rende vana l’impresa di chi voglia esaminare il filosofare nietzscheano alla ricerca del suo contributo teoretico alla visione del mondo del futuro: « Il valore dei suoi pensieri, infatti, non risiede nell’originalità teoretica, né in ciò che può essere fondato o confutato per via dialettica, bensì soltanto nella forza interiore con cui, nelle sue pagine, una personalità parla in quanto personalità, in ciò che, secondo le sue stesse parole, può esser sì confutato, ma non “considerato morto”».38

La filosofia di Nietzsche è, dunque, secondo Andreas-Salomé, una sorta di autobiografia, il « gigantesco riflesso del suo autoritratto»,39 e gli avvenimenti veramente importanti della sua vita sono sempre vicende ed esperienze di carattere interiore. Si tratta - è questa la tesi dell’autrice - della sofferenza causata dalla malattia, la quale rende tutta la sua vita paragonabile a una grande « storia di dolore »,40 e si tratta dell’« emozione per la morte di Dio », la quale fa sì che «la possibilità di trovare nelle forme più diverse della divinizzazione di se stesso un surrogato “per il Dio perduto”» sia «la storia del suo spirito, delle sue opere, della sua malattia».41 Sono, queste, idee e intuizioni che avevano avuto la loro prima formulazione già nel diario per Rèe e che assurgono ora a criterio metodologico che guida Andreas-Salomé nel corso della sua ricostruzione della personalità e del pensiero di Friedrich Nietzsche.La scrittrice si sofferma senza reticenze sulla malattia, che si era manifestata con attacchi ricorrenti sin dagli anni settanta, costringendo il brillante professore di filologia ad abbandonare la cattedra universitaria, e che alla fine aveva privato il filosofo delle sue facoltà intellettuali. Ella non solo riferisce di una affermazione dello stesso Nietzsche, il qual era convinto che si trattasse dell’eredità del medesimo male di cui era stato affetto suo padre,42 ma pone anche in relazione la malattia dell’autore di Così parlò Zarathustra con l’evoluzione del suo pensiero, sottolineandone il ruolo propulsivo. Scrive, infatti, Andreas-Salomé: « Una malattia che torna periodicamente a manifestarsi, quale era quella di Nietzsche, divide costantemente un momento della vita dall’altro, una fase speculativa da quella che la precede».43 Ed è proprio l’alternanza di salute e malattia, che rappresentava l’elemento caratteristico e sempre ritornante dell’esperienza interiore di Nietzsche e lo obbligava a continui autosuperamenti, a conferire alla sua personalità quel tratto eroico che Andreas-Salomé aveva già avuto modo di mettere in risalto nel diario di Tautenburg. Eppure, alla fine, Nietzsche «sprofondò e andò in rovina. Ma in una tale esperienza egli non poteva che rovinare. Nel medesimo processo che sempre di nuovo gli assicurava guarigione ed esaltazione, si celava già infatti il momento patologico ».44

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L’altro aspetto essenziale della personalità di Nietzsche, sul quale pure Andreas-Salomé aveva già insistito nel suo diario, è l’elemento di carattere religioso che, secondo la scrittrice, risulta predominante nella sua natura. Si tratta, tuttavia, di un impulso religioso che, dopo la morte di Dio, non poteva più trovare il suo pieno soddisfacimento in una divinità di tipo tradizionale. Nietzsche lo avrebbe rivolto allora al proprio interno, trasformandolo in una esaltazione e in una divinizzazione dell’individuo in generale e di se stesso in particolare: « La nostalgia di Dio, con il suo tormento, divenne un impulso alla creazione di Dio, e ciò dovette necessariamente esprimersi nella divinizzazione di se stesso».45 Ma questa forma di compensazione, questo simulacro del Dio perduto non poteva riuscire a soddisfare appieno il suo impulso religioso dominante. Perciò, «nel potente afflato religioso da cui origina ogni conoscenza di Nietzsche si trovano [...] indissolubilmente intrecciati in un nodo sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole l’annientamento e brama di autodivinizzazione, infermità dolente e convalescenza vittoriosa, ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza ».46

Delineati in questi termini i tratti essenziali della personalità di Nietzsche, Andreas-Salomé passa all’illustrazione dei motivi fondamentali del suo pensiero, proponendo la suddivisione dell’itinerario speculativo del filosofo in tre fasi caratteristiche. L’autrice descrive l’evoluzione del pensiero nietzscheano come «un movimento che ritorna su di sé, che non giunge mai a un punto d’arresto».47 «Non è dunque un caso» ella afferma «se Nietzsche, nel suo ultimo periodo di creatività, sia pervenuto alla sua mistica dottrina dell’eterno ritorno: l’immagine del circolo - di un eterno cambiamento in un’eterna ripetizione - sta come un simbolo miracoloso e un segno segreto sulla porta di accesso alle sue opere».48 La prima trasformazione di Nietzsche si compie negli anni della sua infanzia o della sua prima giovinezza. È la rottura con la fede cristiana, un’esperienza analoga a quella che la stessa Salomé adolescente aveva vissuto,49 ma che in Nietzsche rimase apparentemente senza conseguenze finché egli si sottopose a quella forma di autocostrizione che indubbiamente dovettero essere per lui gli studi filologici. Ma fu proprio lo studio dei greci, della loro arte e della loro religione, a indicargli quella che doveva essere la sua strada: «Egli pose così la propria erudizione filologica al servizio di ricerche di storia della cultura, di estetica e di filosofia della storia »,50 rinnovando radicalmente, sin dalla prolusione basileese su Omero e la filologia classica, l’idea stessa della filologia, del suo metodo e del suo compito. Il nuovo modello della scienza filologica trovò poi la sua geniale applicazione nella Nascita della tragedia, l’opera con la quale culmina la fase wagneriana e schopenhaueriana del pensiero di Nietzsche: «Wagner intendeva realizzare, all’interno della vita tedesca, quello stesso ideale di cultura artistica che Nietzsche aveva incontrato, come ideale, all’interno della vita greca. La metafisica di Schopenhauer, in ultima istanza, non aggiunge null’altro se non una sublimazione di questo ideale nella sfera mistica, nell’imperscrutabile pienezza di senso, quasi un’accentuazione che la vita e la conoscenza

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artistica ricevono in virtù dell’interpretazione metafisica ». 51 Allo stesso periodo schopenhaueriano e wagneriano del filosofare di Nietzsche appartengono anche le quattro Considerazioni inattuali. Andreas-Salomé si sofferma in particolare sulla Terza e sulla Quarta Inattuale, Schopenhauer come educatore e Richard Wagner a Bayreuth, definendole entrambe altrettante «Statue erette [...] in onore del genio»,52 educatore, guida e meta finale dell’umanità. L’autrice ha modo così di osservare come, specialmente nel caso della tematica del genio, il pensiero nietzscheano mostri con chiarezza il suo caratteristico sviluppo di tipo circolare. Infatti, secondo Andreas-Salomé, il culto del genio, che Nietzsche aveva appreso da Schopenhauer, sopravvive nella sua filosofia anche dopo l’abbandono della metafisica schopenhaueriana ripresentandosi, nell’ultimo periodo della sua meditazione, nella forma visionaria dell’anelito verso il superuomo: « Nel suo periodo intermedio egli prese apparentemente le distanze da questa prima concezione del genio, perché essa aveva visto venire meno lo sfondo metafisico su cui solo il profilo del grande “singolo” poteva stagliarsi nella sua sovrumana importanza come una figura di un mondo superiore e più vero. Ma l’idea del culto del genio conteneva uno spunto in direzione di ciò che Nietzsche, alla fine del suo percorso intellettuale, avrebbe nuovamente rielaborato con un colpo di geniale follia». 53

La scrittrice descrive poi il periodo che precede la seconda trasformazione del pensiero di Nietzsche, il passaggio alla fase positivistica del suo filosofare. È il momento della rottura del sodalizio con Wagner, che ella spiega sì con motivi puramente ideali, ma anche alludendo a ragioni «umane, troppo umane»; ragioni che vanno ricercate, forse, nella malattia di Nietzsche che proprio a partire da questo momento incomincia a manifestarsi in tutta la sua virulenza. E, a proposito dei rapporti tra Nietzsche e Wagner, Andreas-Salomé rivela due particolari dei quali era stata testimone diretta nell’estate del 1882: il pianto di Nietzsche dinanzi alla casa di Wagner a Tribschen e il fallito tentativo di riconciliazione compiuto da Malwida von Meysenbug a Bayreuth, sei mesi prima della morte di Wagner, in occasione della prima esecuzione del Parsifal.54

L’insorgere della malattia gioca, in ogni caso, un ruolo decisivo nella seconda metamorfosi di Nietzsche. Egli, infatti, sempre secondo la tesi di Andreas-Salomé, fu costretto sempre più dagli attacchi del suo male ad assumere solo se stesso a materia delle proprie riflessioni. Ne deriva che « gli scritti che seguono non nascono, come i precedenti, da una pienezza accumulata e accessibile al suo animo, non sono composti muovendo da una meta che egli crede di avere raggiunto; essi narrano piuttosto di come egli si orienti nella notte, di come proceda lentamente a tastoni; sono i passi tormentati, combattuti e infine vittoriosi in direzione di ima meta oscura ».55 Da questo momento in poi, si può dire che gli scritti di Nietzsche non siano altro che una grande autobiografia del dolore.Ma un ruolo altrettanto decisivo, nel passaggio dalla prima alla seconda fase del pensiero nietzscheano, Andreas-Salomé lo attribuisce all’amicizia di

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Nietzsche con Paul Rèe. Il rapporto di Nietzsche con Wagner era stato il rapporto di un discepolo nei confronti di un maestro. Il vincolo con Rèe fu, invece, un vincolo di cameratismo intellettuale, fatto soprattutto di studi in comune: «Tra i due amici nasce una peculiare forma di complementarietà del tutto opposta a quella che si era avuta un tempo tra Nietzsche e Wagner. Per Wagner - il genio dell’arte - Nietzsche avrebbe dovuto essere il pensatore e l’uomo della conoscenza, l’intermediario scientifico della nuova cultura artistica. Ora, al contrario, era Rèe il teoreta e Nietzsche lo completava ricavando le conseguenze pratiche dalle sue teorie e cercando di stabilirne il significato per la cultura e per la vita. Su questo punto, intorno al problema del valore, le personalità intellettuali dei due amici prendevano strade diverse. Là dove l’uno smetteva, l’altro cominciava. Come pensatore dall’approccio rigidamente unilaterale, Rèe non si fece mai influenzare da simili questioni; era lontano dalla ricchezza spirituale, artistica, filosofica e religiosa di Nietzsche, ma, dei due, era la mente più acuta».56

Gli autori di Ree, gli scrittori francesi di aforismi e i positivisti inglesi, i Réealia, come Nietzsche li definisce in una lettera,57 divennero i suoi autori. La compagnia di Rèe, stando a quanto afferma l’autrice, fu l’unica a dargli conforto durante i più violenti attacchi della malattia. Nacque così, dal loro sodalizio intellettuale, il primo volume di Umano, troppo umano. «L’intera opera risulta [...] pervasa da ciò a cui già il titolo allude in modo caratteristico: un lavoro concettuale di distruzione, la messa a nudo senza riguardi del carattere “troppo umano” di tutto quel che fino a ora veniva ritenuto sacro, eterno e sovrumano».58 La radicalità della metamorfosi che in Nietzsche si compie è illustrata da Andreas-Salomé attraverso il confronto delle posizioni espresse nelle opere del periodo positivistico - Umano, troppo umano, le sue due appendici, Opinioni e sentenze diverse e II viandante e la sua ombra, e Aurora -, con quelle appartenute alla fase precedente della sua riflessione. Così, mentre nella Nascita della tragedia Nietzsche aveva esaltato l’ebbrezza dionisiaca, ora abbraccia l’ideale socratico della conoscenza; mentre nelle Inattuali aveva eretto monumenti al genio, ora propone il nuovo ideale dello spirito libero; mentre in precedenza aveva esaltato ciò che è inattuale, ossia fuori dal tempo ed eterno, ora afferma che è necessario tornare vicini alle cose prossime. 59

Ma l’innovazione che maggiormente salta agli occhi, rispetto agli scritti del periodo precedente e grazie alla quale «Nietzsche creò [...] un nuovo stile nella filosofia»,60 è l’adozione dell’aforisma: «L’emicrania e il dolore agli occhi costringevano Nietzsche a lavorare per aforismi; ciò corrispondeva però in misura sempre maggiore anche alla sua indole spirituale, che non vedeva i propri pensieri di fronte a sé in una concatenazione continua, così come li si fissa su carta quando si lavora in modo sistematico, ma prestava invece loro ascolto come in un dialogo a due, un dialogo sempre interrotto e ripreso [...]». 61  Con La gaia scienza, l’opera che Nietzsche terminò proprio nei memorabili giorni di Tautenburg, si compie quella che Andreas-Salomé considera la terza

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trasformazione del filosofare nietzscheano. Essa, secondo l’autrice, coincide anche con l’allontanamento da Rèe, l’amico dal quale Nietzsche avrebbe preso commiato nella nuova opera dedicandogli, stando a quanto la scrittrice erroneamente afferma, l’aforisma intitolato «Amicizia stellare».62 Rispetto alla fase precedente, il nuovo indirizzo del pensiero di Nietzsche si caratterizza, da un lato, per il fatto che egli « scivola dentro al mondo della mistica », 63 e dall’altro, per il fatto che egli « si consacrò all’audacissimo sviluppo di un suo proprio sistema, aspirando ad abbandonare lo stile aforistico e frammentario». 64 Ma l’ultima fase del pensiero nietzscheano appare ad Andreas-Salomé soprattutto rivelatrice di quello che, secondo la sua interpretazione, era stato sin dal principio il tratto caratteristico della personalità di Nietzsche e del suo filosofare: l’impulso religioso. Scrive a questo proposito Lou Andreas-Salomé, in quella che è una delle pagine centrali della sua opera: « Soltanto all’inizio dell’ultima filosofia nietzscheana si mostra [...] con assoluta chiarezza fino a qual punto l’impulso fondamentale che domina la sua natura e la sua conoscenza sia quello religioso. Le diverse filosofie sono per Nietzsche altrettanti surrogati di Dio che lo devono aiutare a poter fare a meno di un ideale mistico di Dio al di fuori di se stesso. Le sue ultime dottrine confessano che egli non vi riuscì. E proprio per questo motivo nelle sue ultime opere noi ci imbattiamo ancora una volta in una lotta tanto appassionata contro la religione, la fede in Dio e il bisogno di salvezza: perché egli era così pericolosamente vicino a tutto questo. [...] Scorgiamo allora attraverso quale autoillusione e quale astuzia segreta Nietzsche riesca a risolvere il tragico conflitto della sua vita, -il conflitto di avere bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare. Modellando cioè dapprima, con fantasia ebbra di struggimento, sognando estasiato come in una visione, il mistico ideale del superuomo per poi, al fine di salvarsi da se stesso, tentare con un balzo mostruoso di identificarvisi».65

All’esposizione del « sistema » di Nietzsche è dedicato il terzo e ultimo capitolo dell’opera. L’odierna critica nietzscheana nega che si possa considerare Nietzsche come un pensatore sistematico e tende, anzi, a considerare come una caratteristica positiva la programmatica asistematicità di un pensiero che rifiuta di rinchiudere in una sola formula tutta quanta la realtà e preferisce piuttosto tentare di rendere conto della sua caotica complessità attraverso un difficile approccio prospettivistico, e perciò aforistico. Al tempo in cui Andreas-Salomé scriveva il suo profilo di Nietzsche, tuttavia, sottolineare la sistematicità del pensiero nietzscheano rispondeva a uno scopo ben preciso: in un’epoca in cui il pensiero filosofico non veniva concepito se non nella forma di un sistema chiuso e ben architettato, voleva dire rivendicare la filosoficità del pensiero di Nietzsche e la sua appartenenza a pieno titolo alla storia della filosofia nei confronti di tutti coloro i quali consideravano l’autore di Zarathustra un letterato: magari un grande letterato, ma soltanto un letterato. Il giudizio di Andreas-Salomé andrebbe dunque storicizzato, soprattutto se si considera che ella chiarisce subito come, a proposito di Nietzsche, si possa parlare solo « di un sistema che

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poggia più su di una tonalità emotiva generale che sulla chiara compattezza della deduzione concettuale».66

Di pari passo con lo sforzo di costruire un sistema e di superare la forma aforistica, nell’ultimo periodo creativo di Nietzsche si assiste, sempre secondo Andreas-Salomé, al tentativo di formulazione di una vera e propria teoria della conoscenza, che del sistema avrebbe dovuto costituire l’ossatura. E anche in questo caso il pensiero nietzscheano presenterebbe il suo caratteristico sviluppo circolare. Nella fase schopenhaueriana della sua meditazione, infatti, Nietzsche aveva aderito all’idea secondo la quale soltanto la volontà, e dunque gli istinti, erano in grado di garantire la risposta ai problemi metafisici. Nel periodo positivistico della sua riflessione egli aveva poi abbandonato questa concezione, per esaltare la conoscenza scientifica, pur nella sua ineliminabile limitatezza e relatività. Nell’ultima fase del suo filosofare egli propone, invece, una sorta di sintesi tra le due posizioni precedenti: « L’idea della relatività di ogni pensiero, la riduzione di ogni conoscenza intellettuale alla base assolutamente pratica della vita istintuale da cui essa è originata e da cui seguita a dipendere».67 Ma quello della teoria della conoscenza, soggiunge Andreas-Salomé, non è che un caso particolare di un fenomeno più generale al quale si assiste in tutta la terza fase del pensiero nietzscheano, nell’etica, nell’estetica e nella sua ultima mistica. Così, nello sviluppo del pensiero di Nietzsche, «sempre avremo modo di registrare la presenza di queste tre fasi evolutive: dapprima il collegamento a singole estreme conseguenze della scienza empirica moderna, quindi un capovolgimento del suo stato d’animo nel modo di concepire questi risultati - una loro esasperazione ed esagerazione fino all’estremo - e infine, derivanti da ciò, le sue nuove teorie. [...] Il contenuto teoretico vi risulta invece essere una congiunzione artistica delle due fasi dell’evoluzione intellettuale nietzscheana».68

Così è, ad esempio, per il nuovo ideale del filosofo che Nietzsche teorizza nelle sue ultime opere il quale, riconosciuta la limitatezza e la relatività di ogni conoscenza umana e la sua base meramente istintuale, diviene ima sorta di figura sovrumana la cui volontà decide del vero e del falso come del bene e del male.69 Così è per il concetto di decadenza che, condotto alle sue estreme conseguenze, diviene l’anelito verso il sacrificio spontaneo dell’umano al sovrumano.70 Così è per il concetto della volontà che, superato il determinismo del periodo positivista, è per lui ridivenuta libera, in vista del grande compito che deve affrontare. 71 Così è, infine, per la famigerata antitesi tra la morale degli schiavi e la morale dei signori, in cui gli «istinti terribili» delle caste dominatrici divengono per Nietzsche il mezzo per il suo scopo finale, la nascita del superuomo 72.L’antitesi tra la morale dei signori e la morale degli schiavi è, secondo Andreas-Salomé, una distinzione molto discussa e spesso sopravvalutata dagli interpreti dell’etica di Nietzsche, i quali se ne sono serviti per bollare come disumano il suo ideale di superumanità: « Del tutto a torto e con un

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fraintendimento grossolano gli è stato rimproverato il fatto che il suo “superuomo” possiede i tratti di un Cesare Borgia o di un depravato essere inumano, invece di quelli di un Gesù. Ma l’essere “inumano” non è in verità il modello, ma soltanto il piedistallo per il “superuomo”; egli rappresenta, per così dire, il blocco di granito grezzo necessario all’innalzamento della statua di una divinità».73

Ma, come osserva Andreas-Salomé, il limite della dottrina nietzscheana del superuomo è ben altro e di ben più grave portata: consiste nel fatto « che il suo ideale superumano è soltanto un’immagine contemplata, che la sua massima opera morale è solo un’opera d’arte». 74 L’etica, in tal modo, sconfina impercettibilmente nell’estetica e questa, a sua volta, si esprime, soprattutto nello Zarathustra, in una simbologia che si avvicina molto a quella di tipo religioso. Emerge, in tal modo, ancora una volta, la scaturigine segreta di tutta l’ultima filosofia di Nietzsche, il fatto, cioè, che essa nasca «dal bisogno di una redenzione di se stesso, dall’anelito di fornire alla propria interiorità dolente e inquieta quel sostegno che il credente trova nel suo Dio. Questo desiderio e questa aspirazione violenti ottengono infine, a forza, il loro soddisfacimento: si crea il Dio, o comunque una divina entità superiore in cui viene proiettato e trasfigurato il rovescio della propria immagine». 75 In tal modo, nella figura di Zarathustra è da vedere soltanto una trasfigurazione di Nietzsche stesso e cioè, secondo l’interpretazione dell’autrice, una sorta di «super-Nietzsche».76

La sopravvivenza nell’ultima filosofia di Nietzsche di motivi schopenhaueriani, coniugati adesso con la dottrina della metempsicosi appartenuta alla tradizione dell’antica filosofia indiana, si manifesta ancora una volta, secondo l’interpretazione di Andreas-Salomé, nella concezione che costituisce «sia le fondamenta sia il coronamento dell’edificio concettuale di Nietzsche»:77 la dottrina dell’eterno ritorno. Si tratta, infatti, di un tentativo di superare il sentimento tipicamente schopenhaueriano della tragicità dell’esistenza, attraverso la beatitudine del mistico. L’autrice narra con queste parole la maniera in cui Nietzsche, all’epoca di Tautenburg, le aveva rivelato il pensiero che per lui costituiva indubbiamente il peso più grande: «Non potrò mai dimenticare le ore in cui me lo confidò per la prima volta come un segreto, come qualcosa di fronte alla cui dimostrazione e conferma egli provava un orrore indicibile: ne parlava soltanto con voce sommessa e con tutti i segni del più profondo sgomento. E Nietzsche in effetti soffriva così profondamente della vita che la certezza del suo eterno ritorno doveva avere per lui qualcosa di raccapricciante ». 78 Perciò, stando alla testimonianza di Andreas-Salomé, egli aveva deciso di rendere nota la nuova dottrina solo nel caso di una sua incontrovertibile dimostrazione scientifica e aveva progettato di dedicarsi per alcuni anni allo studio della fisica, della chimica e della biologia, prima di presentarsi come il maestro dell’eterno ritorno. Le cose, tuttavia, andarono in modo del tutto diverso: «Quella che doveva diventare una verità dimostrata scientificamente, assunse il carattere di una rivelazione mistica, e da allora in poi Nietzsche

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assegnò alla sua filosofia, quale fondamento definitivo, invece di una base scientifica, l’ispirazione interiore, la sua personale ispirazione».79

Nietzsche, di conseguenza, prosegue Andreas-Salomé, non ha dato, né poteva dare, una chiara formulazione della sua idea dell’eterno ritorno. Chiare sono, invece, le conseguenze etiche che egli ne trasse: «L’antica dottrina indiana di un’eterna rinascita nella trasmigrazione delle anime, come maledizione che si abbatte su chi non sia giunto sino alla negazione di se stesso, viene addirittura rovesciata da Nietzsche. Non la liberazione dalla costrizione del ritorno, ma la felice conversione a essa è infatti per lui la meta della suprema aspirazione morale; non nirvana, ma samsara è il nome dell’ideale supremo. Questa correzione dell’elemento pessimistico in uno ottimistico è la vera differenza tra il primo pensiero di Nietzsche e quello della maturità, e rappresenta nell’evoluzione di questo solitario dolente un’eroica vittoria del superamento di sé».80

Ma questa vittoria poté essere conseguita da Nietzsche solo a prezzo della perdita di se stesso, solo a prezzo dello smarrirsi nell’oscura profondità della follia. Nell’autunno del 1888, osserva Andreas-Salomé, Nietzsche terminava il primo libro della Volontà di potenza: il Crepuscolo degli idoli. Lo scritto rivelava uno stato d’animo di spossatezza e di attesa della fine: Nietzsche passava, infatti, in quei giorni, « dal Crepuscolo degli idoli al crepuscolo del proprio spirito».81 

3. EVA CONTRO EVAQuando, nel 1894, il libro di Lou Andreas-Salomé Friedrich Nietzsche in seinen Werken vide la luce, accolto assai favorevolmente dalla critica, 4

Nietzsche, sprofondato ormai da cinque anni nell’abisso della follia, non potè leggerlo. Lo lesse, invece, sua sorella Elisabeth, la «nemica mortale di Lou», da poco rientrata in patria dal Paraguay, dopo il fallimento dell’impresa coloniale della Nueva Germania e il suicidio per debiti di suo marito Bernhard Forster. 83 L’esemplare dell’opera a lei appartenuto, conservato presso la Herzogin Anna Amalia Bibliothek di Weimar, ove sono confluiti i volumi che un tempo costituivano la biblioteca del Nietzsche-Archiv, reca ancora le tracce della sua lettura.84

Come si è accennato in precedenza, il libro di Andreas-Salomé si apre con due fotografie di Nietzsche. La prima di esse ritrae il filosofo di profilo agli inizi degli anni ottanta.85 La seconda è un’immagine di Nietzsche sofferente, che presumibilmente risale alla fine degli anni settanta, dove egli ha scritto di suo pugno: «Friedrich Nietzsche: già professore, ora fugitivus errans ». 86

Ed è accanto a questa seconda immagine che si trova la prima chiosa a matita, decifrabile soltanto in maniera lacunosa. Un «brutto scherzo», commenta Elisabeth Förster-Nietzsche riferendosi alla pubblicazione di quella fotografia. Con quale disposizione d’animo abbia poi continuato la lettura si può indovinare dal fatto che ella si impegnò a trovare e correggere tutti gli errori e le inesattezze, non molti in verità, nei quali era incorsa l’autrice. Così, là dove Andreas-Salomé parla di Aurora come della terza opera

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positivistica di Nietzsche, Elisabeth ha corretto: «La quarta». 87 E dove Lou ha affermato che l’aforisma della Gaia scienza che ha per titolo «Amicizia stellare» era dedicato a Paul Rèe, Elisabeth ha commentato: «Assurdo! Si riferisce a Wagner».88 Le sono sfuggiti, invece, l’errore commesso dalla scrittrice di origini russe nel narrare della fanciullezza di Nietzsche, allorché ella afferma che suo padre era stato pastore prima a Röcken e poi a Naumburg,89 e il riferimento a uno scritto nietzscheano intitolato Socrate e la filologia classica che, com’è noto, non è mai esistito.90

La parte del volume che reca il maggior numero di segni di lettura è quella nella quale Andreas-Salomé si sofferma sul rapporto tra Nietzsche e Paul Rèe. Così, là dove l’autrice sostiene che Rèe aveva avuto un influsso decisivo nel passaggio di Nietzsche dalla prima alla seconda fase del suo pensiero, Elisabeth Förster-Nietzsche commenta sarcastica: «Lui?».91 Lo stesso commento ricorre altre due volte, sempre a proposito dell’amicizia con Rèe: quando la scrittrice afferma che la compagnia di Rèe era l’unica che Nietzsche gradisse durante gli attacchi più violenti della sua malattia,92 e quando scrive dell’accordo sussistente tra le posizioni filosofiche di Rèe e quelle di Nietzsche, all’epoca di Umano, troppo umano . 93 Ma tutta l’opera è stata letta e studiata con attenzione, come dimostrano le molte sottolineature. Elisabeth si preparava, infatti, a sferrare il suo attacco contro colei che una volta aveva definito « una creatura bassa, sensuale, crudele e sporca ». 94

In un primo momento Elisabeth si limitò a polemizzare indirettamente con la scrittrice di origini russe, e lo fece nel primo volume della sua Vita di Friedrich Nietzsche, uscito nel 1895, a proposito della malattia che aveva colpito il filosofo e che, sulla base di una dichiarazione dello stesso Nietzsche, Andreas-Salomé aveva attribuito a un retaggio paterno. Si rischiava, così, di screditare tutta l’opera filosofica di Nietzsche, riconducendola a una tara ereditaria e questo Elisabeth non poteva certo permetterlo. Scrisse, allora, che suo padre, il pastore Carl Ludwig Nietzsche « alla fine di agosto del 1848 [...] accompagnò degli amici a casa; tornando alla sua dimora gli capitò tra i piedi, sulla soglia, il nostro cagnolino: inciampò e cadde all’indietro su sette scalini di pietra fin sul selciato del cortile. In tal modo fu colto da commozione cerebrale, cominciò ad avere dei disturbi e morì dopo undici mesi di malattia ». 95 Il male che aveva condotto suo padre alla morte aveva avuto, insomma, un’origine traumatica. Qualsiasi ereditarietà doveva, così, ritenersi da escludere.L’attacco in grande stile fu sferrato, invece, nel febbraio del 1895, dalle colonne del popolare «Magazin für Litteratur»: si tratta di un articolo intitolato Friedrich Nietzsche e la signora Lou Andreas-Salomé, firmato dal giovane collaboratore del Nietzsche-Archiv Fritz Kögel, ma che molto probabilmente venne ispirato dalla Förster-Nietzsche: un buon numero degli argomenti che vi sono prospettati, infatti, coincide con le annotazioni che «la sorella di Zarathustra » aveva registrato sulla sua copia del libro della odiata Lou.

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Kögel la prese per così dire alla lontana, introducendo il discorso con una carrellata sulla letteratura nietzscheana in Germania, tutta di scarsa qualità e di seconda mano. Dai pulpiti conservatori delle chiese cristiane, dalle tribune rivoluzionarie dei socialisti, dalle cattedre universitarie degli idealisti, afferma Kögel, tutti hanno preteso di dire l’ultima parola su Nietzsche. Fraintendendolo. Vicini, scolari, conoscenti, colleghi, amici hanno poi pubblicato ricordi, testimonianze, racconti, descrizioni, che servono molto di più a conoscere i loro autori che non a conoscere Nietzsche. A questo genere di letteratura appartiene anche Friedrich Nietzsche in seinen Werken. Con un’aggravante, però: il fatto che l’autrice non si è accontentata di dare la sua immagine di Nietzsche, ma ha preteso che essa fosse «la prima, anzi l’unica immagine di Nietzsche». Ma, esclama il collaboratore del Nietzsche-Archiv, «Io voglio dire chiaramente: considero questa immagine non veritiera», e soggiunge: «Il lettore di questo libro mi capirà quando dico che l’immagine che la signora Lou ha dipinto somiglia alla vera immagine di Nietzsche, come la seconda delle due fotografie che ella antepone al volume somiglia alla prima». 96

Di fronte a un libro come Friedrich Nietzsche in seinen Werken, prosegue Kögel, occorre porsi due quesiti preliminari: «Primo: era la signora Lou Andreas-Salomé donna in grado di scrivere il libro che contiene l’immagine di Nietzsche? Secondo: quando ella lo fece, era già giunto il momento di scrivere questo libro? ». 97

L’autrice suggerisce al lettore che la sua amicizia con Nietzsche le imponeva quasi il dovere di scrivere quel libro e le dava anche il diritto di divulgare delle lettere private, di raccontare di viaggi e soggiorni estivi, di narrare di colloqui sui pensieri e sulle esperienze più segrete del filosofo. Il lettore, in tal modo, è portato a credere che si sia trattato di un’amicizia molto intima e profonda quando, invece, correttezza avrebbe voluto che ella dicesse apertamente di aver conosciuto Nietzsche a Roma nel maggio 1882 e che, dopo un breve viaggio dal lago Maggiore a Basilea, e alcune settimane trascorse insieme, a Tautenburg nella Selva Turingia in estate e a Lipsia in autunno, « era scomparsa dalla vita di Nietzsche ».« La conoscenza - insomma - era stata di breve durata, e la separazione immediata e definitiva». Perciò: «La signora Lou ha da dare poco più che fantasie soggettive. L’immagine che ella fornisce scaturisce dalla sua fantasia, e meno da stati d’animo personali e torbidi ricordi, e per niente da studi fatti sulla sua vita. Senza conoscenza della sua vita precedente e successiva, in possesso di un assai scarso materiale epistolare, ella tappa le falle della sua conoscenza con congetture forse argute, ma sicuramente false». 98

Al secondo interrogativo, se cioè fosse giunto il momento di scrivere quel libro, Kögel risponde: «Chi costruirebbe ima casa le cui fondamenta poggino sulla sabbia? ». È noto a tutti, egli argomenta, che gran parte del materiale che avrebbe potuto consentire una corretta ricostruzione della personalità di Nietzsche, dei suoi rapporti umani, delle sue amicizie, dei suoi studi e del suo

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sviluppo spirituale è ancora inedita. Ma è noto, altresì, che essa non rimarrà inaccessibile agli studiosi ancora a lungo: la signora Elisabeth Förster-Nietzsche, infatti, ha già cominciato a pubblicare una biografia di suo fratello basata su materiali di famiglia, lettere e documenti di ogni genere e anche gli studi, gli abbozzi e gli scritti inediti di Nietzsche, ivi compreso « il suo capolavoro »,99 la Volontà di potenza, stanno per essere pubblicati. Stando così le cose, non si capisce perché la signora Andreas-Salomé si sia affrettata a pubblicare il suo profilo di Nietzsche. Voleva precedere qualcuno o temeva di arrivare troppo tardi? Certo, scrivere un libro «è difficile e per la maggior parte delle donne addirittura impossibile». Ma con materiali così scarsi era inevitabile che il suo lavoro risultasse « unilaterale, frammentario e falso».100

Così, ad esempio, sostiene Kögel, la ricostruzione che Andreas-Salomé propone del periodo di Basilea risulta assai lacunosa. All’autrice manca innanzi tutto la conoscenza di alcuni importanti scritti di quel periodo come La filosofia dell’epoca tragica dei greci e Lo stato greco, nei quali Nietzsche ha legato insieme filologia e filosofia. Ella, inoltre, ignora lo scritto degli anni settanta intitolato Su verità e menzogna in senso extramorale, e perciò può affermare che Nietzsche ha elaborato un abbozzo di teoria della conoscenza soltanto nel suo ultimo periodo creativo.Del tutto unilaterale è, invece, la parte del libro dedicata al passaggio dalla prima alla seconda fase dell’itinerario speculativo di Nietzsche: «Questa lunga sezione del suo libro» scrive Kögel «sembra scritta in maiorem Réei gloriam». 101 La «signora Lou» afferma, infatti, che Nietzsche ha compiuto questa sua metamorfosi sotto l’influsso di Paul Rèe. Ella ignora, però, che in una lettera del maggio 1878 lo stesso Nietzsche ha dichiarato che nella concezione della sua nuova filosofia Rèe non ha esercitato la benché minima influenza. 102 Il «Réealismo» di cui parla la «signora Lou» è, in realtà, frutto della sua fantasia: «Rèe non ha mai esercitato alcun influsso su Nietzsche; positivista, nel senso in cui la sola signora Lou lo ritiene, Nietzsche non lo è mai stato »; l’evoluzione del suo pensiero è avvenuta non a causa di influssi esterni, bensì unicamente per «necessità interna ». La « signora Lou » commette poi un altro grave errore quando afferma che Nietzsche aveva preso commiato da Rèe dedicandogli l'aforisma della Gaia scienza intitolato «Amicizia stellare». Con quelle parole, invece, Nietzsche aveva voluto ricordare il suo legame di un tempo con Richard Wagner. Ma, prosegue Kögel, « questo esempio è solo uno dei tanti di come la signora Lou spieghi i pensieri di Nietzsche in maniera sovranamente arbitraria, seguendo il capriccio delle sue costruzioni ». 103

Pertanto - è questo il tenore del giudizio di Kögel - si può dire che « questo ritratto non è un ritratto, ma una fantasia »: secondo la «signora Lou», Nietzsche non sarebbe altro che un debole malato, la sua vita consisterebbe unicamente in ima storia di dolore e la sua filosofia metterebbe capo a una mistica che doveva necessariamente sfociare nella follia. Ella, in tal modo, riduce Nietzsche a una specie di «idiota», a una «marionetta», a una «caricatura». Interi aspetti della sua personalità vengono invece passati

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sotto silenzio: la nobiltà del suo carattere, l’imperturbabilità del suo animo, il calore dei suoi sentimenti di amicizia, ma soprattutto ciò che vi è di vivo e vitale nella sua personalità e nella sua opera e che assicura effetti duraturi al suo pensiero. Perciò, « questo libro di una “amica” è il libro più pericoloso che potesse essere scritto non su Nietzsche, bensì contro Nietzsche».104 Ma, conclude Kögel con un ultimo accento di misoginia, «noi, noi uomini, non vogliamo farci sottrarre l’uomo Nietzsche, il lottatore e il combattente, questa fiera e libera figura, dagli artifici di ima nevrotica psicologia da donne».105

Fin qui Kögel-Elisabeth. L’opera di Andreas-Salomé, tuttavia, continuava a riscuotere i favori della critica.106 Il fuoco di fila contro Friedrich Nietzsche in seinen Werken, perciò, proseguì di lì a poco a opera di un altro studioso all’epoca collaboratore del Nietzsche-Archiv, quel Rudolf Steiner che più tardi sarebbe divenuto il capo del movimento antroposofico. Questi, nel 1895, pubblicò un libretto intitolato Friedrich Nietzsche. Un lottatore contro il suo tempo, nella cui prefazione non si lasciò sfuggire l’occasione per rinfocolare le polemiche a proposito del libro di Lou Andreas-Salomé, prendendo di mira, oltre alla ormai usuale questione dei rapporti tra Nietzsche e Rèe, l’interpretazione in chiave mistica del concetto di superuomo. Scrisse infatti: «Lo scopo finale dell’opera di Nietzsche è la descrizione del tipo del Superuomo. Alla caratterizzazione di questo tipo mi sono dedicato come a uno degli scopi principali del mio scritto. La mia immagine del Superuomo è l’esatto contrario della caricatura che è contenuta nel libro su Nietzsche, attualmente diffusissimo, della signora Lou Andreas-Salomé. Nulla al mondo è più contrario allo spirito di Nietzsche che il mostro mistico che la signora Salomé ha fatto del Superuomo. Il mio libro dimostra che in nessun luogo, nelle idee di Nietzsche, si trova la benché minima traccia del mistico. Non mi sono impegolato, invece, nella confutazione dell’idea della signora Salomé secondo la quale il pensiero di Nietzsche, in Umano, troppo umano, è stato influenzato dalle argomentazioni di Paul Rèe, l’autore delle Osservazioni psicologiche e dell' Origine dei sentimenti morali. Teste come Paul Rèe non possono aver esercitato alcun significativo influsso su Nietzsche. Non avrei menzionato qui queste cose, se il libro della signora Salomé non avesse contribuito così tanto a diffondere opinioni addirittura ripugnanti a proposito di Nietzsche».107

Ma non era ancora abbastanza. Infatti, alla fine, anche Elisabeth Förster-Nietzsche in persona diede di mano alla penna per criticare quella che considerava una ricostruzione falsa e menzognera della personalità di suo fratello e un’interpretazione completamente fuorviante delle sue dottrine filosofiche. E lo fece nel testo che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere il riferimento fondamentale per tutti coloro i quali si fossero accostati a Nietzsche: la Vita di Nietzsche, giunta nel 1897 al secondo volume. Così, nella prefazione ebbe a scrivere: «Nessuno faccia il tentativo, del tutto infruttuoso, di accordare qualche aspetto di questa biografìa con il libro della signora Lou Andreas, Friedrich Nietzsche nelle sue opere. Il libro suddetto è

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una falsificazione della personalità, del carattere, ma prima di tutto dello sviluppo spirituale e della dottrina di mio fratello. È uscito un gran numero di scritti su mio fratello, ma ciò che rende così ripugnante il libro della signora Andreas è che essa vi si comporta come la Pizia che deve annunciare i segreti divini che le sono stati affidati. Quanti errori ne sono scaturiti, poiché amici e nemici credono che in questo libro parlino a loro veramente i pensieri più intimi di Nietzsche e invece le idee fondamentali della signora Andreas su mio fratello sono del tutto sbagliate e anzi contrarie alla verità. In particolare ella crea di testa sua la verità secondo la quale cerca di ricondurre il nucleo fondamentale del carattere e dello sviluppo di mio fratello a cause puramente patologiche e dimostra di non possedere la minima sensibilità per la sua vera personalità. L’effetto di questa falsa rappresentazione è ovvio: infatti la signora Andreas con questa concezione viene incontro a una corrente di quest’epoca, che vorrebbe spiegare ogni grandezza spirituale a partire dalla patologia».109

Nel 1904, infine, pubblicando una nuova edizione della seconda parte della sua vita di Nietzsche, «la sorella di Zarathustra» soppresse quella prefazione, ma realizzò quello che è indubbiamente un piccolo capolavoro di perfidia. Infatti, nel narrare gli avvenimenti della vita di Nietzsche nell’anno 1882, non solo ebbe modo di ribadire il suo giudizio liquidatorio a proposito del libro di Andreas-Salomé, ma soprattutto colse l’occasione per raccontare la sua verità a proposito di tutto l’affaire Lou.Al nome di Lou Andreas-Salomé, esordiva Elisabeth con il tono di chi si appresta a rivelare al lettore chissà quali segreti, «sono collegate esperienze molto penose sia per la vita di mio fratello, sia per la mia stessa vita ».110 In effetti, ella scriveva, «non avrei assolutamente pensato di parlarne così dettagliatamente se la signora Lou Andreas non avesse pubblicato un libro su Nietzsche che io debbo additare come una presentazione totalmente falsa e non veritiera dall’inizio alla fine, anzi come un atto di vendetta della vanità femminile ferita contro Nietzsche malato, che non poteva più difendersi. Perciò sono proprio costretta a mostrare nella sua vera luce la presunta amicizia della signora Andreas». 111

Erano stati Paul Rèe e Malwida von Meysenbug a suggerire a Nietzsche di prendere come sua allieva la signorina Salomé, «ma tutta la faccenda, da tutte le parti e sin dall’inizio era stata uno spiacevole equivoco ». Nietzsche, infatti, in quel periodo di profondissima solitudine, desiderava più di ogni altra cosa di avere dei discepoli, «ma la signorina Salomé non era minimamente in grado di diventare allieva e discepola di Nietzsche», sia per il suo carattere, sia per l’ambiente nel quale aveva vissuto sino a quel momento.112I consigli di Rèe e di Malwida erano stati dati in perfetta buona fede, « ma il più ingenuo di tutti fu mio fratello ».113

Elisabeth proseguiva il suo attacco rendendo noto il testo di una lettera di Nietzsche alla madre di Lou, in realtà un abbozzo forse mai spedito, nella quale a suo dire era espresso il vero giudizio di Nietzsche a proposito della sua aspirante discepola: «Mi avevano parlato e mi avevano scritto della

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signorina Sua figlia come se ella fosse troppo buona per questo mondo, una martire della conoscenza sin dall’infanzia, che sacrificava qualsiasi felicità e qualsiasi piacere della vita, anzi, la salute, per un unico scopo: la verità; totalmente altruista e sperimentata da una lunga scuola di sacrificio. Io non voglio dire in quale misura mi sia dato da fare per conservare anche l’ultima ombra di questa immagine, e quante cose abbia per questo dovuto ignorare e perdonare [...]. Mia sorella e io - abbiamo entrambi tutte le ragioni per cancellare in nero dal calendario della nostra vita la conoscenza della signorina Sua figlia».114 Quando erano partiti da Roma alla volta della Germania, tuttavia, Nietzsche nutriva ancora l’illusione di fare della ragazza una sua allieva e fu per questo che accettò il consiglio di Rèe e di Malwida di dedicare le sue vacanze a una prima iniziazione filosofica della sua nuova scolara.Noi sappiamo che le cose erano andate ben diversamente: che Nietzsche già a Roma si era invaghito della giovane russa e che era stato lui a insistere perché ella lo raggiungesse nella Selva Turingia. Ma questo Elisabeth non poteva ammetterlo. Così prosegue il suo racconto con altre falsità: «Dopo alcuni giorni a Bayreuth, dove ascoltammo insieme il Parsifal, e io con mia sorpresa scoprii che la signorina Salomé aveva inclinazione più per i nemici di mio fratello che per i suoi amici, cominciò a Tautenburg l’iniziazione alla sua filosofia — come sembra, non con reciproca soddisfazione di entrambi».115 Fu per questo motivo che, nonostante il desiderio di Nietzsche di avere dei discepoli e dei seguaci, il rapporto fu interrotto già nel novembre successivo.La tesi di Elisabeth, dunque, era che non si fosse trattato di una amicizia e men che meno di una faccenda sentimentale, bensì esclusivamente di un rapporto di discepolato, oltretutto d’assai breve durata, dal momento che, una volta preso atto delle reali capacità della sua aspirante allieva, Nietzsche aveva interrotto ogni relazione con lei. Perciò, dichiarava Elisabeth, « ciò che io respingo, è che ella, dopo che Nietzsche fu divenuto celebre e malato, abbia avuto l’ardire, per usare una parola forte, di presentarsi come l’amica di Nietzsche e come tale di scrivere un libro falso su di lui. E che cosa ha scoperto in questo libro! Colloqui che mai hanno avuto luogo, confidenze da lettere che non sono mai esistite, fatti che non sono mai accaduti [...]. La signora Andreas descrive solo una costruzione di fantasia, della quale si può essere sicuri di una cosa sola: che non è Nietzsche ».116

Per una critica più puntuale del libro, Elisabeth rinviava agli scritti di Kögel e di Steiner. Coglieva, tuttavia, l’occasione per ripetere ancora una volta che l’aforisma « Amicizia stellare» non era dedicato a Paul Rèe, bensì rappresentava il tributo alla memoria del sodalizio con Wagner e per ribadire nuovamente che Rèe non poteva aver esercitato il benché minimo influsso sull’evoluzione del pensiero di Nietzsche. Ma, in realtà, «tutto il libro non è scritto su Friedrich Nietzsche, bensì in onore del dottor Paul Rèe, che viene anzi esaltato in maniera abbastanza strana a spese di Nietzsche».117 Eppure, concludeva la Förster-Nietzsche, proprio Rèe, poco

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prima di morire, aveva scritto al Nietzsche-Archiv allo scopo di prendere le distanze da Lou Andreas-Salomé e precisare di non aver avuto alcun rapporto con lei da più di dieci anni.118

Lou Andreas-Salomé non rispose a quella che aveva tutti i connotati di una vera e propria campagna di diffamazione scatenata non soltanto nei confronti del suo libro ma anche, e forse soprattutto, nei confronti della sua persona. Solo nelle sue memorie, pubblicate postume, troviamo una sommessa allusione a quelle polemiche. Scrisse, infatti, Andreas-Salomé nello sguardo retrospettivo alla sua vita: «II mio libro Friedrich Nietzsche nelle sue opere è stato scritto con assoluta spregiudicatezza, per smentire l’interpretazione equivoca che alcuni critici letterari di dubbia fama avevano dato alla sua opera. Anche io avevo capito appieno l’immagine spirituale di Nietzsche solo dopo la mia relazione personale con lui; ero solo preoccupata di rendere comprensibile la sua figura mediante queste impressioni obiettive».119

Gli attacchi, le polemiche e le stroncature, alla fine, sortirono l’effetto desiderato, Il libro di Andreas-Salomé venne per lungo tempo dimenticato o preso in considerazione solamente come un episodio dei rapporti personali tra Nietzsche e la scrittrice di origini russe. Negli anni settanta, la cultura d’ispirazione femminista ebbe il merito di riproporlo all’attenzione non solo degli studiosi, ma anche del grande pubblico.120 Oggi esso appare non soltanto come l’atto di omaggio, a tratti accorato e commosso, dell’amica nei confronti dell’amico, non solo come un documento che può incuriosire lo storico delle alterne vicende della «fortuna» di Nietzsche nella cultura europea tra Otto e Novecento, ma soprattutto come un contributo che, nonostante alcuni giudizi inevitabilmente datati, risulta ancora assai utile alla comprensione della personalità e del pensiero del filosofo di Zarathustra.

Lecce-Urbino, 1998

1 Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien 1894.2 Una prima traduzione italiana, ormai da tempo fuori commercio, era apparsa nel 1979: cfr. L. Andreas-Salomé, Nietzsche. Una biografia intellettuale, con un saggio introduttivo di M. Ciampa e N. Fusini, trad. it. di A. Barbaranelli e G. Maragliano, Roma 1979.3 K. Lowith, Nietzsche e l’eterno ritorno, trad. it. di S. Venuti, Bari 1985, Per una storia delle interpretazioni di Nietzsche (1894-1954), p. 200.4    M. Montinari, Che cosa ha veramente detto Nietzsche, Roma 1975, p. 138.5    S. Giametta, Saggi nietzschiani, Napoli 1998, p. 13.6    Per la biografia di Lou Andreas-Salomé cfr. H.F. Peters, Mia sorella, mia sposa. La vita di Lou Andreas-Salomé, prefazione di R. Fertonani, Milano 1979. In proposito cfr. anche W. Ross, Lou Andreas-Salomé. L'incontro con Nietzsche, Rilke e Freud, trad. it. di M. Ferrando, Bologna 1994.

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7 Cfr. M. von Meysenbug, Mémoires d’une idéaliste. Entre deux revolutions 1830-1848, Genève-Bâle 1869, poi in edizione tedesca ampliata, Memoiren einer Idealistin, 3 Bde., Stuttgart 1875-1876; inoltre, Lebensabend einer Idealistin, Berlin 1898.8 Cfr. [P. Rèe,] Psychologische Beobachtungen. Aus dem Nachlass von..., Berlin 1875.9 F. Nietzsche, Epistolario 1873-1879, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, trad. it. di M.L. Pampaioni Fama, «Notizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni, Milano 1995, lettera n. 554 a Reinhart von Seydlitz, Basilea, 24 settembre 1876, p. 172.11    Cfr. P. Rèe, Der Ursprung der moralischen Empfindungen, Chemnitz 1877.12    Cfr. F. Nietzsche, Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister. Dem Andenken Voltaire’s geweiht zur Gedächtnis-Feier seines Todestages, des 30. Mai 18/8, Chemnitz 1878.13 L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, a cura di U. Olivieri, Firenze-Rimini 1975, pp. 69-70.14    F. Nietzsche, Briefwechsel, Kritische Gesamtausgabe hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin-New York 1975, vol. III, tomo 1, Briefe von Nietzsche 1880-1884, lettera n. 215 a Paul Rèe a Roma, Genova, 21 marzo 1882, pp. 185-186.15    F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 2, Briefe an Nietzsche 1880-1884, lettera n. 115, Malwida von Meysenbug a Nietzsche a Genova, Roma, 27 marzo 1882, pp. 247-248.16 Ivi, lettera n. 118, Paul Rèe a Nietzsche a Messina, Roma, 20 aprile 1882, p. 251.17 L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, cit., p. 74.18 Cfr. Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, hrsg. von E. Pfeiffer, Frankfurt 1970, lettera di Malwida von Meysenbug a Lou von Salomé ad Amburgo, Roma, 6 giugno 1882, p. 133. Cfr. anche F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 237 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, 7 giugno 1882, p. 201, dove anche Nietzsche parla della «nostra trinità».19    Molti anni più tardi, intervistata in proposito dal suo vecchio amico Ernst Pfeiffer, pare che ella si fosse trincerata dietro un femminilissimo e civettuolissimo «non ricordo». Cfr. W. Ross, Loti Andreas-Salomé. L’incontro con Nietzsche, Rilke e Freud, cit., p. 20.20    Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 87: «[...] me lo rivedo davanti allorché, durante un viaggio che facemmo insieme dall’Italia attraverso la Svizzera, visitò con me la tenuta di Tribschen, vicino a Lucerna, il luogo in cui aveva trascorso con Wagner un periodo indimenticabile. A lungo, molto a lungo egli sedette in silenzio sulla sponda del lago, immerso in grevi ricordi; quindi, disegnando con la punta del bastone sulla sabbia umida, parlò con voce sommessa di quei tempi andati. Quando alzò lo sguardo, stava piangendo». «Tribschen - una lontana

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isola dei beati »: con quest’epiteto Nietzsche ricorda la casa di Wagner sul lago di Lucerna ancora in Ecce homo: E Nietzsche, Ecce homo, trad. it. di R. Calasso, in Opere, edizione condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano 1964, vol. vi, tomo 3, p. 332.21 L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, cit., pp, 78-79. Nell’immagine del «sentieri del camosci» è chiaramente percepibile l’eco delle metafore montane di Nietzsche.22 Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, cit., p. 182, Tagebuch für Paul Rèe.23    Ivi, pp. 186-187.24    Ivi, pp. 189-190.25 Ivi, p. 184.26 Ivi, p. 185. Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 30.27 F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 301 a Franz Overbeck a Basilea, Lipsia, 9 settembre 1882, pp. 255-256. Per il testo della Preghiera alla vita cfr. ivi, lettera n. 295 a Heinrich Köselitz a Venezia, Naumburg, i° settembre 1882, p. 249: «Certo così un amico ama l’amico, / come io amo te, vita piena di enigmi! / Che io per te abbia gioito o pianto, / che tu mi abbia donato sofferenza o piacere, / ti amo, con la tua felicità e col tuo affanno, / e se devi annientarmi, / mi strapperò con dolore dal tuo abbraccio, / come l’amico dal petto dell’amico. / Mi stringo a te con tutte le mie forze, / lascia che la tua fiamma incendi il mio spirito / e nell’ardore della lotta io trovi la soluzione del tuo enigma! / Millenni per pensare e per vivere! colmali della tua pienezza. - / Non hai più altra felicità da darmi, / bene - dammi la tua pena». La Preghiera alla vita, musicata da Nietzsche, verrà pubblicata con il titolo Inno alla vita dall’editore musicale Fritsch, nel 1887. Oggi si può ascoltare in F. Nietzsche, Lieder, Philips Classics Production, 1995.28 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 4. A questo testo, che originariamente si intitolava Caratterizzazione di me stesso, fa riferimento anche Nietzsche in una lettera a Lou Salomé scritta nel settembre 1882 e cioè prima di averlo letto. Cfr. F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo i, lettera n. 305 a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente 16 settembre 1882, p. 260.29 Lou Salomé e Paul Ree vivranno insieme a Berlino in una libera unione che provocherà lo scandalo dei benpensanti tra i quali Elisabeth Nietzsche, che giungerà a minacciare di denunciare i due concubini alla polizia. Il loro rapporto tuttavia non durerà a lungo: nel 1885 Lou si fidanzerà con l’orientalista Friedrich Carl Andreas, che sposerà nel 1887, divenendo la signora Lou Andreas-Salomé. D matrimonio durerà fino al 1930, anno della morte di Andreas. Nel frattempo Lou vivrà un’intensa passione e una lunga amicizia con il poeta Rainer Maria Rilke e parteciperà, con Sigmund Freud, all’avventura della nascita della psicanalisi; morirà a Göttingen nel 1937. Rèe, pur non abbandonando gli interessi filosofici, si dedicherà agli studi di

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medicina. Laureatosi nel 1890, svolgerà un’intensa e disinteressata attività di filantropo, dapprima a favore dei contadini della tenuta di Stibbe e successivamente per le popolazioni montane dell’Alta Engadina; morirà nel 1901, cadendo in un dirupo, in circostanze poco chiare. Nietzsche precipiterà nell’abisso della follia nel gennaio 18 89. La comune amica Malwida von Meysenbug morirà a Roma nel 1903.30 Cfr. F. Tönnies, Il culto di Nietzsche [1897], a cura di E. Donaggio e D.M. Fazio, Roma 1998. Sulla «fortuna» di Nietzsche in Germania sino all’anno della sua morte, cfr. R.F. Krummel, Nietzsche und der deutsche Geist. Ausbreitung und Wirkung des Nietzscheschen Werkes im deutsche Sprachraum bis zum Todesjahr des Philosophen. Ein Schrifttumsverzeichnis der Jahre 1867-1900, Berlin-New York 1974.31 F. Tönnies, Il culto di Nietzsche, cit., p. 47.32 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 6.33    Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche, in «Vossische Zeitung», II, 18 e 25 gennaio 1891; Zum Bilde Friedrich Nietzsches. Eine psychologische Studie, in «Freie Bühne», II, gennaio e febbraio 1891, pp. 64-68, 88-91, 109-112; in, marzo e maggio 1892, pp. 249-258, 483-496; Ein Apokalyptiker. Über die Wiederkunftslehre Friedrich Nietzsches nebst Beigabe ungedruckter Briefe, in «Das Magazin für Litteratur», lxi, 19 e 26 novembre 1892; Ideal und Askese. Ein Beitrag zur Philosophie Friedrich Nietzsches, in «Berliner Tageblatt », supplemento « Der Zeitgeist »,15 maggio 1893.34    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., pagine non numerate. La lettera di Nietzsche a Lou von Salomé, scritta da Lipsia verosimilmente il 16 settembre 1882, è in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo i, lettera n. 305, pp. 259-260.35 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male. Preludio di una filosofia dell’avvenire, trad. it. di F. Masini, in Opere, cit., vol. vi, tomo 2, af. 6, p. 11.36 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 3-37 Ivi, p. 6.38 Ivi,p. 5.39 Ivi, p. 23.40 Ivi, p. 19.41 Ivi,pp. 38-3942 Cfr. ivi, p. 8. In proposito cfr, anche quanto afferma lo stesso Nietzsche in una lettera del 1876: «[...] Ormai non potevo avere alcun dubbio di essere torturato da una grave malattia al cervello Mio padre è morto a 36 anni di infiammazione cerebrale, ed è possibile che per me ciò avvenga ancor prima» (F. Nietzsche, Epistolario 1873-1879, cit., lettera n. 498 a Carl von Gersdorff, Basilea, 18 gennaio 1876, pp. 121-122), nonché le pagine di Ecce homo in cui Nietzsche scrive: «Mio padre morì a trentasei anni: era dolce, amabile e morboso, come un essere fatto per passare oltre - un ricordo benevolo della vita, più che la vita stessa. Nell’anno stesso in cui era declinata la sua vita, declinò anche la mia »; e dove parla di « quella brutta

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eredità paterna - in fondo la predisposizione a una morte precoce» (F. Nietzsche, Ecce homo, cit., pp. 271 e 335). Si tratta, tuttavia, di testi che Andreas-Salomé non poteva conoscere perché, all’epoca, ancora inediti.43    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 17.44    Ivi, p. 31.45    Ivi, p. 40.46 Ivi, p. 35.47 Ivi, p. 49.48    Ivi, pp. 49-50.49    Cfr. L. Andreas-Salomé, Il mito di una donna, cit., pp. 31-32; nonché, sotto lo pseudonimo di Henri Lou, Im Kampf um Gott, Leipzig-Berlin 1885, e, infine, Die Stunde ohne Gott und andere Kindergeschichten, Jena 1922.50    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen "Werken, cit., p. 58.51    Ivi, p. 60.52    Ivi, p. 71.53    Ivi, p. 72.54    Cfr. ivi, pp. 82-87.55    Ivi, p. 90.56    Ivi, pp. 119-120. Cfr. in proposito il passo del già citato diario per Rèe, dove Andreas-Salomé, confrontando le personalità dei due amici, adopera gli stessi concetti e, quasi, le stesse parole.57    Cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1873-1879, cit., lettera n. 689 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 384.58 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 105.59 Cfr. F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, trad. it. di S. Giametta in Opere, cit., vol. iv, tomo 3, af. 16, « In che cosa è necessaria l’indifferenza», p. 144: «Noi dobbiamo ridivenire buoni vicini delle cose prossime e non distogliere da esse lo sguardo così sprezzantemente come finora si è fatto, mirando alle nuvole al di là da esse e ai mali spiriti della notte».60    L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 127.61    Ivi, p. 129. Cfr. quanto Nietzsche scrive sulla gestazione de II viandante e la sua ombra, in una lettera che, tuttavia, Andreas-Salomé non poteva conoscere: « Tutto, eccettuate poche righe, è stato concepito cammin facendo e appuntato a matita su 6 piccoli taccuini: il trascriverlo mi faceva star male quasi ogni volta. Ho dovuto lasciar perdere una ventina di concatenazioni di pensieri un po’ più estese, purtroppo veramente essenziali, perché non trovavo mai il tempo di estrarle da quegli orribili scarabocchi a matita: proprio come mi è successo già l’estate scorsa. In seguito il nesso dei pensieri mi esce di mente: mi tocca mettere insieme i minuti e i quarti d’ora di “quella energia cerebrale” di cui Lei parla, sottraendoli a un cervello sofferente»: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 889 a Heinrich Köselitz, Naumburg, 5 ottobre 1879, p- 400.

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62 Cfr. L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 142, nota. In realtà, essendo stato scritto quando Nietzsche, Lou e Rèe coltivavano ancora il loro progetto della «trinità», «Amicizia stellare» non può essere dedicato a Rèe. E infatti è dedicato a Wagner. Scrive Nietzsche: «Amicizia stellare. Eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così e non vogliamo dissimularci e mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene. Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto: allora i due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all'ancora in uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che avevano tutta l’aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa per tutti e due. Ma proprio allora l’onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l’uno lontano dall’altro, in diversi mari e zone di sole e forse non ci rivedremo mai - forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli ci hanno mutati! Che ci dovessimo divenire estranei è la legge incombente su noi: ma appunto per questo dobbiamo diventare più degni di noi! Appunto per questo il pensiero della nostra trascorsa amicizia deve diventare più sacro. Esiste verosimilmente un’immensa invisibile curva e orbita siderale, in cui potrebbero essere ricomprese, quasi esigui tratti di strada, le nostre diverse vie e mete, innalziamoci a questo pensiero! Ma la nostra vita è troppo breve, troppo scarsa la nostra facoltà visiva per poter esser più che degli amici nel senso di quella nobile possibilità. E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un l’altro»: F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, in Opere, cit., vol. v, tomo 2, af. 279, p. 189.63 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit., p. 135.64 Ivi, p. 141.65    Ivi, p. 147.66    Ivi, p. 154.67    Ivi, p. 156.68    Ivi, pp. 157-158.69 Cfr. ivi, pp. 166-167.70    Cfr. ivi, p. 178.71    Cfr. ivi, p. 181.72    Cfr. ivi, p. 201.73    Ibidem.74    Ivi, p. 208.75 Ivi, p. 213.76 Ivi, p. 212.77 Ivi, p. 220.78 Ivi, p. 222. « Il peso più grande » è il titolo dell’aforisma di La gaia scienza nel quale Nietzsche per la prima volta prospetta l’ipotesi dell’eterno ri torno: cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., af. 341, pp. 236-237,79 L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, cit,, p. 225.80 Ivi, p. 229.

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81 Ivi, p. 261.82 L’anonimo recensore del «Literarisches Centralblatt für Deutschland», 1° dicembre 1894, coll. 1756-1757, lo definì «il più serio e fondato tentativo di chiarire l’impostazione, gli influssi esercitati su di esso e i mutamenti » del pensiero di Nietzsche.83    Tomata in Germania nel settembre del 1893, Elisabeth Förster-Nietzsche assunse immediatamente nelle proprie mani la gestione del lascito letterario di Nietzsche. Il 2 febbraio 1894 fondò a Naumburg, in un locale a pianterreno della casa materna, il Nietzsche-Archiv, con lo scopo di coordinare la riedizione delle opere del fratello e curare la pubblicazione degli inediti. Divenuta nel 1895 l'unica erede di tutti i diritti letterari, nel settembre 1897 trasferì la sede dell’archivio a Weimar, nella Villa Silberblick. Per la biografia di Elisabeth Förster-Nietzsche cfr. H.F. Peters, La sorella di Zarathustra. Biografia di Elisabeth Förster-Nietzsche, trad. it. di B. Baumbusch, Firenze 1977. Per la storia del Nietzsche-Archiv, cfr. D.M. Hoffmann, Zur Geschichte des Nietzsche-Archivs, Berlin-New York 1991.84    Weimar, Herzogin Anna Amalia Bibliothek, Ma. 487.85 Cfr. F. Nietzsche. Le parole e le immagini, a cura di P.G. Carizzoni, Milano 1995.86 Nietzsche conclude con queste stesse parole una lettera del luglio 1879. È probabile, quindi, che la lettera e la fotografia siano coeve. Cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 896 a Paul Ree, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 384.87 Weimar, Herzogin Anna Amalia Bibliothek, Ma. 487, cit., p. 130.88    Ivi, p. 148.89    Cfr. ivi, p. 7. Il pastore Cari Ludwig Nietzsche, in effetti, era morto a Röcken nel 1849 e solo nel 1850 la vedova Nietzsche si era trasferita a Naumburg con i due figli, Friedrich ed Elisabeth, di sei e quattro anni.90    Cft. ivi, p. 76.91    Ivi, p. 90.92 Cfr. ivi, p. 100.93    Cfr. ivi, p. 118.94    Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou von Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, cit., lettera di Elisabeth Nietzsche a Ida Overbeck a Basilea, Naumburg, 29 gennaio 1883,p. 28995    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Bd. I, Leipzig 1895, p. 5.96    F. Kögel, Friedrich Nietzsche und Frau Lou Andreas-Salomé, in «Das Magazin für Litteratur», 23 febbraio 1895, col. 228.97    ibidem.98    Ivi, col. 229.99    Ivi, col. 233.100    Ivi, col. 230.101    Ivi, col. 232.

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102 Cfr. ivi, col. 231. La lettera di Nietzsche a cui Kögel fa riferimento risale non al maggio 1878, bensì al giugno dello stesso anno e il suo contenuto andrebbe contestualizzato. Si tratta, infatti, di una risposta a una lettera di Erwin Rohde il quale, dopo aver letto Umano, troppo umano, aveva scritto a Nietzsche: «La mia sorpresa per quest’ultimo Nietzschianum è stata, come puoi bene immaginarti, grandissima: è inevitabile quando dal calidarium si viene cacciati direttamente in un gelido frigidarium. Ti dico ora, in tutta sincerità, amico mio, che questa sorpresa non è stata priva di sensazioni dolorose. Come ci si può svestire in questo modo della propria anima e prendere quella di un altro? Invece di Nietzsche, diventare improvvisamente Rèe? ». Ed ecco la risposta di Nietzsche: «Tra parentesi: cerca sempre me nel mio libro e non l’amico Ree. Sono fiero di aver scoperto le sue splendide qualità e aspirazioni, ma sulla concezione della mia “philosophia in nuce” lui non ha esercitato la benché minima influenza: questa era pronta e in buona parte già affidata alla carta quando lo conobbi più da vicino nell’autunno del 1876»: E Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 727 a Erwin Rohde, Basilea, poco dopo il 16 giugno 1878, p. 279 e, per la lettera di Rohde, le «Notizie e note» allo stesso volume, p. 568.103 E. Kögel, Friedrich Nietzsche und Frau Lou Andreas-Salomé, cit., col. 232.104 Ivi, col. 234.105 Ivi, col. 235.106 Cfr. Nietzsche und seine Bedeutung, in «Der Kunstwart», marzo 1895, pp. 177-181; P.L., Zur Nietzsche Litteratur, in «Allgemeine Zeitung», 94, 1895. Le difese del libro di Andreas-Salomé nei confronti delle critiche di Kögel vennero prese da quel Heinrich Romundt che era stato collega di Nietzsche all’università di Lipsia e, successivamente, tra i frequentatori del salotto berlinese di Lou e Rèe. Cfr. H. Romundt, Noch einmal Friedrich Nietzsche und Frau Lou Andreas-Salomé, in «Das Magazin für Littérature, 27 aprile 1895, coll. 523-526.108 R. Steiner, Friedrich Nietzsche. Ein Kämpfer gegen seine Zeit, Weimar 1895, pp. VIII-IX. Il titolo dell’opera, che in italiano suona Friedrich Nietzsche. Un lottatore contro il suo tempo, è una reminiscenza della Seconda Inattuale, nella quale Nietzsche aveva scritto: « E se desiderate biografie, allora che non siano quelle col ritornello “Il signor Taldeitali e il suo tempo”, ma quelle sul cui frontespizio si dovrebbe leggere: “Un lottatore contro il suo tempo”»: E Nietzsche, Considerazioni Inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta in Opere, cit., vol. III, tomo 1, p. 312.109    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Bd. II, Leipzig 1897, Vorwort, p. vn. La tesi del legame strettissimo fra genio e follia era stata sostenuta da Max Nordau nelle pagine dedicate a Nietzsche di Entartung, z Bde., Berlin 1892-1893, Bd. II, pp. 272-357.110    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche’s, Bd. II, Leipzig 1904, p. 402.111 Ivi, p. 403.

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112    Ibidem.113    Ivi, p. 404.114 Ivi, pp. 404-405. Cfr. F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., vol. III, tomo 1, lettera n. 436 a Louise von Salomé a Pietroburgo, abbozzo, Sils-Maria, metà luglio 1883, pp. 402-403. Per la verità, Nietzsche si era spinto tanto oltre da giungere ad apostrofare la donna, che evidentemente ancora amava, con questo genere di epiteti: « Quella scimmietta magra e sudicia e nauseabonda con i suoi seni falsi» (ivi, lettera n. 435 a Georg Rèe, abbozzo, Sils-Maria, metà luglio 1883, p. 402). Tuttavia, secondo Mazzino Montinari (M. Montinari, Lou o dell’egoismo, in Su Nietzsche, Roma 1981, p. 46) il giudizio più sereno e sincero di Nietzsche su Lou Salomé si trova in una lettera successiva, indirizzata proprio a sua sorella Elisabeth, nella quale il filosofo scrive: « Una cosa è certa: di tutte le conoscenze che ho fatto, quella con Lou è una delle più preziose e delle più feconde. Solo a partire da questo rapporto divenni maturo per il mio Zarathustra» (F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., lettera n. 481 a Elisabeth Nietzsche a Naumburg, abbozzo, Nizza, gennaio-febbraio 1884, p. 467).115    E. Förster-Nietzsche, Das Leben Friedrich Nietzsche's, Bd. II, Leipzig 1904, p. 406.116    Ivi, p. 408.117 Ivi, pp. 410-411.118 Cfr. ivi, p. 411.119 L. Andreas-Salomé, II mito di una donna, cit., p. 81.120 Cfr. la già citata edizione: L. Andreas-Salomé, Nietzsche. Una biografia intellettuale.

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APPENDICE ICONOGRAFICA

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Friedrich Nietzsche, settembre 1882. (Fotografia di Gustav Schultze)

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In alto: il padre, Carl Ludwig Nietzsche, nel 1848, un anno prima della sua morte. In basso: la casa a Röcken, presso Lützen, dove Friedrich Nietzsche nasce il 15 ottobre 1844.

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In alto: la madre, Franziska Nietzsche, nata Oehler, nel 1850. In basso: la casa di Naumburg (Weingarten 18), dove la madre si stabilisce con i figli nel 1850 e dove vivrà sino alla morte.

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Elisabeth Nietzsche, nata il 10 luglio 1846, a quattordici anni. Il terzogenito, Joseph, nato il 27 febbraio 1848, muore il 9 gennaio 1850.

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Nietzsche nel 1861. (Fotografia di Gustav Schultze)

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Nietzsche nel giugno del 1862, all’epoca in cui è studente alla scuola di Pforta. (Fotografie di Ferdinand Henning)

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Arthur Schopenhauer. Nietzsche legge il suo capolavoro, II mondo come volontà e rappresentazione, a Lipsia, alla fine di ottobre del 1865. Il 15 ottobre 1874 gli dedicherà la terza

Considerazione Inattuale: Schopenhauer come educatore.

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Friedrich Nietzsche nel dicembre 1864, studente all’università di Bonn, prima di trasferirsi all’università di Lipsia, per seguire il suo professore di filologia classica Friedrich Ritschl.

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In alto: l’Associazione filologica di Lipsia nel 1866: in primo piano, a sinistra, Friedrich Nietzsche, a destra, Erwin Rohde. In basso: la casa dei Wagner a Tribschen, presso Lucerna, dove Nietzsche

si reca ripetutamente in visita, dal 1869 al 1872.

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In divisa da artigliere a cavallo, 1868. Nell’ottobre 1867 Nietzsche inizia il servizio militare a Naumburg. Viene congedato, in seguito a una caduta da cavallo, nel marzo 1868.

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In alto: Cosima e Richard Wagner con il figlio Siegfried nel 1873. In basso: il teatro di Bayreuth in costruzione. La prima pietra fu posta il 22 maggio 1872.

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Nietzsche con gli amici Erwin Rohde e Carl von Gersdorff, ottobre 1871. (Fotografia di Ferdinand Henning)

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Jacob Burckhardt nel 1892.

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Nietzsche nel 1872. (Fotografia di F. Hartmann)

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In alto: Peter Gast, pseudonimo di Heinrich Köselitz. In basso: la cartolina postale che Nietzsche gli inviò l’11 febbraio 1882 da Genova.

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Nietzsche nel 1874. (Fotografia di F. Hartmann)

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Franz e Ida Overbeck nel 1875. Sarà Overbeck a raggiungere l’amico a Torino, l’8 gennaio 1889, dopo aver ricevuto uno dei «biglietti della follia», e a condurlo, due giorni dopo, nella clinica

psichiatrica di Basilea. (Fotografia di Louis Zipfel)

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Frontespizio manoscritto di Umano, troppo umano, del 1878, che segna la definitiva rottura con Richard Wagner.

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Malwida von Meysenbug nel 1880.

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Lou von Salomé, Paul Rèe e Friedrich Nietzsche, maggio 1882. (Fotografia di Jules Bonnet)

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In alto: Elisabeth Nietzsche nel 1875.In basso: la madre, Franziska Nietzsche, nel 1869.

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Lou von Salomé, nel 1886, quando, dopo una convivenza di alcuni anni con Paul Rèe, è fidanzata con Friedrich Carl Andreas, che sposerà l’anno successivo.

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In alto: la macchina per scrivere di Nietzsche. In basso: una pagina dattiloscritta datata 17 febbraio 1882.

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Nietzsche nel 1882.

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La copia di Nietzsche del libretto del Parsifal di Richard Wagner, che muore a Venezia il 13 febbraio 1883.

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Lettera da Rapallo a Peter Gast del 1° febbraio 1883, in cui Nietzsche gli annuncia la nascita di quella che sarà la « prima parte» di Così parlò Zarathustra.

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In alto: una veduta di Sils-Maria, dove nel luglio 1883 Nietzsche compie la stesura della «seconda parte» di Così parlò Zarathustra. In basso: Casa Durisch (oggi Casa Nietzsche) a Sils-Maria, dove

Nietzsche alloggiava, in una stanza, durante i lunghi soggiorni estivi, dal 1881 al 1888.

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Il canto del nottambulo » di Così parlò Zarathustra. Il titolo fu modificato da Nietzsche sul suo esemplare personale in «Il canto ebbro».

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In alto: August Strindberg, con cui Nietzsche stabilisce un rapporto epistolare alla fine del 1888. In basso: la famiglia Fino, che gli affittò una stanza a Torino, dal 30 settembre 1888 al 10 gennaio

1889.

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Manoscritto del Crepuscolo degli idoli, del 1888.

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I «biglietti della follia »: a Cosima Wagner, 3 gennaio 1889, e a Franz Overbeck, 5-6 gennaio 1889.

Page 226: Friedrich Nietzsche - Lou Andreas-Salome

I «biglietti della follia»: a Peter Gast, 3 gennaio 1889, e a Jacob Burckhardt, 6 gennaio 1889.

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Elisabeth Förster-Nietzsche nel 1894. (Fotografia di F. Hertel)

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Nietzsche nel maggio 1891 con la madre, a cui viene affidato dopo essere stato dimesso, l’anno precedente, dalla clinica psichiatrica di Jena. La madre lo assisterà nella loro casa di Naumburg,

sino alla sua morte, avvenuta il 20 aprile 1897.

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Nietzsche nel maggio 1899. (Fotografie di Hans Olde)

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In alto: Lou Andreas-Salomé con Rainer Maria Rilke in Russia nel 1899. In basso: il frontespizio di Friedrich Nietzsche in seinen Werken.

Page 232: Friedrich Nietzsche - Lou Andreas-Salome

In alto: Villa Silberblick a Weimar, acquistata nel 1897 da Elisabeth con l’aiuto di Meta von Salis, dove Friedrich Nietzsche muore, il 25 agosto 1900, In basso: una stanza del Nietzsche-Archiv a

Weimar.

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Curt Stoeving, Friedrich Nietzsche tra le fronde, 1896.


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